LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri INFERNO CANTO I [Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virt. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.] Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ch la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant' amara che poco pi morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, dir de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. Io non so ben ridir com' i' v'intrai, tant' era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch'i' fui al pi d'un colle giunto, l dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite gi de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta. E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata, cos l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasci gi mai persona viva. Poi ch'i posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, s che 'l pi fermo sempre era 'l pi basso. Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggiera e presta molto, che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar pi volte vlto. Temp' era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n s con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino mosse di prima quelle cose belle; s ch'a bene sperar m'era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non s che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone. Questi parea che contra me venisse con la test' alta e con rabbiosa fame, s che parea che l'aere ne tremesse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti f gi viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza. E qual quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva l dove 'l sol tace. Mentre ch'i' rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, Miserere di me, gridai a lui, qual che tu sii, od ombra od omo certo!. Rispuosemi: Non omo, omo gi fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patra ambedui. Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li di falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Iln fu combusto. Ma tu perch ritorni a tanta noia? perch non sali il dilettoso monte ch' principio e cagion di tutta gioia?. Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar s largo fiume?, rispuos' io lui con vergognosa fronte. O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore. Vedi la bestia per cu' io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi. A te convien tenere altro vaggio, rispuose, poi che lagrimar mi vide, se vuo' campar d'esto loco selvaggio; ch questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide; e ha natura s malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo 'l pasto ha pi fame che pria. Molti son li animali a cui s'ammoglia, e pi saranno ancora, infin che 'l veltro verr, che la far morir con doglia. Questi non ciber terra n peltro, ma sapenza, amore e virtute, e sua nazion sar tra feltro e feltro. Di quella umile Italia fia salute per cui mor la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute. Questi la caccer per ogne villa, fin che l'avr rimessa ne lo 'nferno, l onde 'nvidia prima dipartilla. Ond' io per lo tuo me' penso e discerno che tu mi segui, e io sar tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch'a la seconda morte ciascun grida; e vederai color che son contenti nel foco, perch speran di venire quando che sia a le beate genti. A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ci pi di me degna: con lei ti lascer nel mio partire; ch quello imperador che l s regna, perch' i' fu' ribellante a la sua legge, non vuol che 'n sua citt per me si vegna. In tutte parti impera e quivi regge; quivi la sua citt e l'alto seggio: oh felice colui cu' ivi elegge!. E io a lui: Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, a ci ch'io fugga questo male e peggio, che tu mi meni l dov' or dicesti, s ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti. Allor si mosse, e io li tenni dietro. CANTO II [Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cio a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trov Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.] Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno m'apparecchiava a sostener la guerra s del cammino e s de la pietate, che ritrarr la mente che non erra. O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; o mente che scrivesti ci ch'io vidi, qui si parr la tua nobilitate. Io cominciai: Poeta che mi guidi, guarda la mia virt s'ell' possente, prima ch'a l'alto passo tu mi fidi. Tu dici che di Silvo il parente, corruttibile ancora, ad immortale secolo and, e fu sensibilmente. Per, se l'avversario d'ogne male cortese i fu, pensando l'alto effetto ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale non pare indegno ad omo d'intelletto; ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero ne l'empireo ciel per padre eletto: la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santo u' siede il successor del maggior Piero. Per quest' andata onde li dai tu vanto, intese cose che furon cagione di sua vittoria e del papale ammanto. Andovvi poi lo Vas d'elezone, per recarne conforto a quella fede ch' principio a la via di salvazione. Ma io, perch venirvi? o chi 'l concede? Io non Ena, io non Paulo sono; me degno a ci n io n altri 'l crede. Per che, se del venire io m'abbandono, temo che la venuta non sia folle. Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono. E qual quei che disvuol ci che volle e per novi pensier cangia proposta, s che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec' o 'n quella oscura costa, perch, pensando, consumai la 'mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta. S'i' ho ben la parola tua intesa, rispuose del magnanimo quell' ombra, l'anima tua da viltade offesa; la qual molte fate l'omo ingombra s che d'onrata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand' ombra. Da questa tema acci che tu ti solve, dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi nel primo punto che di te mi dolve. Io era tra color che son sospesi, e donna mi chiam beata e bella, tal che di comandare io la richiesi. Lucevan li occhi suoi pi che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella: "O anima cortese mantoana, di cui la fama ancor nel mondo dura, e durer quanto 'l mondo lontana, l'amico mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia impedito s nel cammin, che vlt' per paura; e temo che non sia gi s smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata, per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito. Or movi, e con la tua parola ornata e con ci c'ha mestieri al suo campare, l'aiuta s ch'i' ne sia consolata. I' son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare. Quando sar dinanzi al segnor mio, di te mi loder sovente a lui". Tacette allora, e poi comincia' io: "O donna di virt sola per cui l'umana spezie eccede ogne contento di quel ciel c'ha minor li cerchi sui, tanto m'aggrada il tuo comandamento, che l'ubidir, se gi fosse, m' tardi; pi non t' uo' ch'aprirmi il tuo talento. Ma dimmi la cagion che non ti guardi de lo scender qua giuso in questo centro de l'ampio loco ove tornar tu ardi". "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, dirotti brievemente", mi rispuose, "perch' i' non temo di venir qua entro. Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male; de l'altre no, ch non son paurose. I' son fatta da Dio, sua merc, tale, che la vostra miseria non mi tange, n fiamma d'esto 'ncendio non m'assale. Donna gentil nel ciel che si compiange di questo 'mpedimento ov' io ti mando, s che duro giudicio l s frange. Questa chiese Lucia in suo dimando e disse: Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io a te lo raccomando . Lucia, nimica di ciascun crudele, si mosse, e venne al loco dov' i' era, che mi sedea con l'antica Rachele. Disse: Beatrice, loda di Dio vera, ch non soccorri quei che t'am tanto, ch'usc per te de la volgare schiera? Non odi tu la pieta del suo pianto, non vedi tu la morte che 'l combatte su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? . Al mondo non fur mai persone ratte a far lor pro o a fuggir lor danno, com' io, dopo cotai parole fatte, venni qua gi del mio beato scanno, fidandomi del tuo parlare onesto, ch'onora te e quei ch'udito l'hanno". Poscia che m'ebbe ragionato questo, li occhi lucenti lagrimando volse, per che mi fece del venir pi presto. E venni a te cos com' ella volse: d'inanzi a quella fiera ti levai che del bel monte il corto andar ti tolse. Dunque: che ? perch, perch restai, perch tanta vilt nel core allette, perch ardire e franchezza non hai, poscia che tai tre donne benedette curan di te ne la corte del cielo, e 'l mio parlar tanto ben ti promette?. Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec' io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch'i' cominciai come persona franca: Oh pietosa colei che mi soccorse! e te cortese ch'ubidisti tosto a le vere parole che ti porse! Tu m'hai con disiderio il cor disposto s al venir con le parole tue, ch'i' son tornato nel primo proposto. Or va, ch'un sol volere d'ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro. Cos li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro. CANTO III [Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parl a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.] 'Per me si va ne la citt dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate, la somma sapenza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'. Queste parole di colore oscuro vid' o scritte al sommo d'una porta; per ch'io: Maestro, il senso lor m' duro. Ed elli a me, come persona accorta: Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne vilt convien che qui sia morta. Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto che tu vedrai le genti dolorose c'hanno perduto il ben de l'intelletto. E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond' io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose. Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle, per ch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell' aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira. E io ch'avea d'error la testa cinta, dissi: Maestro, che quel ch'i' odo? e che gent' che par nel duol s vinta?. Ed elli a me: Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli n fur fedeli a Dio, ma per s fuoro. Caccianli i ciel per non esser men belli, n lo profondo inferno li riceve, ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli. E io: Maestro, che tanto greve a lor che lamentar li fa s forte?. Rispuose: Dicerolti molto breve. Questi non hanno speranza di morte, e la lor cieca vita tanto bassa, che 'nvidosi son d'ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa. E io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta, che d'ogne posa mi parea indegna; e dietro le vena s lunga tratta di gente, ch'i' non averei creduto che morte tanta n'avesse disfatta. Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d'i cattivi, a Dio spiacenti e a' nemici sui. Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch'eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a' lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto. E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, vidi genti a la riva d'un gran fiume; per ch'io dissi: Maestro, or mi concedi ch'i' sappia quali sono, e qual costume le fa di trapassar parer s pronte, com' i' discerno per lo fioco lume. Ed elli a me: Le cose ti fier conte quando noi fermerem li nostri passi su la trista riviera d'Acheronte. Allor con li occhi vergognosi e bassi, temendo no 'l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi. Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i' vegno per menarvi a l'altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo. E tu che se' cost, anima viva, prtiti da cotesti che son morti. Ma poi che vide ch'io non mi partiva, disse: Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: pi lieve legno convien che ti porti. E 'l duca lui: Caron, non ti crucciare: vuolsi cos col dove si puote ci che si vuole, e pi non dimandare. Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier de la livida palude, che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude, cangiar colore e dibattero i denti, ratto che 'nteser le parole crude. Bestemmiavano Dio e lor parenti, l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti. Poi si ritrasser tutte quante insieme, forte piangendo, a la riva malvagia ch'attende ciascun uom che Dio non teme. Caron dimonio, con occhi di bragia loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s'adagia. Come d'autunno si levan le foglie l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similemente il mal seme d'Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo. Cos sen vanno su per l'onda bruna, e avanti che sien di l discese, anche di qua nuova schiera s'auna. Figliuol mio, disse 'l maestro cortese, quelli che muoion ne l'ira di Dio tutti convegnon qui d'ogne paese; e pronti sono a trapassar lo rio, ch la divina giustizia li sprona, s che la tema si volve in disio. Quinci non passa mai anima buona; e per, se Caron di te si lagna, ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona. Finito questo, la buia campagna trem s forte, che de lo spavento la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento, che balen una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l'uom cui sonno piglia. CANTO IV [Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Ges Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Ies Cristo trasse di questo luogo molte anime.] Ruppemi l'alto sonno ne la testa un greve truono, s ch'io mi riscossi come persona ch' per forza desta; e l'occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dov' io fossi. Vero che 'n su la proda mi trovai de la valle d'abisso dolorosa che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa. Or discendiam qua gi nel cieco mondo, cominci il poeta tutto smorto. Io sar primo, e tu sarai secondo. E io, che del color mi fui accorto, dissi: Come verr, se tu paventi che suoli al mio dubbiare esser conforto?. Ed elli a me: L'angoscia de le genti che son qua gi, nel viso mi dipigne quella piet che tu per tema senti. Andiam, ch la via lunga ne sospigne. Cos si mise e cos mi f intrare nel primo cerchio che l'abisso cigne. Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri che l'aura etterna facevan tremare; ci avvenia di duol sanza martri, ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, d'infanti e di femmine e di viri. Lo buon maestro a me: Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? Or vo' che sappi, innanzi che pi andi, ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, non basta, perch non ebber battesmo, ch' porta de la fede che tu credi; e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio: e di questi cotai son io medesmo. Per tai difetti, non per altro rio, semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio. Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, per che gente di molto valore conobbi che 'n quel limbo eran sospesi. Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore, comincia' io per volere esser certo di quella fede che vince ogne errore: uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?. E quei che 'ntese il mio parlar coverto, rispuose: Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato. Trasseci l'ombra del primo parente, d'Abl suo figlio e quella di No, di Mos legista e ubidente; Abram patrarca e Davd re, Isral con lo padre e co' suoi nati e con Rachele, per cui tanto f, e altri molti, e feceli beati. E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati. Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi, ma passavam la selva tuttavia, la selva, dico, di spiriti spessi. Non era lunga ancor la nostra via di qua dal sonno, quand' io vidi un foco ch'emisperio di tenebre vincia. Di lungi n'eravamo ancora un poco, ma non s ch'io non discernessi in parte ch'orrevol gente possedea quel loco. O tu ch'onori scenza e arte, questi chi son c'hanno cotanta onranza, che dal modo de li altri li diparte?. E quelli a me: L'onrata nominanza che di lor suona s ne la tua vita, graza acquista in ciel che s li avanza. Intanto voce fu per me udita: Onorate l'altissimo poeta; l'ombra sua torna, ch'era dipartita. Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand' ombre a noi venire: sembianz' avevan n trista n lieta. Lo buon maestro cominci a dire: Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre s come sire: quelli Omero poeta sovrano; l'altro Orazio satiro che vene; Ovidio 'l terzo, e l'ultimo Lucano. Per che ciascun meco si convene nel nome che son la voce sola, fannomi onore, e di ci fanno bene. Cos vid' i' adunar la bella scola di quel segnor de l'altissimo canto che sovra li altri com' aquila vola. Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, e 'l mio maestro sorrise di tanto; e pi d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' s mi fecer de la loro schiera, s ch'io fui sesto tra cotanto senno. Cos andammo infino a la lumera, parlando cose che 'l tacere bello, s com' era 'l parlar col dov' era. Venimmo al pi d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura, difeso intorno d'un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi, di grande autorit ne' lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci cos da l'un de' canti, in loco aperto, luminoso e alto, s che veder si potien tutti quanti. Col diritto, sovra 'l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso m'essalto. I' vidi Eletra con molti compagni, tra ' quai conobbi Ettr ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni. Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l'altra parte vidi 'l re Latino che con Lavina sua figlia sedea. Vidi quel Bruto che cacci Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marza e Corniglia; e solo, in parte, vidi 'l Saladino. Poi ch'innalzai un poco pi le ciglia, vidi 'l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia. Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid' o Socrate e Platone, che 'nnanzi a li altri pi presso li stanno; Democrito che 'l mondo a caso pone, Dogens, Anassagora e Tale, Empedocls, Eraclito e Zenone; e vidi il buono accoglitor del quale, Dascoride dico; e vidi Orfeo, Tulo e Lino e Seneca morale; Euclide geomtra e Tolomeo, Ipocrte, Avicenna e Galeno, Averos, che 'l gran comento feo. Io non posso ritrar di tutti a pieno, per che s mi caccia il lungo tema, che molte volte al fatto il dir vien meno. La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l'aura che trema. E vegno in parte ove non che luca. CANTO V [Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di pi famosi gentili uomini.] Cos discesi del cerchio primaio gi nel secondo, che men loco cinghia e tanto pi dolor, che punge a guaio. Stavvi Mins orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che gi sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son gi volte. O tu che vieni al doloroso ospizio, disse Mins a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, guarda com' entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!. E 'l duca mio a lui: Perch pur gride? Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi cos col dove si puote ci che si vuole, e pi non dimandare. Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto l dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virt divina. Intesi ch'a cos fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, cos quel fiato li spiriti mali di qua, di l, di gi, di s li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di s lunga riga, cos vid' io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera s gastiga?. La prima di color di cui novelle tu vuo' saper, mi disse quelli allotta, fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu s rotta, che libito f licito in sua legge, per trre il biasmo in che era condotta. Ell' Semirams, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge. L'altra colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi Cleopatrs lussurosa. Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo. Vedi Pars, Tristano; e pi di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, piet mi giunse, e fui quasi smarrito. I' cominciai: Poeta, volontieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, e paion s al vento esser leggieri. Ed elli a me: Vedrai quando saranno pi presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno. S tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega!. Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov' Dido, a noi venendo per l'aere maligno, s forte fu l'affettoso grido. O animal grazoso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c'hai piet del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer s forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense. Queste parole da lor ci fuor porte. Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: Che pense?. Quando rispuosi, cominciai: Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio men costoro al doloroso passo!. Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: Francesca, i tuoi martri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?. E quella a me: Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ci sa 'l tuo dottore. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dir come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per pi fate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basci tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno pi non vi leggemmo avante. Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro pianga; s che di pietade io venni men cos com' io morisse. E caddi come corpo morto cade. CANTO VI [Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere pi cose a divenire a la citt di Fiorenza.] Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la piet d'i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch'io mi mova e ch'io mi volga, e come che io guati. Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualit mai non l' nova. Grandine grossa, acqua tinta e neve per l'aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve. Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e 'l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. Urlar li fa la pioggia come cani; de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani. Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gitt dentro a le bramose canne. Qual quel cane ch'abbaiando agogna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, ch solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime s, ch'esser vorrebber sorde. Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanit che par persona. Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si lev, ratto ch'ella ci vide passarsi davante. O tu che se' per questo 'nferno tratto, mi disse, riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto. E io a lui: L'angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, s che non par ch'i' ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se' che 'n s dolente loco se' messo, e hai s fatta pena, che, s'altra maggio, nulla s spiacente. Ed elli a me: La tua citt, ch' piena d'invidia s che gi trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. E io anima trista non son sola, ch tutte queste a simil pena stanno per simil colpa. E pi non f parola. Io li rispuosi: Ciacco, il tuo affanno mi pesa s, ch'a lagrimar mi 'nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la citt partita; s'alcun v' giusto; e dimmi la cagione per che l'ha tanta discordia assalita. E quelli a me: Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccer l'altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l'altra sormonti con la forza di tal che test piaggia. Alte terr lungo tempo le fronti, tenendo l'altra sotto gravi pesi, come che di ci pianga o che n'aonti. Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c'hanno i cuori accesi. Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: Ancor vo' che mi 'nsegni e che di pi parlar mi facci dono. Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor s degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; ch gran disio mi stringe di savere se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca. E quelli: Ei son tra l'anime pi nere; diverse colpe gi li grava al fondo: se tanto scendi, l i potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: pi non ti dico e pi non ti rispondo. Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chin la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. E 'l duca disse a me: Pi non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, quando verr la nimica podesta: ciascun riveder la trista tomba, ripiglier sua carne e sua figura, udir quel ch'in etterno rimbomba. S trapassammo per sozza mistura de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura; per ch'io dissi: Maestro, esti tormenti crescerann' ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran s cocenti?. Ed elli a me: Ritorna a tua scenza, che vuol, quanto la cosa pi perfetta, pi senta il bene, e cos la doglienza. Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion gi mai non vada, di l pi che di qua essere aspetta. Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando pi assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada: quivi trovammo Pluto, il gran nemico. CANTO VII [Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalit; e del dimonio Pluto; e quello che fortuna.] Pape Satn, pape Satn aleppe!, cominci Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: Non ti noccia la tua paura; ch, poder ch'elli abbia, non ci torr lo scender questa roccia. Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia. Non sanza cagion l'andare al cupo: vuolsi ne l'alto, l dove Michele f la vendetta del superbo strupo. Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele. Cos scendemmo ne la quarta lacca, pigliando pi de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant' io viddi? e perch nostra colpa s ne scipa? Come fa l'onda l sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, cos convien che qui la gente riddi. Qui vid' i' gente pi ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand' urli, voltando pesi per forza di poppa. Percotansi 'ncontro; e poscia pur l si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: Perch tieni? e Perch burli?. Cos tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand' era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto, dissi: Maestro mio, or mi dimostra che gente questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra. Ed elli a me: Tutti quanti fuor guerci s de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l'abbaia, quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia. Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio. E io: Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali. Ed elli a me: Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i f sozzi, ad ogne conoscenza or li fa bruni. In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro. Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d'i ben che son commessi a la fortuna, per che l'umana gente si rabuffa; ch tutto l'oro ch' sotto la luna e che gi fu, di quest' anime stanche non poterebbe farne posare una. Maestro mio, diss' io, or mi d anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che , che i ben del mondo ha s tra branche?. E quelli a me: Oh creature sciocche, quanta ignoranza quella che v'offende! Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e di lor chi conduce s, ch'ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordin general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani; per ch'una gente impera e l'altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri di. Le sue permutazion non hanno triegue: necessit la fa esser veloce; s spesso vien chi vicenda consegue. Quest' colei ch' tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s' beata e ci non ode: con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. Or discendiamo omai a maggior pieta; gi ogne stella cade che saliva quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta. Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr' una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva. L'acqua era buia assai pi che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo gi per una via diversa. In la palude va c'ha nome Stige questo tristo ruscel, quand' disceso al pi de le maligne piagge grige. E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua gente che sospira, e fanno pullular quest' acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira. Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra". Quest' inno si gorgoglian ne la strozza, ch dir nol posson con parola integra. Cos girammo de la lorda pozza grand' arco, tra la ripa secca e 'l mzzo, con li occhi vlti a chi del fango ingozza. Venimmo al pi d'una torre al da sezzo. CANTO VIII [Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la citt d'inferno detta Dite.] Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al pi de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un'altra da lungi render cenno, tanto ch'a pena il potea l'occhio trre. E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: Questo che dice? e che risponde quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?. Ed elli a me: Su per le sucide onde gi scorgere puoi quello che s'aspetta, se 'l fummo del pantan nol ti nasconde. Corda non pinse mai da s saetta che s corresse via per l'aere snella, com' io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto, che gridava: Or se' giunta, anima fella!. Flegs, Flegs, tu gridi a vto, disse lo mio segnore, a questa volta: pi non ci avrai che sol passando il loto. Qual colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegs ne l'ira accolta. Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand' io fui dentro parve carca. Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora de l'acqua pi che non suol con altrui. Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: Chi se' tu che vieni anzi ora?. E io a lui: S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che s se' fatto brutto?. Rispuose: Vedi che son un che piango. E io a lui: Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto. Allor distese al legno ambo le mani; per che 'l maestro accorto lo sospinse, dicendo: Via cost con li altri cani!. Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi 'l volto e disse: Alma sdegnosa, benedetta colei che 'n te s'incinse! Quei fu al mondo persona orgogliosa; bont non che sua memoria fregi: cos s' l'ombra sua qui furosa. Quanti si tegnon or l s gran regi che qui staranno come porci in brago, di s lasciando orribili dispregi!. E io: Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago. Ed elli a me: Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal diso convien che tu goda. Dopo ci poco vid' io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: A Filippo Argenti!; e 'l fiorentino spirito bizzarro in s medesmo si volvea co' denti. Quivi il lasciammo, che pi non ne narro; ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, per ch'io avante l'occhio intento sbarro. Lo buon maestro disse: Omai, figliuolo, s'appressa la citt c'ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo. E io: Maestro, gi le sue meschite l entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite fossero. Ed ei mi disse: Il foco etterno ch'entro l'affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno. Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte Usciteci, grid: qui l'intrata. Io vidi pi di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: Chi costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?. E 'l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: Vien tu solo, e quei sen vada che s ardito intr per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ch tu qui rimarrai, che li ha' iscorta s buia contrada. Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ch non credetti ritornarci mai. O caro duca mio, che pi di sette volte m'hai sicurt renduta e tratto d'alto periglio che 'ncontra mi stette, non mi lasciar, diss' io, cos disfatto; e se 'l passar pi oltre ci negato, ritroviam l'orme nostre insieme ratto. E quel segnor che l m'avea menato, mi disse: Non temer; ch 'l nostro passo non ci pu trre alcun: da tal n' dato. Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch'i' non ti lascer nel mondo basso. Cos sen va, e quivi m'abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che s e no nel capo mi tenciona. Udir non potti quello ch'a lor porse; ma ei non stette l con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari. Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: Chi m'ha negate le dolenti case!. E a me disse: Tu, perch' io m'adiri, non sbigottir, ch'io vincer la prova, qual ch'a la difension dentro s'aggiri. Questa lor tracotanza non nova; ch gi l'usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova. Sovr' essa vedest la scritta morta: e gi di qua da lei discende l'erta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta. CANTO IX [Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite, la qual si nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi messa la qualit de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo s esservi stato dentro altra fiata.] Quel color che vilt di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, pi tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si ferm com' uom ch'ascolta; ch l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta. Pur a noi converr vincer la punga, cominci el, se non... Tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!. I' vidi ben s com' ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perch' io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?. Questa question fec' io; e quei Di rado incontra, mi rispuose, che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver ch'altra fata qua gi fui, congiurato da quella Eritn cruda che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell' 'l pi basso loco e 'l pi oscuro, e 'l pi lontan dal ciel che tutto gira: ben so 'l cammin; per ti fa sicuro. Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la citt dolente, u' non potemo intrare omai sanz' ira. E altro disse, ma non l'ho a mente; per che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre fure infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, Guarda, mi disse, le feroci Erine. Quest' Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro Aletto; Tesifn nel mezzo; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan s alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto. Vegna Medusa: s 'l farem di smalto, dicevan tutte riguardando in giuso; mal non vengiammo in Teso l'assalto. Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ch se 'l Gorgn si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso. Cos disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani. E gi vena su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz' alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. Li occhi mi sciolse e disse: Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo pi acerbo. Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid' io pi di mille anime distrutte fuggir cos dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell' aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell' angoscia parea lasso. Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei f segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno. O cacciati del ciel, gente dispetta, cominci elli in su l'orribil soglia, ond' esta oltracotanza in voi s'alletta? Perch recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che pi volte v'ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo. Poi si rivolse per la strada lorda, e non f motto a noi, ma f sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li davante; e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante. Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com' io fui dentro, l'occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio. S come ad Arli, ove Rodano stagna, s com' a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt' il loco varo, cos facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era pi amaro; ch tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran s del tutto accesi, che ferro pi non chiede verun' arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan s duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi. E io: Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell' arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?. E quelli a me: Qui son li eresarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto pi che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile sepolto, e i monimenti son pi e men caldi. E poi ch'a la man destra si fu vlto, passammo tra i martri e li alti spaldi. CANTO X [Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.] Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. O virt somma, che per li empi giri mi volvi, cominciai, com' a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? gi son levati tutt' i coperchi, e nessun guardia face. E quelli a me: Tutti saran serrati quando di Iosaft qui torneranno coi corpi che l s hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno. Per a la dimanda che mi faci quinc' entro satisfatto sar tosto, e al disio ancor che tu mi taci. E io: Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m'hai non pur mo a ci disposto. O Tosco che per la citt del foco vivo ten vai cos parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patra natio, a la qual forse fui troppo molesto. Subitamente questo suono usco d'una de l'arche; per m'accostai, temendo, un poco pi al duca mio. Ed el mi disse: Volgiti! Che fai? Vedi l Farinata che s' dritto: da la cintola in s tutto 'l vedrai. Io avea gi il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com' avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: Le parole tue sien conte. Com' io al pi de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimand: Chi fuor li maggior tui?. Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel' apersi; ond' ei lev le ciglia un poco in suso; poi disse: Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, s che per due fate li dispersi. S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte, rispuos' io lui, l'una e l'altra fata; ma i vostri non appreser ben quell' arte. Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guard, come talento avesse di veder s'altri era meco; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov' ? e perch non teco?. E io a lui: Da me stesso non vegno: colui ch'attende l, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno. Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui gi letto il nome; per fu la risposta cos piena. Di sbito drizzato grid: Come? dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?. Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io faca dinanzi a la risposta, supin ricadde e pi non parve fora. Ma quell' altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mut aspetto, n mosse collo, n pieg sua costa; e s continando al primo detto, S'elli han quell' arte, disse, male appresa, ci mi tormenta pi che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell' arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perch quel popolo s empio incontr' a' miei in ciascuna sua legge?. Ond' io a lui: Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio. Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, A ci non fu' io sol, disse, n certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu' io solo, l dove sofferto fu per ciascun di trre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto. Deh, se riposi mai vostra semenza, prega' io lui, solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo. Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose, disse, che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Per comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta. Allor, come di mia colpa compunto, dissi: Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato co' vivi ancor congiunto; e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perch pensava gi ne l'error che m'avete soluto. E gi 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto pi avaccio che mi dicesse chi con lu' istava. Dissemi: Qui con pi di mille giaccio: qua dentro 'l secondo Federico e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio. Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, cos andando, mi disse: Perch se' tu s smarrito?. E io li sodisfeci al suo dimando. La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te, mi comand quel saggio; e ora attendi qui, e drizz 'l dito: quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell' occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vaggio. Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin l s facea spiacer suo lezzo. CANTO XI [Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi pi che altrove; e solve una questione.] In su l'estremit d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra pi crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta che dicea: 'Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta'. Lo nostro scender conviene esser tardo, s che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo. Cos 'l maestro; e io Alcun compenso, dissi lui, trova che 'l tempo non passi perduto. Ed elli: Vedi ch'a ci penso. Figliuol mio, dentro da cotesti sassi, cominci poi a dir, son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti; ma perch poi ti basti pur la vista, intendi come e perch son costretti. D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, ingiuria 'l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. Ma perch frode de l'uom proprio male, pi spiace a Dio; e per stan di sotto li frodolenti, e pi dolor li assale. Di volenti il primo cerchio tutto; ma perch si fa forza a tre persone, in tre gironi distinto e costrutto. A Dio, a s, al prossimo si pne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. Puote omo avere in s man volenta e ne' suoi beni; e per nel secondo giron convien che sanza pro si penta qualunque priva s del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange l dov' esser de' giocondo. Puossi far forza ne la detade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; e per lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. La frode, ond' ogne coscenza morsa, pu l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsit, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. Per l'altro modo quell' amor s'oblia che fa natura, e quel ch' poi aggiunto, di che la fede spezal si cria; onde nel cerchio minore, ov' 'l punto de l'universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno consunto. E io: Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo bartro e 'l popol ch'e' possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con s aspre lingue, perch non dentro da la citt roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perch sono a tal foggia?. Ed elli a me Perch tanto delira, disse, lo 'ngegno tuo da quel che sle? o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che s di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perch da questi felli sien dipartiti, e perch men crucciata la divina vendetta li martelli. O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti s quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. Ancora in dietro un poco ti rivolvi, diss' io, l dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi. Filosofia, mi disse, a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; s che vostr' arte a Dio quasi nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genes dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; e perch l'usuriere altra via tene, per s natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in altro pon la spene. Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; ch i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via l oltra si dismonta. CANTO XII [Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio d'inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de' tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume.] Era lo loco ov' a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva. Qual quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano s la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi s fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infama di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, s stesso morse, s come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui grid: Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che s nel mondo la morte ti porse? Prtiti, bestia, ch questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene. Qual quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto gi 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e l saltella, vid' io lo Minotauro far cotale; e quello accorto grid: Corri al varco; mentre ch'e' 'nfuria, buon che tu ti cale. Cos prendemmo via gi per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: Tu pensi forse a questa ruina, ch' guardata da quell' ira bestial ch'i' ora spensi. Or vo' che sappi che l'altra fata ch'i' discesi qua gi nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda lev a Dite del cerchio superno, da tutte parti l'alta valle feda trem s, ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual chi creda pi volte il mondo in casso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ch s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per volenza in altrui noccia. Oh cieca cupidigia e ira folle, che s ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi s mal c'immolle! Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l pi de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l'un grid da lungi: A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l'arco tiro. Lo mio maestro disse: La risposta farem noi a Chirn cost di presso: mal fu la voglia tua sempre s tosta. Poi mi tent, e disse: Quelli Nesso, che mor per la bella Deianira, e f di s la vendetta elli stesso. E quel di mezzo, ch'al petto si mira, il gran Chirn, il qual nodr Achille; quell' altro Folo, che fu s pien d'ira. Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue pi che sua colpa sortille. Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirn prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: Siete voi accorti che quel di retro move ci ch'el tocca? Cos non soglion far li pi d'i morti. E 'l mio buon duca, che gi li er' al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: Ben vivo, e s soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessit 'l ci 'nduce, e non diletto. Tal si part da cantare alleluia che mi commise quest' officio novo: non ladron, n io anima fuia. Ma per quella virt per cu' io movo li passi miei per s selvaggia strada, danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri l dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ch non spirto che per l'aere vada. Chirn si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: Torna, e s li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa. Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni; quivi Alessandro, e Donisio fero che f Cicilia aver dolorosi anni. E quella fronte c'ha 'l pel cos nero, Azzolino; e quell' altro ch' biondo, Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro s nel mondo. Allor mi volsi al poeta, e quei disse: Questi ti sia or primo, e io secondo. Poco pi oltre il centauro s'affisse sovr' una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola. Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb' io. Cos a pi a pi si facea basso quel sangue, s che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. S come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema, disse 'l centauro, voglio che tu credi che da quest' altra a pi a pi gi prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. La divina giustizia di qua punge quell' Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra. Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo. CANTO XIII [Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone ch' nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra s medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo s ma guastando i loro beni.] Non era ancor di l Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tsco. Non han s aspri sterpi n s folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi clti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, pi con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E 'l buon maestro Prima che pi entre, sappi che se' nel secondo girone, mi cominci a dire, e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Per riguarda ben; s vederai cose che torrien fede al mio sermone. Io sentia d'ogne parte trarre guai e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai. Cred' o ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse. Per disse 'l maestro: Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c'hai si faran tutti monchi. Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo grid: Perch mi schiante?. Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominci a dir: Perch mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb' esser la tua man pi pia, se state fossimo anime di serpi. Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de' capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, s de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond' io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme. S'elli avesse potuto creder prima, rispuose 'l savio mio, anima lesa, ci c'ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, s che 'n vece d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi nel mondo s, dove tornar li lece. E 'l tronco: S col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch' o un poco a ragionar m'inveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, s soavi, che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi; fede portai al gloroso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiamm contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar s Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici d'esto legno vi giuro che gi mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor s degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede. Un poco attese, e poi Da ch'el si tace, disse 'l poeta a me, non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se pi ti piace. Ond' o a lui: Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; ch'i' non potrei, tanta piet m'accora. Perci ricominci: Se l'om ti faccia liberamente ci che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega. Allor soffi il tronco forte, e poi si convert quel vento in cotal voce: Brievemente sar risposto a voi. Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond' ella stessa s' disvelta, Mins la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non l' parte scelta; ma l dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non per ch'alcuna sen rivesta, ch non giusto aver ci ch'om si toglie. Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta. Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo s forte, che de la selva rompieno ogne rosta. Quel dinanzi: Or accorri, accorri, morte!. E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: Lano, s non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!. E poi che forse li fallia la lena, di s e d'un cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiatt miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano. O Iacopo, dicea, da Santo Andrea, che t' giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?. Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo, disse: Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?. Ed elli a noi: O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde s da me disgiunte, raccoglietele al pi del tristo cesto. I' fui de la citt che nel Batista mut 'l primo padrone; ond' ei per questo sempre con l'arte sua la far trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista, que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Io fei gibetto a me de le mie case. CANTO XIV [Canto XIV, ove tratta de la qualit del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato.] Poi che la carit del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende'le a colui, ch'era gi fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. La dolorosa selva l' ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei che fu da' pi di Caton gi soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ci che fu manifesto a li occhi mei! D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continamente. Quella che giva 'ntorno era pi molta, e quella men che giaca al tormento, ma pi al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d'Inda vide sopra 'l so stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acci che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com' esca sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da s l'arsura fresca. I' cominciai: Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, chi quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, s che la pioggia non par che 'l marturi?. E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, grid: Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l'ultimo d percosso fui; o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", s com' el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: non ne potrebbe aver vendetta allegra. Allora il duca mio parl di forza tanto, ch'i' non l'avea s forte udito: O Capaneo, in ci che non s'ammorza la tua superbia, se' tu pi punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito. Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti. Tacendo divenimmo l 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena gi sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com' 'l presente rio, che sovra s tutte fiammelle ammorta. Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'ava il disio. In mezzo mar siede un paese guasto, diss' elli allora, che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu gi 'l mondo casto. Una montagna v' che gi fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiam Ida; or diserta come cosa vieta. Ra la scelse gi per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver' Dammiata e Roma guarda come so speglio. La sua testa di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, poi di rame infino a la forcata; da indi in giuso tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede terra cotta; e sta 'n su quel, pi che 'n su l'altro, eretto. Ciascuna parte, fuor che l'oro, rotta d'una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van gi per questa stretta doccia, infin, l dove pi non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, per qui non si conta. E io a lui: Se 'l presente rigagno si diriva cos dal nostro mondo, perch ci appar pur a questo vivagno?. Ed elli a me: Tu sai che 'l loco tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, gi calando al fondo, non se' ancor per tutto 'l cerchio vlto; per che, se cosa n'apparisce nova, non de' addur maraviglia al tuo volto. E io ancor: Maestro, ove si trova Flegetonta e Let? ch de l'un taci, e l'altro di' che si fa d'esta piova. In tutte tue question certo mi piaci, rispuose, ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci. Let vedrai, ma fuor di questa fossa, l dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta rimossa. Poi disse: Omai tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne. CANTO XV [Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, s come sono li soddomiti.] Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, s che dal foco salva l'acqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, fanno lo schermo perch 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che n s alti n s grossi, qual che si fosse, lo maestro flli. Gi eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov' era, perch' io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venian lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e s ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. Cos adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e grid: Qual maraviglia!. E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficca li occhi per lo cotto aspetto, s che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza sa al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: Siete voi qui, ser Brunetto?. E quelli: O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia. I' dissi lui: Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, farl, se piace a costui che vo seco. O figliuol, disse, qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent' anni sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia. Per va oltre: i' ti verr a' panni; e poi rigiugner la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni. Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com' uom che reverente vada. El cominci: Qual fortuna o destino anzi l'ultimo d qua gi ti mena? e chi questi che mostra 'l cammino?. L s di sopra, in la vita serena, rispuos' io lui, mi smarri' in una valle, avanti che l'et mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand' o in quella, e reducemi a ca per questo calle. Ed elli a me: Se tu segui tua stella, non puoi fallire a gloroso porto, se ben m'accorsi ne la vita bella; e s'io non fossi s per tempo morto, veggendo il cielo a te cos benigno, dato t'avrei a l'opera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si far, per tuo ben far, nimico; ed ragion, ch tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent' avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta. Se fosse tutto pieno il mio dimando, rispuos' io lui, voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando; ch 'n la mente m' fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo convien che ne la mia lingua si scerna. Ci che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che sapr, s'a lei arrivo. Tanto vogl' io che vi sia manifesto, pur che mia coscenza non mi garra, ch'a la Fortuna, come vuol, son presto. Non nuova a li orecchi miei tal arra: per giri Fortuna la sua rota come le piace, e 'l villan la sua marra. Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi; poi disse: Bene ascolta chi la nota. N per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni pi noti e pi sommi. Ed elli a me: Saper d'alcuno buono; de li altri fia laudabile tacerci, ch 'l tempo saria corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasci li mal protesi nervi. Di pi direi; ma 'l venire e 'l sermone pi lungo esser non pu, per ch'i' veggio l surger nuovo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora, e pi non cheggio. Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. CANTO XVI [Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio e di quello medesimo peccato.] Gi era in loco onde s'udia 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro. Venian ver' noi, e ciascuna gridava: Sstati tu ch'a l'abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava. Ahim, che piaghe vidi ne' lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver' me, e Or aspetta, disse, a costor si vuole esser cortese. E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta. Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di s tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, cos rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, s che 'n contraro il collo faceva ai pi contino vaggio. E Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi, cominci l'uno, e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi cos sicuro per lo 'nferno freghi. Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. L'altro, ch'appresso me la rena trita, Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo s dovria esser gradita. E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo la fiera moglie pi ch'altro mi nuoce. S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avria sofferto; ma perch' io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi. Se lungamente l'anima conduca le membra tue, rispuose quelli ancora, e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor d se dimora ne la nostra citt s come suole, o se del tutto se n' gita fora; ch Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va l coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole. La gente nuova e i sbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, s che tu gi ten piagni. Cos gridai con la faccia levata; e i tre, che ci inteser per risposta, guardar l'un l'altro com' al ver si guata. Se l'altre volte s poco ti costa, rispuoser tutti, il satisfare altrui, felice te se s parli a tua posta! Per, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti giover dicere "I' fui", fa che di noi a la gente favelle. Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria possuto dirsi tosto cos com' e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era s vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli gi nel basso letto, e a Forl di quel nome vacante, rimbomba l sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; cos, gi d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell' acqua tinta, s che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, s come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ond' ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gitt giuso in quell' alto burrato. E' pur convien che novit risponda, dicea fra me medesmo, al novo cenno che 'l maestro con l'occhio s seconda. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: Tosto verr di sovra ci ch'io attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien ch'al tuo viso si scovra. Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, per che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comeda, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vte, ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, s come torna colui che va giuso talora a solver l'ncora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare chiuso, che 'n s si stende e da pi si rattrappa. CANTO XVII [Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra '1 quale passaro il fiume; e quivi parl Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.] Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!. S cominci lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arriv la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con pi color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari n Turchi, n fuor tai tele per Aragne imposte. Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come l tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, cos la fiera pessima si stava su l'orlo ch' di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in s la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che col si corca. Per scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco pi oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro Acci che tutta piena esperenza d'esto giron porti, mi disse, va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian l corti; mentre che torni, parler con questa, che ne conceda i suoi omeri forti. Cos ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di l soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col pi, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com' io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca pi che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perch se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitalano seder qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recher la tasca con tre becchi!". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l pi star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito gi su la groppa del fiero animale, e disse a me: Or sie forte e ardito. Omai si scende per s fatte scale; monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, s che la coda non possa far male. Qual colui che s presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha gi l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn' io a le parole porte; ma vergogna mi f le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; s volli dir, ma la voce non venne com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: Geron, moviti omai: le rote larghe, e lo scender sia poco; pensa la nova soma che tu hai. Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, s quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sent a gioco, l 'v' era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a s raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandon li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; n quando Icaro misero le reni sent spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui Mala via tieni!, che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia gi da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n gi la testa sporgo. Allor fu' io pi timido a lo stoscio, per ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond' io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ch nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch' stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere Om, tu cali!, discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; cos ne puose al fondo Gerone al pi al pi de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone, si dilegu come da corda cocca. CANTO XVIII [Canto XVIII, ove si descrive come fatto il luogo di Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene.] Luogo in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicer l'ordigno. Quel cinghio che rimane adunque tondo tra 'l pozzo e 'l pi de l'alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura pi e pi fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli, cos da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. In questo luogo, de la schiena scossi di Geron, trovammoci; e 'l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, di l con noi, ma con passi maggiori, come i Roman per l'essercito molto, l'anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l'un lato tutti hanno la fronte verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, da l'altra sponda vanno verso 'l monte. Di qua, di l, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro. Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! gi nessuno le seconde aspettava n le terze. Mentr' io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io s tosto dissi: Gi di veder costui non son digiuno. Per ch'o a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette, e assentio ch'alquanto in dietro gissi. E quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse, ch'io dissi: O tu che l'occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se' tu Caccianemico. Ma che ti mena a s pungenti salse?. Ed elli a me: Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico. I' fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella. E non pur io qui piango bolognese; anzi n' questo loco tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese a dicer 'sipa' tra Svena e Reno; e se di ci vuoi fede o testimonio, rcati a mente il nostro avaro seno. Cos parlando il percosse un demonio de la sua scurada, e disse: Via, ruffian! qui non son femmine da conio. I' mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo l 'v' uno scoglio de la ripa uscia. Assai leggeramente quel salimmo; e vlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo. Quando noi fummo l dov' el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: Attienti, e fa che feggia lo viso in te di quest' altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia per che son con noi insieme andati. Del vecchio ponte guardavam la traccia che vena verso noi da l'altra banda, e che la ferza similmente scaccia. E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli Iasn, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati fne. Ello pass per l'isola di Lenno poi che l'ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingann, la giovinetta che prima avea tutte l'altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle sapere e di color che 'n s assanna. Gi eravam l 've lo stretto calle con l'argine secondo s'incrocicchia, e fa di quello ad un altr' arco spalle. Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, e s medesma con le palme picchia. Le ripe eran grommate d'una muffa, per l'alito di gi che vi s'appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa. Lo fondo cupo s, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l'arco, ove lo scoglio pi sovrasta. Quivi venimmo; e quindi gi nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso. E mentre ch'io l gi con l'occhio cerco, vidi un col capo s di merda lordo, che non para s'era laico o cherco. Quei mi sgrid: Perch se' tu s gordo di riguardar pi me che li altri brutti?. E io a lui: Perch, se ben ricordo, gi t'ho veduto coi capelli asciutti, e se' Alessio Interminei da Lucca: per t'adocchio pi che li altri tutti. Ed elli allor, battendosi la zucca: Qua gi m'hanno sommerso le lusinghe ond' io non ebbi mai la lingua stucca. Appresso ci lo duca Fa che pinghe, mi disse, il viso un poco pi avante, s che la faccia ben con l'occhio attinghe di quella sozza e scapigliata fante che l si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora in piedi stante. Tade , la puttana che rispuose al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". E quinci sian le nostre viste sazie. CANTO XIX [Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e contra tutti coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che sono concedute a coloro che seguitano il sopradetto vizio, e dinomaci entro papa Niccola de li Orsini di Roma perch seguit simonia; e pone de la terza bolgia de l'inferno.] O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, per che ne la terza bolgia state. Gi eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. O somma sapenza, quanta l'arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virt comparte! Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fri, d'un largo tutti e ciascun era tondo. Non mi parean men ampi n maggiori che que' che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori; l'un de li quali, ancor non molt' anni, rupp' io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni. Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d'un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l'altro dentro stava. Le piante erano a tutti accese intrambe; per che s forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe. Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era l dai calcagni a le punte. Chi colui, maestro, che si cruccia guizzando pi che li altri suoi consorti, diss' io, e cui pi roggia fiamma succia?. Ed elli a me: Se tu vuo' ch'i' ti porti l gi per quella ripa che pi giace, da lui saprai di s e de' suoi torti. E io: Tanto m' bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace. Allor venimmo in su l'argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca l gi nel fondo foracchiato e arto. Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, s mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca. O qual che se' che 'l di s tien di sotto, anima trista come pal commessa, comincia' io a dir, se puoi, fa motto. Io stava come 'l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch' fitto, richiama lui per che la morte cessa. Ed el grid: Se' tu gi cost ritto, se' tu gi cost ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi ment lo scritto. Se' tu s tosto di quell' aver sazio per lo qual non temesti trre a 'nganno la bella donna, e poi di farne strazio?. Tal mi fec' io, quai son color che stanno, per non intender ci ch' lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. Allor Virgilio disse: Dilli tosto: "Non son colui, non son colui che credi"; e io rispuosi come a me fu imposto. Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: Dunque che a me richiedi? Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, che tu abbi per la ripa corsa, sappi ch'i' fui vestito del gran manto; e veramente fui figliuol de l'orsa, cupido s per avanzar li orsatti, che s l'avere e qui me misi in borsa. Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti. L gi cascher io altres quando verr colui ch'i' credea che tu fossi, allor ch'i' feci 'l sbito dimando. Ma pi 'l tempo gi che i pi mi cossi e ch'i' son stato cos sottosopra, ch'el non star piantato coi pi rossi: ch dopo lui verr di pi laida opra, di ver' ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra. Nuovo Iasn sar, di cui si legge ne' Maccabei; e come a quel fu molle suo re, cos fia lui chi Francia regge. Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: Deh, or mi d: quanto tesoro volle Nostro Segnore in prima da san Pietro ch'ei ponesse le chiavi in sua bala? Certo non chiese se non "Viemmi retro". N Pier n li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perd l'anima ria. Per ti sta, ch tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch'esser ti fece contra Carlo ardito. E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta, io userei parole ancor pi gravi; ch la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l'acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; e che altro da voi a l'idolatre, se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!. E mentr' io li cantava cotai note, o ira o coscenza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote. I' credo ben ch'al mio duca piacesse, con s contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. Per con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, rimont per la via onde discese. N si stanc d'avermi a s distretto, s men port sovra 'l colmo de l'arco che dal quarto al quinto argine tragetto. Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco. Indi un altro vallon mi fu scoperto. CANTO XX [Canto XX, dove si tratta de l'indovini e sortilegi e de l'incantatori, e de l'origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto incantatrice; e di loro pene e miseria e de la condizione loro misera, ne la quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di pi altri.] Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon, ch' d'i sommersi. Io era gi disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo, che si bagnava d'angoscioso pianto; e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo. Come 'l viso mi scese in lor pi basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso, ch da le reni era tornato 'l volto, e in dietro venir li convenia, perch 'l veder dinanzi era lor tolto. Forse per forza gi di parlasia si travolse cos alcun del tutto; ma io nol vidi, n credo che sia. Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com' io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra imagine di presso vidi s torta, che 'l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso. Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi del duro scoglio, s che la mia scorta mi disse: Ancor se' tu de li altri sciocchi? Qui vive la piet quand' ben morta; chi pi scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta? Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, Anfarao? perch lasci la guerra?". E non rest di ruinare a valle fino a Mins che ciascheduno afferra. Mira c'ha fatto petto de le spalle; perch volse veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle. Vedi Tiresia, che mut sembiante quando di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante; e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che ravesse le maschili penne. Aronta quel ch'al ventre li s'atterga, che ne' monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e 'l mar non li era la veduta tronca. E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di l ogne pilosa pelle, Manto fu, che cerc per terre molte; poscia si puose l dove nacqu' io; onde un poco mi piace che m'ascolte. Poscia che 'l padre suo di vita usco e venne serva la citt di Baco, questa gran tempo per lo mondo gio. Suso in Italia bella giace un laco, a pi de l'Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c'ha nome Benaco. Per mille fonti, credo, e pi si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino de l'acqua che nel detto laco stagna. Loco nel mezzo l dove 'l trentino pastore e quel di Brescia e 'l veronese segnar poria, s'e' fesse quel cammino. Siede Peschiera, bello e forte arnese da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva 'ntorno pi discese. Ivi convien che tutto quanto caschi ci che 'n grembo a Benaco star non pu, e fassi fiume gi per verdi paschi. Tosto che l'acqua a correr mette co, non pi Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po. Non molto ha corso, ch'el trova una lama, ne la qual si distende e la 'mpaluda; e suol di state talor esser grama. Quindi passando la vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d'abitanti nuda. L, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi lasci suo corpo vano. Li uomini poi che 'ntorno erano sparti s'accolsero a quel loco, ch'era forte per lo pantan ch'avea da tutte parti. Fer la citt sovra quell' ossa morte; e per colei che 'l loco prima elesse, Manta l'appellar sanz' altra sorte. Gi fuor le genti sue dentro pi spesse, prima che la mattia da Casalodi da Pinamonte inganno ricevesse. Per t'assenno che, se tu mai odi originar la mia terra altrimenti, la verit nulla menzogna frodi. E io: Maestro, i tuoi ragionamenti mi son s certi e prendon s mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti. Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ch solo a ci la mia mente rifiede. Allor mi disse: Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune, fu quando Grecia fu di maschi vta, s ch'a pena rimaser per le cune augure, e diede 'l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune. Euripilo ebbe nome, e cos 'l canta l'alta mia trageda in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta. Quell' altro che ne' fianchi cos poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch'avere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente. Vedi le triste che lasciaron l'ago, la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; fecer malie con erbe e con imago. Ma vienne omai, ch gi tiene 'l confine d'amendue li emisperi e tocca l'onda sotto Sobilia Caino e le spine; e gi iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, ch non ti nocque alcuna volta per la selva fonda. S mi parlava, e andavamo introcque. CANTO XXI [Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera.] Cos di ponte in ponte, altro parlando che la mia comeda cantar non cura, venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando restammo per veder l'altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura. Quale ne l'arzan de' Viniziani bolle l'inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani, ch navicar non ponno in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che pi vaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa : tal, non per foco ma per divin' arte, bollia l giuso una pegola spessa, che 'nviscava la ripa d'ogne parte. I' vedea lei, ma non veda in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa. Mentr' io l gi fisamente mirava, lo duca mio, dicendo Guarda, guarda!, mi trasse a s del loco dov' io stava. Allor mi volsi come l'uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sbita sgagliarda, che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire. Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero! e quanto mi parea ne l'atto acerbo, con l'ali aperte e sovra i pi leggero! L'omero suo, ch'era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' pi ghermito 'l nerbo. Del nostro ponte disse: O Malebranche, ecco un de li anzan di Santa Zita! Mettetel sotto, ch'i' torno per anche a quella terra, che n' ben fornita: ogn' uom v' barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita. L gi 'l butt, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo. Quel s'attuff, e torn s convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: Qui non ha loco il Santo Volto! qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Per, se tu non vuo' di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio. Poi l'addentar con pi di cento raffi, disser: Coverto convien che qui balli, s che, se puoi, nascosamente accaffi. Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perch non galli. Lo buon maestro Acci che non si paia che tu ci sia, mi disse, gi t'acquatta dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia; e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch'i' ho le cose conte, perch' altra volta fui a tal baratta. Poscia pass di l dal co del ponte; e com' el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte. Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello che di sbito chiede ove s'arresta, usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt' i runcigli; ma el grid: Nessun di voi sia fello! Innanzi che l'uncin vostro mi pigli, traggasi avante l'un di voi che m'oda, e poi d'arruncigliarmi si consigli. Tutti gridaron: Vada Malacoda!; per ch'un si mosse e li altri stetter fermi e venne a lui dicendo: Che li approda?. Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto, disse 'l mio maestro, sicuro gi da tutti vostri schermi, sanza voler divino e fato destro? Lascian' andar, ch nel cielo voluto ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro. Allor li fu l'orgoglio s caduto, ch'e' si lasci cascar l'uncino a' piedi, e disse a li altri: Omai non sia feruto. E 'l duca mio a me: O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi. Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, s ch'io temetti ch'ei tenesser patto; cos vid' o gi temer li fanti ch'uscivan patteggiati di Caprona, veggendo s tra nemici cotanti. I' m'accostai con tutta la persona lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch'era non buona. Ei chinavan li raffi e Vuo' che 'l tocchi, diceva l'un con l'altro, in sul groppone?. E rispondien: S, fa che gliel' accocchi. Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto e disse: Posa, posa, Scarmiglione!. Poi disse a noi: Pi oltre andar per questo iscoglio non si pu, per che giace tutto spezzato al fondo l'arco sesto. E se l'andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso un altro scoglio che via face. Ier, pi oltre cinqu' ore che quest' otta, mille dugento con sessanta sei anni compi che qui la via fu rotta. Io mando verso l di questi miei a riguardar s'alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei. Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina, cominci elli a dire, e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo, Ciratto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate 'ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane. Om, maestro, che quel ch'i' veggio?, diss' io, deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio. Se tu se' s accorto come suoli, non vedi tu ch'e' digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?. Ed elli a me: Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ci per li lessi dolenti. Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. CANTO XXII [Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de' barattieri in persona d'uno navarrese, e de' barattieri medesimi questo canta.] Io vidi gi cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane; n gi con s diversa cennamella cavalier vidi muover n pedoni, n nave a segno di terra o di stella. Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni. Pur a la pegola era la mia 'ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch'entro v'era incesa. Come i dalfini, quando fanno segno a' marinar con l'arco de la schiena che s'argomentin di campar lor legno, talor cos, ad alleggiar la pena, mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso e nascondea in men che non balena. E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, s che celano i piedi e l'altro grosso, s stavan d'ogne parte i peccatori; ma come s'appressava Barbariccia, cos si ritran sotto i bollori. I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, uno aspettar cos, com' elli 'ncontra ch'una rana rimane e l'altra spiccia; e Graffiacan, che li era pi di contra, li arruncigli le 'mpegolate chiome e trassel s, che mi parve una lontra. I' sapea gi di tutti quanti 'l nome, s li notai quando fuorono eletti, e poi ch'e' si chiamaro, attesi come. O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, s che tu lo scuoi!, gridavan tutti insieme i maladetti. E io: Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi. Lo duca mio li s'accost allato; domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose: I' fui del regno di Navarra nato. Mia madre a servo d'un segnor mi puose, che m'avea generato d'un ribaldo, distruggitor di s e di sue cose. Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria, di ch'io rendo ragione in questo caldo. E Ciratto, a cui di bocca uscia d'ogne parte una sanna come a porco, li f sentir come l'una sdruscia. Tra male gatte era venuto 'l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: State in l, mentr' io lo 'nforco. E al maestro mio volse la faccia; Domanda, disse, ancor, se pi disii saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia. Lo duca dunque: Or d: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?. E quelli: I' mi partii, poco , da un che fu di l vicino. Cos foss' io ancor con lui coperto, ch'i' non temerei unghia n uncino!. E Libicocco Troppo avem sofferto, disse; e preseli 'l braccio col runciglio, s che, stracciando, ne port un lacerto. Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde 'l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio. Quand' elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch'ancor mirava sua ferita, domand 'l duca mio sanza dimoro: Chi fu colui da cui mala partita di' che facesti per venire a proda?. Ed ei rispuose: Fu frate Gomita, quel di Gallura, vasel d'ogne froda, ch'ebbe i nemici di suo donno in mano, e f s lor, che ciascun se ne loda. Danar si tolse e lasciolli di piano, s com' e' dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano. Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche. Om, vedete l'altro che digrigna; i' direi anche, ma i' temo ch'ello non s'apparecchi a grattarmi la tigna. E 'l gran proposto, vlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: Fatti 'n cost, malvagio uccello!. Se voi volete vedere o udire, ricominci lo sparato appresso, Toschi o Lombardi, io ne far venire; ma stieno i Malebranche un poco in cesso, s ch'ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso, per un ch'io son, ne far venir sette quand' io suffoler, com' nostro uso di fare allor che fori alcun si mette. Cagnazzo a cotal motto lev 'l muso, crollando 'l capo, e disse: Odi malizia ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!. Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: Malizioso son io troppo, quand' io procuro a' mia maggior trestizia. Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: Se tu ti cali, io non ti verr dietro di gualoppo, ma batter sovra la pece l'ali. Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol pi di noi vali. O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l'altra costa li occhi volse, quel prima, ch'a ci fare era pi crudo. Lo Navarrese ben suo tempo colse; ferm le piante a terra, e in un punto salt e dal proposto lor si sciolse. Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei pi che cagion fu del difetto; per si mosse e grid: Tu se' giunto!. Ma poco i valse: ch l'ali al sospetto non potero avanzar; quelli and sotto, e quei drizz volando suso il petto: non altrimenti l'anitra di botto, quando 'l falcon s'appressa, gi s'attuffa, ed ei ritorna s crucciato e rotto. Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; e come 'l barattier fu disparito, cos volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito. Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno. Lo caldo sghermitor sbito fue; ma per di levarsi era neente, s avieno inviscate l'ali sue. Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne f volar da l'altra costa con tutt' i raffi, e assai prestamente di qua, di l discesero a la posta; porser li uncini verso li 'mpaniati, ch'eran gi cotti dentro da la crosta. E noi lasciammo lor cos 'mpacciati. CANTO XXIII [Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e qui la sesta bolgia.] Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via. Vlt' era in su la favola d'Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov' el parl de la rana e del topo; ch pi non si pareggia 'mo' e 'issa' che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia principio e fine con la mente fissa. E come l'un pensier de l'altro scoppia, cos nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi f doppia. Io pensava cos: Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa s fatta, ch'assai credo che lor ni. Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro pi crudeli che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa. Gi mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand' io dissi: Maestro, se non celi te e me tostamente, i' ho pavento d'i Malebranche. Noi li avem gi dietro; io li 'magino s, che gi li sento. E quei: S'i' fossi di piombato vetro, l'imagine di fuor tua non trarrei pi tosto a me, che quella dentro 'mpetro. Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, con simile atto e con simile faccia, s che d'intrambi un sol consiglio fei. S'elli che s la destra costa giaccia, che noi possiam ne l'altra bolgia scendere, noi fuggirem l'imaginata caccia. Gi non compi di tal consiglio rendere, ch'io li vidi venir con l'ali tese non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di sbito mi prese, come la madre ch'al romore desta e vede presso a s le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s'arresta, avendo pi di lui che di s cura, tanto che solo una camiscia vesta; e gi dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l'un de' lati a l'altra bolgia tura. Non corse mai s tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand' ella pi verso le pale approccia, come 'l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra 'l suo petto, come suo figlio, non come compagno. A pena fuoro i pi suoi giunti al letto del fondo gi, ch'e' furon in sul colle sovresso noi; ma non l era sospetto: ch l'alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs' indi a tutti tolle. L gi trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugn per li monaci fassi. Di fuor dorate son, s ch'elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia. Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca vena s pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d'anca. Per ch'io al duca mio: Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, e li occhi, s andando, intorno movi. E un che 'ntese la parola tosca, di retro a noi grid: Tenete i piedi, voi che correte s per l'aura fosca! Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi. Onde 'l duca si volse e disse: Aspetta, e poi secondo il suo passo procedi. Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l'animo, col viso, d'esser meco; ma tardavali 'l carco e la via stretta. Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in s, e dicean seco: Costui par vivo a l'atto de la gola; e s'e' son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?. Poi disser me: O Tosco, ch'al collegio de l'ipocriti tristi se' venuto, dir chi tu se' non avere in dispregio. E io a loro: I' fui nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, e son col corpo ch'i' ho sempre avuto. Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant' i' veggio dolor gi per le guance? e che pena in voi che s sfavilla?. E l'un rispuose a me: Le cappe rance son di piombo s grosse, che li pesi fan cos cigolar le lor bilance. Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch'ancor si pare intorno dal Gardingo. Io cominciai: O frati, i vostri mali... ; ma pi non dissi, ch'a l'occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali. Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e 'l frate Catalan, ch'a ci s'accorse, mi disse: Quel confitto che tu miri, consigli i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a' martri. Attraversato , nudo, ne la via, come tu vedi, ed mestier ch'el senta qualunque passa, come pesa, pria. E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa. Allor vid' io maravigliar Virgilio sovra colui ch'era disteso in croce tanto vilmente ne l'etterno essilio. Poscia drizz al frate cotal voce: Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s'a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d'esto fondo a dipartirci. Rispuose adunque: Pi che tu non speri s'appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt' i vallon feri, salvo che 'n questo rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia. Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina. E 'l frate: Io udi' gi dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi' ch'elli bugiardo e padre di menzogna. Appresso il duca a gran passi sen g, turbato un poco d'ira nel sembiante; ond' io da li 'ncarcati mi parti' dietro a le poste de le care piante. CANTO XXIV [Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed la settima bolgia.] In quella parte del giovanetto anno che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e gi le notti al mezzo d sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e l si lagna, come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia. Cos mi fece sbigottir lo mastro quand' io li vidi s turbar la fronte, e cos tosto al mal giunse lo 'mpiastro; ch, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a pi del monte. Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio. E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, cos, levando me s ver' la cima d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: Sovra quella poi t'aggrappa; ma tenta pria s' tal ch'ella ti reggia. Non era via da vestito di cappa, ch noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam s montar di chiappa in chiappa. E se non fosse che da quel precinto pi che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto. Ma perch Malebolge inver' la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende. La lena m'era del polmon s munta quand' io fui s, ch'i' non potea pi oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta. Omai convien che tu cos ti spoltre, disse 'l maestro; ch, seggendo in piuma, in fama non si vien, n sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di s lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma. E per leva s; vinci l'ambascia con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia. Pi lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi 'ntendi, or fa s che ti vaglia. Leva'mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia, e dissi: Va, ch'i' son forte e ardito. Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto pi assai che quel di pria. Parlando andava per non parer fievole; onde una voce usc de l'altro fosso, a parole formar disconvenevole. Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco gi che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso. Io era vlto in gi, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: Maestro, fa che tu arrivi da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; ch, com' i' odo quinci e non intendo, cos gi veggio e neente affiguro. Altra risposta, disse, non ti rendo se non lo far; ch la dimanda onesta si de' seguir con l'opera tacendo. Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di s diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa. Pi non si vanti Libia con sua rena; ch se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, n tante pestilenzie n s ree mostr gi mai con tutta l'Etopia n con ci che di sopra al Mar Rosso e. Tra questa cruda e tristissima copia corran genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avvent un serpente che 'l trafisse l dove 'l collo a le spalle s'annoda. N O s tosto mai n I si scrisse, com' el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra s distrutto, la polver si raccolse per s stessa e 'n quel medesmo ritorn di butto. Cos per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba n biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce. E qual quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira, o d'altra oppilazion che lega l'omo, quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era 'l peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant' severa, che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domand poi chi ello era; per ch'ei rispuose: Io piovvi di Toscana, poco tempo , in questa gola fiera. Vita bestial mi piacque e non umana, s come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana. E o al duca: Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua gi 'l pinse; ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci. E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizz verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse; poi disse: Pi mi duol che tu m'hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l'altra vita tolto. Io non posso negar quel che tu chiedi; in gi son messo tanto perch' io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi, e falsamente gi fu apposto altrui. Ma perch di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi. Tragge Marte vapor di Val di Magra ch' di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond' ei repente spezzer la nebbia, s ch'ogne Bianco ne sar feruto. E detto l'ho perch doler ti debbia!. CANTO XXV [Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr' a' fiorentini, ma in prima sgrida contro a la citt di Pistoia; ed quella medesima bolgia.] Al fine de le sue parole il ladro le mani alz con amendue le fiche, gridando: Togli, Dio, ch'a te le squadro!. Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch' una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che pi diche'; e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo s stessa s dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, ch non stanzi d'incenerarti s che pi non duri, poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe gi da' muri. El si fugg che non parl pi verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: Ov' , ov' l'acerbo?. Maremma non cred' io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia. Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa. Lo mio maestro disse: Questi Caco, che, sotto 'l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco. Non va co' suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch'elli ebbe a vicino; onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d'Ercule, che forse gliene di cento, e non sent le diece. Mentre che s parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de' quai n io n 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: Chi siete voi?; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi. Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette, dicendo: Cianfa dove fia rimaso?; per ch'io, acci che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso. Se tu se' or, lettore, a creder lento ci ch'io dir, non sar maraviglia, ch io che 'l vidi, a pena il mi consento. Com' io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei pi si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia. Co' pi di mezzo li avvinse la pancia e con li anteror le braccia prese; poi li addent e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue e dietro per le ren s la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber s, come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchi le sue. Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, n l'un n l'altro gi parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non nero ancora e 'l bianco more. Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: Om, Agnel, come ti muti! Vedi che gi non se' n due n uno. Gi eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov' eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei d canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, s pareva, venendo verso l'epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto 'l mir, ma nulla disse; anzi, co' pi fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse. Elli 'l serpente e quei lui riguardava; l'un per la piaga e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava. Taccia Lucano ormai l dov' e' tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca. Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ch se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio; ch due nature mai a fronte a fronte non trasmut s ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, e 'l feruto ristrinse insieme l'orme. Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar s, che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva l, e la sua pelle si facea molle, e quella di l dura. Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due pi de la fiera, ch'eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li pi di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela, e 'l misero del suo n'avea due porti. Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si lev e l'altro cadde giuso, non torcendo per le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in l venne uscir li orecchi de le gote scempie; ci che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, f naso a la faccia e le labbra ingross quanto convenne. Quel che giaca, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch'ava unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l'altro: I' vo' che Buoso corra, com' ho fatt' io, carpon per questo calle. Cos vid' io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novit se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni. CANTO XXVI [Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene.] Godi, Fiorenza, poi che se' s grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna. E se gi fosse, non saria per tempo. Cos foss' ei, da che pur esser dee! ch pi mi graver, com' pi m'attempo. Noi ci partimmo, e su per le scalee che n'avea fatto iborni a scender pria, rimont 'l duca mio e trasse mee; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo pi sanza la man non si spedia. Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ci ch'io vidi, e pi lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perch non corra che virt nol guidi; s che, se stella bona o miglior cosa m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole gi per la vallea, forse col dov' e' vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, s com' io m'accorsi tosto che fui l 've 'l fondo parea. E qual colui che si vengi con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea s con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, s come nuvoletta, in s salire: tal si move ciascuna per la gola del fosso, ch nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. Io stava sovra 'l ponte a veder surto, s che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei gi sanz' esser urto. E 'l duca che mi vide tanto atteso, disse: Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch'elli inceso. Maestro mio, rispuos' io, per udirti son io pi certo; ma gi m'era avviso che cos fosse, e gi voleva dirti: chi 'n quel foco che vien s diviso di sopra, che par surger de la pira dov' Etecle col fratel fu miso?. Rispuose a me: L dentro si martira Ulisse e Domede, e cos insieme a la vendetta vanno come a l'ira; e dentro da la lor fiamma si geme l'agguato del caval che f la porta onde usc de' Romani il gentil seme. Piangevisi entro l'arte per che, morta, Dedama ancor si duol d'Achille, e del Palladio pena vi si porta. S'ei posson dentro da quelle faville parlar, diss' io, maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille, che non mi facci de l'attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver' lei mi piego!. Ed elli a me: La tua preghiera degna di molta loda, e io per l'accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna. Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto ci che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, perch' e' fuor greci, forse del tuo detto. Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi. Lo maggior corno de la fiamma antica cominci a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e l menando, come fosse la lingua che parlasse, gitt voce di fuori e disse: Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse me pi d'un anno l presso a Gaeta, prima che s Ena la nomasse, n dolcezza di figlio, n la pieta del vecchio padre, n 'l debito amore lo qual dovea Penelop far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l'alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, e l'altre che quel mare intorno bagna. Io e ' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov' Ercule segn li suoi riguardi acci che l'uom pi oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l'altra gi m'avea lasciata Setta. "O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch' del rimanente non vogliate negar l'esperenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Li miei compagni fec' io s aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle gi de l'altro polo vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, che non surga fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, quando n'apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non ava alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto torn in pianto; ch de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il f girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in gi, com' altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso. CANTO XXVII [Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.] Gi era dritta in s la fiamma e queta per non dir pi, e gi da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, quand' un'altra, che dietro a lei vena, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia. Come 'l bue cicilian che mugghi prima col pianto di colui, e ci fu dritto, che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, s che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; cos, per non aver via n forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertan le parole grame. Ma poscia ch'ebber colto lor vaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, pi non t'adizzo", perch' io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo! Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra latina ond' io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch'io fui d'i monti l intra Orbino e 'l giogo di che Tever si diserra. Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tent di costa, dicendo: Parla tu; questi latino. E io, ch'avea gi pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: O anima che se' l gi nascosta, Romagna tua non , e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai. Ravenna sta come stata molt' anni: l'aguglia da Polenta la si cova, s che Cervia ricuopre co' suoi vanni. La terra che f gi la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova. E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, l dove soglion fan d'i denti succhio. Le citt di Lamone e di Santerno conduce il loncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno. E quella cu' il Savio bagna il fianco, cos com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte, tra tirannia si vive e stato franco. Ora chi se', ti priego che ne conte; non esser duro pi ch'altri sia stato, se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte. Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse di qua, di l, e poi di cotal fiato: S'i' credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza pi scosse; ma per che gi mai di questo fondo non torn vivo alcun, s'i' odo il vero, sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi, s cinto, fare ammenda; e certo il creder mio vena intero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m'intenda. Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe che la madre mi di, l'opere mie non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e s menai lor arte, ch'al fine de la terra il suono uscie. Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, ci che pria mi piaca, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe. Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin n con Giudei, ch ciascun suo nimico era Cristiano, e nessun era stato a vincer Acri n mercatante in terra di Soldano, n sommo officio n ordini sacri guard in s, n in me quel capestro che solea fare i suoi cinti pi macri. Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre, cos mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perch le sue parole parver ebbre. E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare s come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss' io serrare e diserrare, come tu sai; per son due le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care". Allor mi pinser li argomenti gravi l 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov' io mo cader deggio, lunga promessa con l'attender corto ti far trunfar ne l'alto seggio". Francesco venne poi, com' io fu' morto, per me; ma un d'i neri cherubini li disse: "Non portar: non mi far torto. Venir se ne dee gi tra ' miei meschini perch diede 'l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a' crini; ch'assolver non si pu chi non si pente, n pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente". Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch'io lico fossi!". A Mins mi port; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse, disse: "Questi d'i rei del foco furo"; per ch'io l dove vedi son perduto, e s vestito, andando, mi rancuro. Quand' elli ebbe 'l suo dir cos compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo 'l corno aguto. Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr' arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco. CANTO XXVIII [Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.] Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar pi volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c'hanno a tanto comprender poco seno. S'el s'aunasse ancor tutta la gente che gi, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l'anella f s alte spoglie, come Livo scrive, che non erra, con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie a Ceperan, l dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e l da Tagliacozzo, dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo. Gi veggia, per mezzul perdere o lulla, com' io vidi un, cos non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi e con le man s'aperse il petto, dicendo: Or vedi com' io mi dilacco! vedi come storpiato Mometto! Dinanzi a me sen va piangendo Al, fesso nel volto dal mento al ciuffetto. E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e per son fessi cos. Un diavolo qua dietro che n'accisma s crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma, quand' avem volta la dolente strada; per che le ferite son richiuse prima ch'altri dinanzi li rivada. Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, forse per indugiar d'ire a la pena ch' giudicata in su le tue accuse?. N morte 'l giunse ancor, n colpa 'l mena, rispuose 'l mio maestro, a tormentarlo; ma per dar lui esperenza piena, a me, che morto son, convien menarlo per lo 'nferno qua gi di giro in giro; e quest' ver cos com' io ti parlo. Pi fuor di cento che, quando l'udiro, s'arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblando il martiro. Or d a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, s di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch'altrimenti acquistar non saria leve. Poi che l'un pi per girsene sospese, Mometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese. Un altro, che forata avea la gola e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch'una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri apr la canna, ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia, e disse: O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi su in terra latina, se troppa simiglianza non m'inganna, rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcab dichina. E fa saper a' due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l'antiveder qui non vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d'un tiranno fello. Tra l'isola di Cipri e di Maiolica non vide mai s gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica. Quel traditor che vede pur con l'uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno, far venirli a parlamento seco; poi far s, ch'al vento di Focara non sar lor mestier voto n preco. E io a lui: Dimostrami e dichiara, se vuo' ch'i' porti s di te novella, chi colui da la veduta amara. Allor puose la mano a la mascella d'un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: Questi desso, e non favella. Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che 'l fornito sempre con danno l'attender sofferse. Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curo, ch'a dir fu cos ardito! E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca, s che 'l sangue facea la faccia sozza, grid: Ricordera'ti anche del Mosca, che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", che fu mal seme per la gente tosca. E io li aggiunsi: E morte di tua schiatta; per ch'elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta. Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch'io avrei paura, sanza pi prova, di contarla solo; se non che coscenza m'assicura, la buona compagnia che l'uom francheggia sotto l'asbergo del sentirsi pura. Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, un busto sanza capo andar s come andavan li altri de la trista greggia; e 'l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: Oh me!. Di s facea a s stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; com' esser pu, quei sa che s governa. Quando diritto al pi del ponte fue, lev 'l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue, che fuoro: Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s'alcuna grande come questa. E perch tu di me novella porti, sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma' conforti. Io feci il padre e 'l figlio in s ribelli; Achitofl non f pi d'Absalone e di Davd coi malvagi punzelli. Perch' io parti' cos giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch' in questo troncone. Cos s'osserva in me lo contrapasso. CANTO XXIX [Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.] La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie s inebrate, che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: Che pur guate? perch la vista tua pur si soffolge l gi tra l'ombre triste smozzicate? Tu non hai fatto s a l'altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. E gi la luna sotto i nostri piedi; lo tempo poco omai che n' concesso, e altro da veder che tu non vedi. Se tu avessi, rispuos' io appresso, atteso a la cagion per ch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso. Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, gi faccendo la risposta, e soggiugnendo: Dentro a quella cava dov' io tenea or li occhi s a posta, credo ch'un spirto del mio sangue pianga la colpa che l gi cotanto costa. Allor disse 'l maestro: Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello. Attendi ad altro, ed ei l si rimanga; ch'io vidi lui a pi del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi' 'l nominar Geri del Bello. Tu eri allor s del tutto impedito sovra colui che gi tenne Altaforte, che non guardasti in l, s fu partito. O duca mio, la volenta morte che non li vendicata ancor, diss' io, per alcun che de l'onta sia consorte, fece lui disdegnoso; ond' el sen gio sanza parlarmi, s com' o estimo: e in ci m'ha el fatto a s pi pio. Cos parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se pi lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, s che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di piet ferrati avean li strali; ond' io li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista pi viva gi ver' lo fondo, la 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere s pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. Io vidi due sedere a s poggiati, com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al pi di schianze macolati; e non vidi gi mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, n a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra s per la gran rabbia del pizzicor, che non ha pi soccorso; e s traevan gi l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d'altro pesce che pi larghe l'abbia. O tu che con le dita ti dismaglie, cominci 'l duca mio a l'un di loro, e che fai d'esse talvolta tanaglie, dinne s'alcun Latino tra costoro che son quinc' entro, se l'unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro. Latin siam noi, che tu vedi s guasti qui ambedue, rispuose l'un piangendo; ma tu chi se' che di noi dimandasti?. E 'l duca disse: I' son un che discendo con questo vivo gi di balzo in balzo, e di mostrar lo 'nferno a lui intendo. Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: D a lor ci che tu vuoli; e io incominciai, poscia ch'ei volse: Se la vostra memoria non s'imboli nel primo mondo da l'umane menti, ma s'ella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi. Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena, rispuose l'un, mi f mettere al foco; ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. Vero ch'i' dissi lui, parlando a gioco: "I' mi saprei levar per l'aere a volo"; e quei, ch'avea vaghezza e senno poco, volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo perch' io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo. Ma ne l'ultima bolgia de le diece me per l'alchmia che nel mondo usai dann Mins, a cui fallar non lece. E io dissi al poeta: Or fu gi mai gente s vana come la sanese? Certo non la francesca s d'assai!. Onde l'altro lebbroso, che m'intese, rispuose al detto mio: Tra'mene Stricca che seppe far le temperate spese, e Niccol che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l'orto dove tal seme s'appicca; e tra'ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse. Ma perch sappi chi s ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio, s che la faccia mia ben ti risponda: s vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchmia; e te dee ricordar, se ben t'adocchio, com' io fui di natura buona scimia. CANTO XXX [Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.] Nel tempo che Iunone era crucciata per Semel contra 'l sangue tebano, come mostr una e altra fata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, grid: Tendiam le reti, s ch'io pigli la leonessa e ' leoncini al varco; e poi distese i dispietati artigli, prendendo l'un ch'avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s'anneg con l'altro carco. E quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva, s che 'nsieme col regno il re fu casso, Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latr s come cane; tanto il dolor le f la mente torta. Ma n di Tebe furie n troiane si vider mi in alcun tanto crude, non punger bestie, nonch membra umane, quant' io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che 'l porco quando del porcil si schiude. L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l'assann, s che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo. E l'Aretin che rimase, tremando mi disse: Quel folletto Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui cos conciando. Oh, diss' io lui, se l'altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi , pria che di qui si spicchi. Ed elli a me: Quell' l'anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre, fuor del dritto amore, amica. Questa a peccar con esso cos venne, falsificando s in altrui forma, come l'altro che l sen va, sostenne, per guadagnar la donna de la torma, falsificare in s Buoso Donati, testando e dando al testamento norma. E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati. Io vidi un, fatto a guisa di luto, pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto. La grave idropes, che s dispaia le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia, faceva lui tener le labbra aperte come l'etico fa, che per la sete l'un verso 'l mento e l'altro in s rinverte. O voi che sanz' alcuna pena siete, e non so io perch, nel mondo gramo, diss' elli a noi, guardate e attendete a la miseria del maestro Adamo; io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli, e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo. Li ruscelletti che d'i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ch l'imagine lor vie pi m'asciuga che 'l male ond' io nel volto mi discarno. La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov' io peccai a metter pi li miei sospiri in fuga. Ivi Romena, l dov' io falsai la lega suggellata del Batista; per ch'io il corpo s arso lasciai. Ma s'io vedessi qui l'anima trista di Guido o d'Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista. Dentro c' l'una gi, se l'arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c'ho le membra legate? S'io fossi pur di tanto ancor leggero ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia, io sarei messo gi per lo sentiero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia, e men d'un mezzo di traverso non ci ha. Io son per lor tra s fatta famiglia; e' m'indussero a batter li fiorini ch'avevan tre carati di mondiglia. E io a lui: Chi son li due tapini che fumman come man bagnate 'l verno, giacendo stretti a' tuoi destri confini?. Qui li trovai e poi volta non dierno , rispuose, quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno. L'una la falsa ch'accus Gioseppo; l'altr' 'l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo. E l'un di lor, che si rec a noia forse d'esser nomato s oscuro, col pugno li percosse l'epa croia. Quella son come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto. Ond' ei rispuose: Quando tu andavi al fuoco, non l'avei tu cos presto; ma s e pi l'avei quando coniavi. E l'idropico: Tu di' ver di questo: ma tu non fosti s ver testimonio l 've del ver fosti a Troia richesto. S'io dissi falso, e tu falsasti il conio, disse Sinon; e son qui per un fallo, e tu per pi ch'alcun altro demonio!. Ricorditi, spergiuro, del cavallo, rispuose quel ch'ava infiata l'epa; e sieti reo che tutto il mondo sallo!. E te sia rea la sete onde ti crepa, disse 'l Greco, la lingua, e l'acqua marcia che 'l ventre innanzi a li occhi s t'assiepa!. Allora il monetier: Cos si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ch, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a 'nvitar molte parole. Ad ascoltarli er' io del tutto fisso, quando 'l maestro mi disse: Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!. Quand' io 'l senti' a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch'ancor per la memoria mi si gira. Qual colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, s che quel ch', come non fosse, agogna, tal mi fec' io, non possendo parlare, che disava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. Maggior difetto men vergogna lava, disse 'l maestro, che 'l tuo non stato; per d'ogne trestizia ti disgrava. E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, se pi avvien che fortuna t'accoglia dove sien genti in simigliante piato: ch voler ci udire bassa voglia. CANTO XXXI [Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de l'inferno, ed il nono cerchio.] Una medesma lingua pria mi morse, s che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; cos od' io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. Quiv' era men che notte e men che giorno, s che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra s la sua via seguitando, dirizz li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perd la santa gesta, non son s terribilmente Orlando. Poco porti in l volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond' io: Maestro, d, che terra questa?. Ed elli a me: Per che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu l ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; per alquanto pi te stesso pungi. Poi caramente mi prese per mano e disse: Pria che noi siam pi avanti, acci che 'l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l'umbilico in giuso tutti quanti. Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ci che cela 'l vapor che l'aere stipa, cos forando l'aura grossa e scura, pi e pi appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e crescmi paura; per che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, cos la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona. E io scorgeva gi d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste gi ambo le braccia. Natura certo, quando lasci l'arte di s fatti animali, assai f bene per trre tali essecutori a Marte. E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, pi giusta e pi discreta la ne tene; ch dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi pu far la gente. La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa; s che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in gi, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison s'averien dato mal vanto; per ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in gi dov' omo affibbia 'l manto. Raphl ma amcche zab almi, cominci a gridar la fiera bocca, cui non si convenia pi dolci salmi. E 'l duca mio ver' lui: Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand' ira o altra passon ti tocca! Crcati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga. Poi disse a me: Elli stessi s'accusa; questi Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa. Lascinlo stare e non parliamo a vto; ch cos a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo noto. Facemmo adunque pi lungo vaggio, vlti a sinistra; e al trar d'un balestro trovammo l'altro assai pi fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in gi, s che 'n su lo scoperto si ravvolga infino al giro quinto. Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra 'l sommo Giove, disse 'l mio duca, ond' elli ha cotal merto. Falte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' di; le braccia ch'el men, gi mai non move. E io a lui: S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brareo esperenza avesser li occhi mei. Ond' ei rispuose: Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed disciolto, che ne porr nel fondo d'ogne reo. Quel che tu vuo' veder, pi l molto ed legato e fatto come questo, salvo che pi feroce par nel volto. Non fu tremoto gi tanto rubesto, che scotesse una torre cos forte, come Falte a scuotersi fu presto. Allor temett' io pi che mai la morte, e non v'era mestier pi che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo pi avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta. O tu che ne la fortunata valle che fece Scipon di gloria reda, quand' Anibl co' suoi diede le spalle, recasti gi mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine gi, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. Non ci fare ire a Tizio n a Tifo: questi pu dar di quel che qui si brama; per ti china e non torcer lo grifo. Ancor ti pu nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a s nol chiama. Cos disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond' Ercule sent gi grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: Fatti qua, s ch'io ti prenda; poi fece s ch'un fascio era elli e io. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr' essa s, ched ella incontro penda: tal parve Anto a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci spos; n, s chinato, l fece dimora, e come albero in nave si lev. CANTO XXXII [Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de' traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.] S'o avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco pi pienamente; ma perch' io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; ch non impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, n da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfone a chiuder Tebe, s che dal fatto il dir non sia diverso. Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare duro, mei foste state qui pecore o zebe! Come noi fummo gi nel pozzo scuro sotto i pi del gigante assai pi bassi, e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi'mi: Guarda come passi: va s, che tu non calchi con le piante le teste de' fratei miseri lassi. Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante. Non fece al corso suo s grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, n Tana l sotto 'l freddo cielo, com' era quivi; che se Tambernicchi vi fosse s caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi. E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana, livide, insin l dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna. Ognuna in gi tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia. Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a' piedi, e vidi due s stretti, che 'l pel del capo avieno insieme misto. Ditemi, voi che s strignete i petti, diss' io, chi siete?. E quei piegaro i colli; e poi ch'ebber li visi a me eretti, li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli. Con legno legno spranga mai non cinse forte cos; ond' ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse. E un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in gie, disse: Perch cotanto in noi ti specchi? Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue. D'un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna pi d'esser fitta in gelatina: non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra con esso un colpo per la man d'Art; non Focaccia; non questi che m'ingombra col capo s, ch'i' non veggio oltre pi, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se', ben sai omai chi fu. E perch non mi metti in pi sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni. Poscia vid' io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verr sempre, de' gelati guazzi. E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l'etterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi 'l pi nel viso ad una. Piangendo mi sgrid: Perch mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perch mi moleste?. E io: Maestro mio, or qui m'aspetta, s ch'io esca d'un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta. Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: Qual se' tu che cos rampogni altrui?. Or tu chi se' che vai per l'Antenora, percotendo, rispuose, altrui le gote, s che, se fossi vivo, troppo fora?. Vivo son io, e caro esser ti puote, fu mia risposta, se dimandi fama, ch'io metta il nome tuo tra l'altre note. Ed elli a me: Del contrario ho io brama. Lvati quinci e non mi dar pi lagna, ch mal sai lusingar per questa lama!. Allor lo presi per la cuticagna e dissi: El converr che tu ti nomi, o che capel qui s non ti rimagna. Ond' elli a me: Perch tu mi dischiomi, n ti dir ch'io sia, n mosterrolti se mille fiate in sul capo mi tomi. Io avea gi i capelli in mano avvolti, e tratti glien' avea pi d'una ciocca, latrando lui con li occhi in gi raccolti, quando un altro grid: Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?. Omai, diss' io, non vo' che pi favelle, malvagio traditor; ch'a la tua onta io porter di te vere novelle. Va via, rispuose, e ci che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch'ebbe or cos la lingua pronta. El piange qui l'argento de' Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera l dove i peccatori stanno freschi". Se fossi domandato "Altri chi v'era?", tu hai dallato quel di Beccheria di cui seg Fiorenza la gorgiera. Gianni de' Soldanier credo che sia pi l con Ganellone e Tebaldello, ch'apr Faenza quando si dormia. Noi eravam partiti gi da ello, ch'io vidi due ghiacciati in una buca, s che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, cos 'l sovran li denti a l'altro pose l 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tido si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose. O tu che mostri per s bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi 'l perch, diss' io, per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch'io parlo non si secca. CANTO XXXIII [Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignit e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.] La bocca sollev dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi cominci: Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme gi pur pensando, pria ch'io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se' n per che modo venuto se' qua gi; ma fiorentino mi sembri veramente quand' io t'odo. Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi l'arcivescovo Ruggieri: or ti dir perch i son tal vicino. Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non mestieri; per quel che non puoi avere inteso, cio come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m'ha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, m'avea mostrato per lo suo forame pi lune gi, quand' io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarci 'l velame. Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e dimandar del pane. Ben se' crudel, se tu gi non ti duoli pensando ci che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Gi eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne sola essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond' io guardai nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. Io non pianga, s dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi s, padre! che hai?". Perci non lagrimai n rispuos' io tutto quel giorno n la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo usco. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia di manicar, di sbito levorsi e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia". Queta'mi allor per non farli pi tristi; lo d e l'altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perch non t'apristi? Poscia che fummo al quarto d venuti, Gaddo mi si gitt disteso a' piedi, dicendo: "Padre mio, ch non m'aiuti?". Quivi mor; e come tu mi vedi, vid' io cascar li tre ad uno ad uno tra 'l quinto d e 'l sesto; ond' io mi diedi, gi cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due d li chiamai, poi che fur morti. Poscia, pi che 'l dolor, pot 'l digiuno. Quand' ebbe detto ci, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti, che furo a l'osso, come d'un can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese l dove 'l s suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, s ch'elli annieghi in te ogne persona! Che se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'et novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella. Noi passammo oltre, l 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia, non volta in gi, ma tutta riversata. Lo pianto stesso l pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia; ch le lagrime prime fanno groppo, e s come visiere di cristallo, rempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. E avvegna che, s come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, gi mi parea sentire alquanto vento; per ch'io: Maestro mio, questo chi move? non qua gi ogne vapore spento?. Ond' elli a me: Avaccio sarai dove di ci ti far l'occhio la risposta, veggendo la cagion che 'l fiato piove. E un de' tristi de la fredda crosta grid a noi: O anime crudeli tanto che data v' l'ultima posta, levatemi dal viso i duri veli, s ch'o sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, un poco, pria che 'l pianto si raggeli. Per ch'io a lui: Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna. Rispuose adunque: I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo. Oh, diss' io lui, or se' tu ancor morto?. Ed elli a me: Come 'l mio corpo stea nel mondo s, nulla scenza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade innanzi ch'Atrops mossa le dea. E perch tu pi volentier mi rade le 'nvetrate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l'anima trade come fec' o, il corpo suo l' tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che 'l tempo suo tutto sia vlto. Ella ruina in s fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l'ombra che di qua dietro mi verna. Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli ser Branca Doria, e son pi anni poscia passati ch'el fu s racchiuso. Io credo, diss' io lui, che tu m'inganni; ch Branca Doria non mor unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni. Nel fosso s, diss' el, de' Malebranche, l dove bolle la tenace pece, non era ancora giunto Michel Zanche, che questi lasci il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che 'l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi. E io non gliel' apersi; e cortesia fu lui esser villano. Ahi Genovesi, uomini diversi d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perch non siete voi del mondo spersi? Ch col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito gi si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra. CANTO XXXIV [Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzeb principe de' dimoni e de' traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno.] Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; per dinanzi mira, disse 'l maestro mio, se tu 'l discerni. Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio, ch non l era altra grotta. Gi era, e con paura il metto in metro, l dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com' arco, il volto a' pi rinverte. Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, d'innanzi mi si tolse e f restarmi, Ecco Dite, dicendo, ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi. Com' io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, per ch'ogne parlar sarebbe poco. Io non mori' e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo. Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; e pi con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant' esser dee quel tutto ch'a cos fatta parte si confaccia. S'el fu s bel com' elli ora brutto, e contra 'l suo fattore alz le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto. Oh quanto parve a me gran maraviglia quand' io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e s giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di l onde 'l Nilo s'avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand' ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid' io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, s che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi pianga, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, s che tre ne facea cos dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. Quell' anima l s c'ha maggior pena, disse 'l maestro, Ǐ Giuda Scarotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; e l'altro Cassio, che par s membruto. Ma la notte risurge, e oramai da partir, ch tutto avem veduto. Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai, appigli s a le vellute coste; di vello in vello gi discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste. Quando noi fummo l dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov' elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com' om che sale, s che 'n inferno i' credea tornar anche. Attienti ben, ch per cotali scale, disse 'l maestro, ansando com' uom lasso, conviensi dipartir da tanto male. Poi usc fuor per lo fro d'un sasso e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com' io l'avea lasciato, e vidili le gambe in s tenere; e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual quel punto ch'io avea passato. Lvati s, disse 'l maestro, in piede: la via lunga e 'l cammino malvagio, e gi il sole a mezza terza riede. Non era camminata di palagio l 'v' eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio. Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio, diss' io quando fui dritto, a trarmi d'erro un poco mi favella: ov' la ghiaccia? e questi com' fitto s sottosopra? e come, in s poc' ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?. Ed elli a me: Tu imagini ancora d'esser di l dal centro, ov' io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fra. Di l fosti cotanto quant' io scesi; quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi. E se' or sotto l'emisperio giunto ch' contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; tu ha i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca. Qui da man, quando di l sera; e questi, che ne f scala col pelo, fitto ancora s come prim' era. Da questa parte cadde gi dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui f del mar velo, e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasci qui loco vto quella ch'appar di qua, e s ricorse. Luogo l gi da Belzeb remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo s, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. [Explicit prima pars Comedie Dantis Alagherii Dantis Alagherii in qua tractatum est de Inferis] LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri PURGATORIO CANTO I [Comincia la seconda parte overo cantica de la Comedia di Dante Allaghieri di Firenze, ne la quale parte si purgano li commessi peccati e vizi de' quali l'uomo confesso e pentuto con animo di sodisfazione; e contiene XXXIII canti. Qui sono quelli che sperano di venire quando che sia a le beate genti.] Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a s mar s crudele; e canter di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. Ma qui la morta poes resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Calop alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. Dolce color d'orental zaffiro, che s'accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricominci diletto, tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta che m'avea contristati li occhi e 'l petto. Lo bel pianeto che d'amar conforta faceva tutto rider l'orente, velando i Pesci ch'erano in sua scorta. I' mi volsi a man destra, e puosi mente a l'altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch'a la prima gente. Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle: oh settentronal vedovo sito, poi che privato se' di mirar quelle! Com' io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l'altro polo, l onde 'l Carro gi era sparito, vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che pi non dee a padre alcun figliuolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a' suoi capelli simigliante, de' quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi de le quattro luci sante fregiavan s la sua faccia di lume, ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante. Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?, diss' el, movendo quelle oneste piume. Chi v'ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? Son le leggi d'abisso cos rotte? o mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?. Lo duca mio allor mi di di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi f le gambe e 'l ciglio. Poscia rispuose lui: Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni. Ma da ch' tuo voler che pi si spieghi di nostra condizion com' ell' vera, esser non puote il mio che a te si nieghi. Questi non vide mai l'ultima sera; ma per la sua follia le fu s presso, che molto poco tempo a volger era. S com' io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non l era altra via che questa per la quale i' mi son messo. Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan s sotto la tua bala. Com' io l'ho tratto, saria lungo a dirti; de l'alto scende virt che m'aiuta conducerlo a vederti e a udirti. Or ti piaccia gradir la sua venuta: libert va cercando, ch' s cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu 'l sai, ch non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch'al gran d sar s chiara. Non son li editti etterni per noi guasti, ch questi vive e Mins me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega. Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporter di te a lei, se d'esser mentovato l gi degni. Marza piacque tanto a li occhi miei mentre ch'i' fu' di l, diss' elli allora, che quante grazie volse da me, fei. Or che di l dal mal fiume dimora, pi muover non mi pu, per quella legge che fatta fu quando me n'usci' fora. Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu di', non c' mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge. Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso, s ch'ogne sucidume quindi stinghe; ch non si converria, l'occhio sorpriso d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch' di quei di paradiso. Questa isoletta intorno ad imo ad imo, l gi col dove la batte l'onda, porta di giunchi sovra 'l molle limo: null' altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, per ch'a le percosse non seconda. Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterr, che surge omai, prendere il monte a pi lieve salita. Cos spar; e io s mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El cominci: Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, ch di qua dichina questa pianura a' suoi termini bassi. L'alba vinceva l'ora mattutina che fuggia innanzi, s che di lontano conobbi il tremolar de la marina. Noi andavam per lo solingo piano com' om che torna a la perduta strada, che 'nfino ad essa li pare ire in vano. Quando noi fummo l 've la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada, ambo le mani in su l'erbetta sparte soavemente 'l mio maestro pose: ond' io, che fui accorto di sua arte, porsi ver' lui le guance lagrimose; ivi mi fece tutto discoverto quel color che l'inferno mi nascose. Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. Quivi mi cinse s com' altrui piacque: oh maraviglia! ch qual elli scelse l'umile pianta, cotal si rinacque subitamente l onde l'avelse. CANTO II [Canto secondo, nel quale tratta de la prima qualitade cio dilettazione di vanitade, nel quale peccato inviluppati sono puniti proprio fuori del purgatorio in uno piano, e in persona di costoro nomina il Casella, uomo di corte.] Gi era 'l sole a l'orizzonte giunto lo cui meridan cerchio coverchia Ierusalm col suo pi alto punto; e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance, che le caggion di man quando soverchia; s che le bianche e le vermiglie guance, l dov' i' era, de la bella Aurora per troppa etate divenivan rance. Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora. Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia gi nel ponente sovra 'l suol marino, cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir s ratto, che 'l muover suo nessun volar pareggia. Dal qual com' io un poco ebbi ritratto l'occhio per domandar lo duca mio, rividil pi lucente e maggior fatto. Poi d'ogne lato ad esso m'appario un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui usco. Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto, grid: Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco l'angel di Dio: piega le mani; omai vedrai di s fatti officiali. Vedi che sdegna li argomenti umani, s che remo non vuol, n altro velo che l'ali sue, tra liti s lontani. Vedi come l'ha dritte verso 'l cielo, trattando l'aere con l'etterne penne, che non si mutan come mortal pelo. Poi, come pi e pi verso noi venne l'uccel divino, pi chiaro appariva: per che l'occhio da presso nol sostenne, ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggero, tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva. Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che faria beato pur descripto; e pi di cento spirti entro sediero. 'In exitu Isrel de Aegypto' cantavan tutti insieme ad una voce con quanto di quel salmo poscia scripto. Poi fece il segno lor di santa croce; ond' ei si gittar tutti in su la piaggia: ed el sen g, come venne, veloce. La turba che rimase l, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia. Da tutte parti saettava il giorno lo sol, ch'avea con le saette conte di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno, quando la nova gente alz la fronte ver' noi, dicendo a noi: Se voi sapete, mostratene la via di gire al monte. E Virgilio rispuose: Voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete. Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, per altra via, che fu s aspra e forte, che lo salire omai ne parr gioco. L'anime, che si fuor di me accorte, per lo spirare, ch'i' era ancor vivo, maravigliando diventaro smorte. E come a messagger che porta ulivo tragge la gente per udir novelle, e di calcar nessun si mostra schivo, cos al viso mio s'affisar quelle anime fortunate tutte quante, quasi oblando d'ire a farsi belle. Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi, con s grande affetto, che mosse me a far lo somigliante. Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto. Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l'ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. Soavemente disse ch'io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s'arrestasse. Rispuosemi: Cos com' io t'amai nel mortal corpo, cos t'amo sciolta: per m'arresto; ma tu perch vai?. Casella mio, per tornar altra volta l dov' io son, fo io questo vaggio, diss' io; ma a te com' tanta ora tolta?. Ed elli a me: Nessun m' fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, pi volte m'ha negato esto passaggio; ch di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace. Ond' io, ch'era ora a la marina vlto dove l'acqua di Tevero s'insala, benignamente fu' da lui ricolto. A quella foce ha elli or dritta l'ala, per che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala. E io: Se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l'amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie, di ci ti piaccia consolare alquanto l'anima mia, che, con la sua persona venendo qui, affannata tanto!. 'Amor che ne la mente mi ragiona' cominci elli allor s dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui parevan s contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: Che ci, spiriti lenti? qual negligenza, quale stare questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch'esser non lascia a voi Dio manifesto. Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l'usato orgoglio, se cosa appare ond' elli abbian paura, subitamente lasciano star l'esca, perch' assaliti son da maggior cura; cos vid' io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa, com' om che va, n sa dove resca; n la nostra partita fu men tosta. CANTO III [Canto III, nel quale si tratta de la seconda qualitade, cio di coloro che per cagione d'alcuna violenza che ricevettero, tardaro di qui a loro fine a pentersi e confessarsi de' loro falli, s come sono quelli che muoiono in contumacia di Santa Chiesa scomunicati, li quali sono puniti in quel piano. In essempro di cotali peccatori nomina tra costoro il re Manfredi.] Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, i' mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare' io sanza lui corso? chi m'avria tratto su per la montagna? El mi parea da s stesso rimorso: o dignitosa coscenza e netta, come t' picciol fallo amaro morso! Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l'onestade ad ogn' atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, lo 'ntento rallarg, s come vaga, e diedi 'l viso mio incontr' al poggio che 'nverso 'l ciel pi alto si dislaga. Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m'era dinanzi a la figura, ch'ava in me de' suoi raggi l'appoggio. Io mi volsi dallato con paura d'essere abbandonato, quand' io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; e 'l mio conforto: Perch pur diffidi?, a dir mi cominci tutto rivolto; non credi tu me teco e ch'io ti guidi? Vespero gi col dov' sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l'ha, e da Brandizio tolto. Ora, se innanzi a me nulla s'aombra, non ti maravigliar pi che d'i cieli che l'uno a l'altro raggio non ingombra. A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virt dispone che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli. Matto chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; ch, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; e disar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch'etternalmente dato lor per lutto: io dico d'Aristotile e di Plato e di molt' altri; e qui chin la fronte, e pi non disse, e rimase turbato. Noi divenimmo intanto a pi del monte; quivi trovammo la roccia s erta, che 'ndarno vi sarien le gambe pronte. Tra Lerice e Turba la pi diserta, la pi rotta ruina una scala, verso di quella, agevole e aperta. Or chi sa da qual man la costa cala, disse 'l maestro mio fermando 'l passo, s che possa salir chi va sanz' ala?. E mentre ch'e' tenendo 'l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, da man sinistra m'appar una gente d'anime, che movieno i pi ver' noi, e non pareva, s venan lente. Leva, diss' io, maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne dar consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi. Guard allora, e con libero piglio rispuose: Andiamo in l, ch'ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio. Ancora era quel popol di lontano, i' dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, quando si strinser tutti ai duri massi de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti com' a guardar, chi va dubbiando, stassi. O ben finiti, o gi spiriti eletti, Virgilio incominci, per quella pace ch'i' credo che per voi tutti s'aspetti, ditene dove la montagna giace, s che possibil sia l'andare in suso; ch perder tempo a chi pi sa pi spiace. Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l'altre stanno timidette atterrando l'occhio e 'l muso; e ci che fa la prima, e l'altre fanno, addossandosi a lei, s'ella s'arresta, semplici e quete, e lo 'mperch non sanno; s vid' io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l'andare onesta. Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, s che l'ombra era da me a la grotta, restaro, e trasser s in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo 'l perch, fenno altrettanto. Sanza vostra domanda io vi confesso che questo corpo uman che voi vedete; per che 'l lume del sole in terra fesso. Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virt che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete. Cos 'l maestro; e quella gente degna Tornate, disse, intrate innanzi dunque, coi dossi de le man faccendo insegna. E un di loro incominci: Chiunque tu se', cos andando, volgi 'l viso: pon mente se di l mi vedesti unque. Io mi volsi ver' lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso. Quand' io mi fui umilmente disdetto d'averlo visto mai, el disse: Or vedi; e mostrommi una piaga a sommo 'l petto. Poi sorridendo disse: Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond' io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l'onor di Cicilia e d'Aragona, e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice. Poscia ch'io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bont infinita ha s gran braccia, che prende ci che si rivolge a lei. Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l'ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, dov' e' le trasmut a lume spento. Per lor maladizion s non si perde, che non possa tornar, l'etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde. Vero che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, per ognun tempo ch'elli stato, trenta, in sua presunzon, se tal decreto pi corto per buon prieghi non diventa. Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m'hai visto, e anco esto divieto; ch qui per quei di l molto s'avanza. CANTO IV [Canto IV, dove si tratta de la soprascritta seconda qualitade, dove si purga chi per negligenza di qui a la morte si tarde a confessare; tra i quali si nomina il Belacqua, uomo di corte.] Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virt nostra comprenda, l'anima bene ad essa si raccoglie, par ch'a nulla potenza pi intenda; e questo contra quello error che crede ch'un'anima sovr' altra in noi s'accenda. E per, quando s'ode cosa o vede che tegna forte a s l'anima volta, vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede; ch'altra potenza quella che l'ascolta, e altra quella c'ha l'anima intera: questa quasi legata e quella sciolta. Di ci ebb' io esperenza vera, udendo quello spirto e ammirando; ch ben cinquanta gradi salito era lo sole, e io non m'era accorto, quando venimmo ove quell' anime ad una gridaro a noi: Qui vostro dimando. Maggiore aperta molte volte impruna con una forcatella di sue spine l'uom de la villa quando l'uva imbruna, che non era la calla onde salne lo duca mio, e io appresso, soli, come da noi la schiera si partne. Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova e 'n Cacume con esso i pi; ma qui convien ch'om voli; dico con l'ale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto che speranza mi dava e facea lume. Noi salavam per entro 'l sasso rotto, e d'ogne lato ne stringea lo stremo, e piedi e man volea il suol di sotto. Poi che noi fummo in su l'orlo suppremo de l'alta ripa, a la scoperta piaggia, Maestro mio, diss' io, che via faremo?. Ed elli a me: Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista, fin che n'appaia alcuna scorta saggia. Lo sommo er' alto che vincea la vista, e la costa superba pi assai che da mezzo quadrante a centro lista. Io era lasso, quando cominciai: O dolce padre, volgiti, e rimira com' io rimango sol, se non restai. Figliuol mio, disse, infin quivi ti tira, additandomi un balzo poco in se che da quel lato il poggio tutto gira. S mi spronaron le parole sue, ch'i' mi sforzai carpando appresso lui, tanto che 'l cinghio sotto i pi mi fue. A seder ci ponemmo ivi ambedui vlti a levante ond' eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui. Li occhi prima drizzai ai bassi liti; poscia li alzai al sole, e ammirava che da sinistra n'eravam feriti. Ben s'avvide il poeta ch'o stava stupido tutto al carro de la luce, ove tra noi e Aquilone intrava. Ond' elli a me: Se Castore e Poluce fossero in compagnia di quello specchio che s e gi del suo lume conduce, tu vedresti il Zodaco rubecchio ancora a l'Orse pi stretto rotare, se non uscisse fuor del cammin vecchio. Come ci sia, se 'l vuoi poter pensare, dentro raccolto, imagina Sn con questo monte in su la terra stare s, ch'amendue hanno un solo orizzn e diversi emisperi; onde la strada che mal non seppe carreggiar Fetn, vedrai come a costui convien che vada da l'un, quando a colui da l'altro fianco, se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada. Certo, maestro mio, diss' io, unquanco non vid' io chiaro s com' io discerno l dove mio ingegno parea manco, che 'l mezzo cerchio del moto superno, che si chiama Equatore in alcun' arte, e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno, per la ragion che di', quinci si parte verso settentron, quanto li Ebrei vedevan lui verso la calda parte. Ma se a te piace, volontier saprei quanto avemo ad andar; ch 'l poggio sale pi che salir non posson li occhi miei. Ed elli a me: Questa montagna tale, che sempre al cominciar di sotto grave; e quant' om pi va s, e men fa male. Per, quand' ella ti parr soave tanto, che s andar ti fia leggero com' a seconda gi andar per nave, allor sarai al fin d'esto sentiero; quivi di riposar l'affanno aspetta. Pi non rispondo, e questo so per vero. E com' elli ebbe sua parola detta, una voce di presso son: Forse che di sedere in pria avrai distretta!. Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone, del qual n io n ei prima s'accorse. L ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l'ombra dietro al sasso come l'uom per negghienza a star si pone. E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo 'l viso gi tra esse basso. O dolce segnor mio, diss' io, adocchia colui che mostra s pi negligente che se pigrizia fosse sua serocchia. Allor si volse a noi e puose mente, movendo 'l viso pur su per la coscia, e disse: Or va tu s, che se' valente!. Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m'avacciava un poco ancor la lena, non m'imped l'andare a lui; e poscia ch'a lui fu' giunto, alz la testa a pena, dicendo: Hai ben veduto come 'l sole da l'omero sinistro il carro mena?. Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perch assiso quiritto se'? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t'ha' ripriso?. Ed elli: O frate, andar in s che porta? ch non mi lascerebbe ire a' martri l'angel di Dio che siede in su la porta. Prima convien che tanto il ciel m'aggiri di fuor da essa, quanto fece in vita, per ch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri, se orazone in prima non m'aita che surga s di cuor che in grazia viva; l'altra che val, che 'n ciel non udita?. E gi il poeta innanzi mi saliva, e dicea: Vienne omai; vedi ch' tocco meridan dal sole e a la riva cuopre la notte gi col pi Morrocco. CANTO V [Canto V, ove si tratta de la terza qualitade, cio di coloro che per cagione di vendicarsi d'alcuna ingiuria insino a la morte mettono in non calere di riconoscere s esser peccatori e soddisfare a Dio; de li quali nomina in persona messer Iacopo di Fano e Bonconte di Montefeltro.] Io era gi da quell' ombre partito, e seguitava l'orme del mio duca, quando di retro a me, drizzando 'l dito, una grid: Ve' che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, e come vivo par che si conduca!. Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto. Perch l'animo tuo tanto s'impiglia, disse 'l maestro, che l'andare allenti? che ti fa ci che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla gi mai la cima per soffiar di venti; ch sempre l'omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da s dilunga il segno, perch la foga l'un de l'altro insolla. Che potea io ridir, se non Io vegno? Dissilo, alquanto del color consperso che fa l'uom di perdon talvolta degno. E 'ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando 'Miserere' a verso a verso. Quando s'accorser ch'i' non dava loco per lo mio corpo al trapassar d'i raggi, mutar lor canto in un oh! lungo e roco; e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr' a noi e dimandarne: Di vostra condizion fatene saggi. E 'l mio maestro: Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro che 'l corpo di costui vera carne. Se per veder la sua ombra restaro, com' io avviso, assai lor risposto: fccianli onore, ed esser pu lor caro. Vapori accesi non vid' io s tosto di prima notte mai fender sereno, n, sol calando, nuvole d'agosto, che color non tornasser suso in meno; e, giunti l, con li altri a noi dier volta, come schiera che scorre sanza freno. Questa gente che preme a noi molta, e vegnonti a pregar, disse 'l poeta: per pur va, e in andando ascolta. O anima che vai per esser lieta con quelle membra con le quai nascesti, venian gridando, un poco il passo queta. Guarda s'alcun di noi unqua vedesti, s che di lui di l novella porti: deh, perch vai? deh, perch non t'arresti? Noi fummo tutti gi per forza morti, e peccatori infino a l'ultima ora; quivi lume del ciel ne fece accorti, s che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, che del disio di s veder n'accora. E io: Perch ne' vostri visi guati, non riconosco alcun; ma s'a voi piace cosa ch'io possa, spiriti ben nati, voi dite, e io far per quella pace che, dietro a' piedi di s fatta guida, di mondo in mondo cercar mi si face. E uno incominci: Ciascun si fida del beneficio tuo sanza giurarlo, pur che 'l voler nonpossa non ricida. Ond' io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, s che ben per me s'adori pur ch'i' possa purgar le gravi offese. Quindi fu' io; ma li profondi fri ond' usc 'l sangue in sul quale io sedea, fatti mi fuoro in grembo a li Antenori, l dov' io pi sicuro esser credea: quel da Esti il f far, che m'avea in ira assai pi l che dritto non volea. Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira, quando fu' sovragiunto ad Oraco, ancor sarei di l dove si spira. Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco m'impigliar s ch'i' caddi; e l vid' io de le mie vene farsi in terra laco. Poi disse un altro: Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l'alto monte, con buona petate aiuta il mio! Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; per ch'io vo tra costor con bassa fronte. E io a lui: Qual forza o qual ventura ti trav s fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura?. Oh!, rispuos' elli, a pi del Casentino traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano, che sovra l'Ermo nasce in Apennino. L 've 'l vocabol suo diventa vano, arriva' io forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano. Quivi perdei la vista e la parola; nel nome di Maria fini', e quivi caddi, e rimase la mia carne sola. Io dir vero, e tu 'l rid tra ' vivi: l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno gridava: "O tu del ciel, perch mi privi? Tu te ne porti di costui l'etterno per una lagrimetta che 'l mi toglie; ma io far de l'altro altro governo!". Ben sai come ne l'aere si raccoglie quell' umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove 'l freddo il coglie. Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento per la virt che sua natura diede. Indi la valle, come 'l d fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento, s che 'l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde, e a' fossati venne di lei ci che la terra non sofferse; e come ai rivi grandi si convenne, ver' lo fiume real tanto veloce si ruin, che nulla la ritenne. Lo corpo mio gelato in su la foce trov l'Archian rubesto; e quel sospinse ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce ch'i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse; voltmmi per le ripe e per lo fondo, poi di sua preda mi coperse e cinse. Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via, seguit 'l terzo spirito al secondo, ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi f, disfecemi Maremma: salsi colui che 'nnanellata pria disposando m'avea con la sua gemma. CANTO VI [Canto VI, dove si tratta di quella medesima qualitade, dove si purga la predetta mala volont di vendicare la 'ngiuria, e per questo si ritarda sua confessione, e dove truova e nomina Sordella da Mantua.] Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente; el non s'arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, pi non fa pressa; e cos da la calca si difende. Tal era io in quella turba spessa, volgendo a loro, e qua e l, la faccia, e promettendo mi sciogliea da essa. Quiv' era l'Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, e l'altro ch'anneg correndo in caccia. Quivi pregava con le mani sporte Federigo Novello, e quel da Pisa che f parer lo buon Marzucco forte. Vidi conte Orso e l'anima divisa dal corpo suo per astio e per inveggia, com' e' dicea, non per colpa commisa; Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentr' di qua, la donna di Brabante, s che per non sia di peggior greggia. Come libero fui da tutte quante quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi, s che s'avacci lor divenir sante, io cominciai: El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo che decreto del cielo orazion pieghi; e questa gente prega pur di questo: sarebbe dunque loro speme vana, o non m' 'l detto tuo ben manifesto?. Ed elli a me: La mia scrittura piana; e la speranza di costor non falla, se ben si guarda con la mente sana; ch cima di giudicio non s'avvalla perch foco d'amor compia in un punto ci che de' sodisfar chi qui s'astalla; e l dov' io fermai cotesto punto, non s'ammendava, per pregar, difetto, perch 'l priego da Dio era disgiunto. Veramente a cos alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto. Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice; tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice. E io: Segnore, andiamo a maggior fretta, ch gi non m'affatico come dianzi, e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta. Noi anderem con questo giorno innanzi, rispuose, quanto pi potremo omai; ma 'l fatto d'altra forma che non stanzi. Prima che sie l s, tornar vedrai colui che gi si cuopre de la costa, s che ' suoi raggi tu romper non fai. Ma vedi l un'anima che, posta sola soletta, inverso noi riguarda: quella ne 'nsegner la via pi tosta. Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dica alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa. Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita; e quella non rispuose al suo dimando, ma di nostro paese e de la vita ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava Manta, e l'ombra, tutta in s romita, surse ver' lui del loco ove pria stava, dicendo: O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!; e l'un l'altro abbracciava. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Quell' anima gentil fu cos presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode di quei ch'un muro e una fossa serra. Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s'alcuna parte in te di pace gode. Che val perch ti racconciasse il freno Iustinano, se la sella vta? Sanz' esso fora la vergogna meno. Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, se bene intendi ci che Dio ti nota, guarda come esta fiera fatta fella per non esser corretta da li sproni, poi che ponesti mano a la predella. O Alberto tedesco ch'abbandoni costei ch' fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni, giusto giudicio da le stelle caggia sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che 'l tuo successor temenza n'aggia! Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto, per cupidigia di cost distretti, che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto. Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color gi tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d'i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com' oscura! Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e d e notte chiama: Cesare mio, perch non m'accompagne?. Vieni a veder la gente quanto s'ama! e se nulla di noi piet ti move, a vergognar ti vien de la tua fama. E se licito m', o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? O preparazion che ne l'abisso del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de l'accorger nostro scisso? Ch le citt d'Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene. Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca, merc del popol tuo che si argomenta. Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l'arco; ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca. Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo solicito risponde sanza chiamare, e grida: I' mi sobbarco!. Or ti fa lieta, ch tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace e tu con senno! S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde. Atene e Lacedemona, che fenno l'antiche leggi e furon s civili, fecero al viver bene un picciol cenno verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch'a mezzo novembre non giugne quel che tu d'ottobre fili. Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume hai tu mutato, e rinovate membre! E se ben ti ricordi e vedi lume, vedrai te somigliante a quella inferma che non pu trovar posa in su le piume, ma con dar volta suo dolore scherma. CANTO VII [Canto VII, dove si purga la quarta qualitade di coloro che, per propria negligenza, di die in die di qui all'ultimo giorno di loro vita tardaro indebitamente loro confessione; li quali si purgano in uno vallone intra fiori ed erbe; dove nomina il re Carlo e molti altri.] Poscia che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, Sordel si trasse, e disse: Voi, chi siete?. Anzi che a questo monte fosser volte l'anime degne di salire a Dio, fur l'ossa mie per Ottavian sepolte. Io son Virgilio; e per null' altro rio lo ciel perdei che per non aver f. Cos rispuose allora il duca mio. Qual colui che cosa innanzi s sbita vede ond' e' si maraviglia, che crede e non, dicendo Ella non , tal parve quelli; e poi chin le ciglia, e umilmente ritorn ver' lui, e abbraccil l 've 'l minor s'appiglia. O gloria di Latin, disse, per cui mostr ci che potea la lingua nostra, o pregio etterno del loco ond' io fui, qual merito o qual grazia mi ti mostra? S'io son d'udir le tue parole degno, dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra. Per tutt' i cerchi del dolente regno, rispuose lui, son io di qua venuto; virt del ciel mi mosse, e con lei vegno. Non per far, ma per non fare ho perduto a veder l'alto Sol che tu disiri e che fu tardi per me conosciuto. Luogo l gi non tristo di martri, ma di tenebre solo, ove i lamenti non suonan come guai, ma son sospiri. Quivi sto io coi pargoli innocenti dai denti morsi de la morte avante che fosser da l'umana colpa essenti; quivi sto io con quei che le tre sante virt non si vestiro, e sanza vizio conobber l'altre e seguir tutte quante. Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio d noi per che venir possiam pi tosto l dove purgatorio ha dritto inizio. Rispuose: Loco certo non c' posto; licito m' andar suso e intorno; per quanto ir posso, a guida mi t'accosto. Ma vedi gi come dichina il giorno, e andar s di notte non si puote; per buon pensar di bel soggiorno. Anime sono a destra qua remote; se mi consenti, io ti merr ad esse, e non sanza diletto ti fier note. Com' ci?, fu risposto. Chi volesse salir di notte, fora elli impedito d'altrui, o non sarria ch non potesse?. E 'l buon Sordello in terra freg 'l dito, dicendo: Vedi? sola questa riga non varcheresti dopo 'l sol partito: non per ch'altra cosa desse briga, che la notturna tenebra, ad ir suso; quella col nonpoder la voglia intriga. Ben si poria con lei tornare in giuso e passeggiar la costa intorno errando, mentre che l'orizzonte il d tien chiuso. Allora il mio segnor, quasi ammirando, Menane, disse, dunque l 've dici ch'aver si pu diletto dimorando. Poco allungati c'eravam di lici, quand' io m'accorsi che 'l monte era scemo, a guisa che i vallon li sceman quici. Col, disse quell' ombra, n'anderemo dove la costa face di s grembo; e l il novo giorno attenderemo. Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca, l dove pi ch'a mezzo muore il lembo. Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido e sereno, fresco smeraldo in l'ora che si fiacca, da l'erba e da li fior, dentr' a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, come dal suo maggiore vinto il meno. Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavit di mille odori vi facea uno incognito e indistinto. 'Salve, Regina' in sul verde e 'n su' fiori quindi seder cantando anime vidi, che per la valle non parean di fuori. Prima che 'l poco sole omai s'annidi, cominci 'l Mantoan che ci avea vlti, tra color non vogliate ch'io vi guidi. Di questo balzo meglio li atti e ' volti conoscerete voi di tutti quanti, che ne la lama gi tra essi accolti. Colui che pi siede alto e fa sembianti d'aver negletto ci che far dovea, e che non move bocca a li altrui canti, Rodolfo imperador fu, che potea sanar le piaghe c'hanno Italia morta, s che tardi per altri si ricrea. L'altro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove l'acqua nasce che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio barbuto, cui lussuria e ozio pasce. E quel nasetto che stretto a consiglio par con colui c'ha s benigno aspetto, mor fuggendo e disfiorando il giglio: guardate l come si batte il petto! L'altro vedete c'ha fatto a la guancia de la sua palma, sospirando, letto. Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda, e quindi viene il duol che s li lancia. Quel che par s membruto e che s'accorda, cantando, con colui dal maschio naso, d'ogne valor port cinta la corda; e se re dopo lui fosse rimaso lo giovanetto che retro a lui siede, ben andava il valor di vaso in vaso, che non si puote dir de l'altre rede; Iacomo e Federigo hanno i reami; del retaggio miglior nessun possiede. Rade volte risurge per li rami l'umana probitate; e questo vole quei che la d, perch da lui si chiami. Anche al nasuto vanno mie parole non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta, onde Puglia e Proenza gi si dole. Tant' del seme suo minor la pianta, quanto, pi che Beatrice e Margherita, Costanza di marito ancor si vanta. Vedete il re de la semplice vita seder l solo, Arrigo d'Inghilterra: questi ha ne' rami suoi migliore uscita. Quel che pi basso tra costor s'atterra, guardando in suso, Guiglielmo marchese, per cui e Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canavese. CANTO VIII [Canto VIII, dove si tratta de la quinta qualitade, cio di coloro che, per timore di non perdere onore e signoria e offizi e massimalmente per non ritrarre le mani da l'utilit de la pecunia, si tardaro a confessare di qui a l'ultima ora di loro vita e non facendo penitenza di lor peccati; dove nomina iudice Nino e Currado marchese Malespini.] Era gi l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core lo d c'han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; quand' io incominciai a render vano l'udire e a mirare una de l'alme surta, che l'ascoltar chiedea con mano. Ella giunse e lev ambo le palme, ficcando li occhi verso l'orente, come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'. 'Te lucis ante' s devotamente le usco di bocca e con s dolci note, che fece me a me uscir di mente; e l'altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l'inno intero, avendo li occhi a le superne rote. Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ch 'l velo ora ben tanto sottile, certo che 'l trapassar dentro leggero. Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in se, quasi aspettando, palido e umle; e vidi uscir de l'alto e scender gie due angeli con due spade affocate, tronche e private de le punte sue. Verdi come fogliette pur mo nate erano in veste, che da verdi penne percosse traean dietro e ventilate. L'un poco sovra noi a star si venne, e l'altro scese in l'opposita sponda, s che la gente in mezzo si contenne. Ben discerna in lor la testa bionda; ma ne la faccia l'occhio si smarria, come virt ch'a troppo si confonda. Ambo vegnon del grembo di Maria, disse Sordello, a guardia de la valle, per lo serpente che verr vie via. Ond' io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto m'accostai, tutto gelato, a le fidate spalle. E Sordello anco: Or avvalliamo omai tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; grazoso fia lor vedervi assai. Solo tre passi credo ch'i' scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava pur me, come conoscer mi volesse. Temp' era gi che l'aere s'annerava, ma non s che tra li occhi suoi e ' miei non dichiarisse ci che pria serrava. Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque quando ti vidi non esser tra ' rei! Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimand: Quant' che tu venisti a pi del monte per le lontane acque?. Oh!, diss' io lui, per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita, ancor che l'altra, s andando, acquisti. E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di sbito smarrita. L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse che sedea l, gridando: S, Currado! vieni a veder che Dio per grazia volse. Poi, vlto a me: Per quel singular grado che tu dei a colui che s nasconde lo suo primo perch, che non l guado, quando sarai di l da le larghe onde, d a Giovanna mia che per me chiami l dove a li 'nnocenti si risponde. Non credo che la sua madre pi m'ami, poscia che trasmut le bianche bende, le quai convien che, misera!, ancor brami. Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d'amor dura, se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende. Non le far s bella sepultura la vipera che Melanesi accampa, com' avria fatto il gallo di Gallura. Cos dicea, segnato de la stampa, nel suo aspetto, di quel dritto zelo che misuratamente in core avvampa. Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur l dove le stelle son pi tarde, s come rota pi presso a lo stelo. E 'l duca mio: Figliuol, che l s guarde?. E io a lui: A quelle tre facelle di che 'l polo di qua tutto quanto arde. Ond' elli a me: Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di l basse, e queste son salite ov' eran quelle. Com' ei parlava, e Sordello a s il trasse dicendo: Vedi l 'l nostro avversaro; e drizz il dito perch 'n l guardasse. Da quella parte onde non ha riparo la picciola vallea, era una biscia, forse qual diede ad Eva il cibo amaro. Tra l'erba e ' fior vena la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso leccando come bestia che si liscia. Io non vidi, e per dicer non posso, come mosser li astor celestali; ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso. Sentendo fender l'aere a le verdi ali, fugg 'l serpente, e li angeli dier volta, suso a le poste rivolando iguali. L'ombra che s'era al giudice raccolta quando chiam, per tutto quello assalto punto non fu da me guardare sciolta. Se la lucerna che ti mena in alto truovi nel tuo arbitrio tanta cera quant' mestiere infino al sommo smalto, cominci ella, se novella vera di Val di Magra o di parte vicina sai, dillo a me, che gi grande l era. Fui chiamato Currado Malaspina; non son l'antico, ma di lui discesi; a' miei portai l'amor che qui raffina. Oh!, diss' io lui, per li vostri paesi gi mai non fui; ma dove si dimora per tutta Europa ch'ei non sien palesi? La fama che la vostra casa onora, grida i segnori e grida la contrada, s che ne sa chi non vi fu ancora; e io vi giuro, s'io di sopra vada, che vostra gente onrata non si sfregia del pregio de la borsa e de la spada. Uso e natura s la privilegia, che, perch il capo reo il mondo torca, sola va dritta e 'l mal cammin dispregia. Ed elli: Or va; che 'l sol non si ricorca sette volte nel letto che 'l Montone con tutti e quattro i pi cuopre e inforca, che cotesta cortese oppinone ti fia chiavata in mezzo de la testa con maggior chiovi che d'altrui sermone, se corso di giudicio non s'arresta. CANTO IX [Canto IX, nel quale pone l'auttore uno suo significativo sogno; e poi come pervennero a l'entrata del purgatorio proprio, descrivendo come ne l'entrata di purgatorio trovoe uno angelo che con la punta de la spada che portava in mano scrisse ne la fronte di Dante sette P.] La concubina di Titone antico gi s'imbiancava al balco d'orente, fuor de le braccia del suo dolce amico; di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale che con la coda percuote la gente; e la notte, de' passi con che sale, fatti avea due nel loco ov' eravamo, e 'l terzo gi chinava in giuso l'ale; quand' io, che meco avea di quel d'Adamo, vinto dal sonno, in su l'erba inchinai l 've gi tutti e cinque sedavamo. Ne l'ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de' suo' primi guai, e che la mente nostra, peregrina pi da la carne e men da' pensier presa, a le sue vison quasi divina, in sogno mi parea veder sospesa un'aguglia nel ciel con penne d'oro, con l'ali aperte e a calare intesa; ed esser mi parea l dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro. Fra me pensava: 'Forse questa fiede pur qui per uso, e forse d'altro loco disdegna di portarne suso in piede'. Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse, e me rapisse suso infino al foco. Ivi parea che ella e io ardesse; e s lo 'ncendio imaginato cosse, che convenne che 'l sonno si rompesse. Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo l dove si fosse, quando la madre da Chirn a Schiro trafugg lui dormendo in le sue braccia, l onde poi li Greci il dipartiro; che mi scoss' io, s come da la faccia mi fugg 'l sonno, e diventa' ismorto, come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia. Dallato m'era solo il mio conforto, e 'l sole er' alto gi pi che due ore, e 'l viso m'era a la marina torto. Non aver tema, disse il mio segnore; fatti sicur, ch noi semo a buon punto; non stringer, ma rallarga ogne vigore. Tu se' omai al purgatorio giunto: vedi l il balzo che 'l chiude dintorno; vedi l'entrata l 've par digiunto. Dianzi, ne l'alba che procede al giorno, quando l'anima tua dentro dormia, sovra li fiori ond' l gi addorno venne una donna, e disse: "I' son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme; s l'agevoler per la sua via". Sordel rimase e l'altre genti forme; ella ti tolse, e come 'l d fu chiaro, sen venne suso; e io per le sue orme. Qui ti pos, ma pria mi dimostraro li occhi suoi belli quella intrata aperta; poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro. A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, poi che la verit li discoperta, mi cambia' io; e come sanza cura vide me 'l duca mio, su per lo balzo si mosse, e io di rietro inver' l'altura. Lettor, tu vedi ben com' io innalzo la mia matera, e per con pi arte non ti maravigliar s'io la rincalzo. Noi ci appressammo, ed eravamo in parte che l dove pareami prima rotto, pur come un fesso che muro diparte, vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa, di color diversi, e un portier ch'ancor non facea motto. E come l'occhio pi e pi v'apersi, vidil seder sovra 'l grado sovrano, tal ne la faccia ch'io non lo soffersi; e una spada nuda ava in mano, che refletta i raggi s ver' noi, ch'io dirizzava spesso il viso in vano. Dite costinci: che volete voi?, cominci elli a dire, ov' la scorta? Guardate che 'l venir s non vi ni. Donna del ciel, di queste cose accorta, rispuose 'l mio maestro a lui, pur dianzi ne disse: "Andate l: quivi la porta". Ed ella i passi vostri in bene avanzi, ricominci il cortese portinaio: Venite dunque a' nostri gradi innanzi. L ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era s pulito e terso, ch'io mi specchiai in esso qual io paio. Era il secondo tinto pi che perso, d'una petrina ruvida e arsiccia, crepata per lo lungo e per traverso. Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, porfido mi parea, s fiammeggiante come sangue che fuor di vena spiccia. Sovra questo tena ambo le piante l'angel di Dio sedendo in su la soglia che mi sembiava pietra di diamante. Per li tre gradi s di buona voglia mi trasse il duca mio, dicendo: Chiedi umilemente che 'l serrame scioglia. Divoto mi gittai a' santi piedi; misericordia chiesi e ch'el m'aprisse, ma tre volte nel petto pria mi diedi. Sette P ne la fronte mi descrisse col punton de la spada, e Fa che lavi, quando se' dentro, queste piaghe disse. Cenere, o terra che secca si cavi, d'un color fora col suo vestimento; e di sotto da quel trasse due chiavi. L'una era d'oro e l'altra era d'argento; pria con la bianca e poscia con la gialla fece a la porta s, ch'i' fu' contento. Quandunque l'una d'este chiavi falla, che non si volga dritta per la toppa, diss' elli a noi, non s'apre questa calla. Pi cara l'una; ma l'altra vuol troppa d'arte e d'ingegno avanti che diserri, perch' ella quella che 'l nodo digroppa. Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri anzi ad aprir ch'a tenerla serrata, pur che la gente a' piedi mi s'atterri. Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, dicendo: Intrate; ma facciovi accorti che di fuor torna chi 'n dietro si guata. E quando fuor ne' cardini distorti li spigoli di quella regge sacra, che di metallo son sonanti e forti, non rugghi s n si mostr s acra Tarpa, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra. Io mi rivolsi attento al primo tuono, e 'Te Deum laudamus' mi parea udire in voce mista al dolce suono. Tale imagine a punto mi rendea ci ch'io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea; ch'or s or no s'intendon le parole. CANTO X [Canto X, dove si tratta del primo girone del proprio purgatorio, il quale luogo discrive l'auttore sotto certi intagli d'antiche imagini; e qui si purga la colpa de la superbia.] Poi fummo dentro al soglio de la porta che 'l mal amor de l'anime disusa, perch fa parer dritta la via torta, sonando la senti' esser richiusa; e s'io avesse li occhi vlti ad essa, qual fora stata al fallo degna scusa? Noi salavam per una pietra fessa, che si moveva e d'una e d'altra parte, s come l'onda che fugge e s'appressa. Qui si conviene usare un poco d'arte, cominci 'l duca mio, in accostarsi or quinci, or quindi al lato che si parte. E questo fece i nostri passi scarsi, tanto che pria lo scemo de la luna rigiunse al letto suo per ricorcarsi, che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti s dove il monte in dietro si rauna, o stancato e amendue incerti di nostra via, restammo in su un piano solingo pi che strade per diserti. Da la sua sponda, ove confina il vano, al pi de l'alta ripa che pur sale, misurrebbe in tre volte un corpo umano; e quanto l'occhio mio potea trar d'ale, or dal sinistro e or dal destro fianco, questa cornice mi parea cotale. L s non eran mossi i pi nostri anco, quand' io conobbi quella ripa intorno che dritto di salita aveva manco, esser di marmo candido e addorno d'intagli s, che non pur Policleto, ma la natura l avrebbe scorno. L'angel che venne in terra col decreto de la molt' anni lagrimata pace, ch'aperse il ciel del suo lungo divieto, dinanzi a noi pareva s verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagine che tace. Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!'; perch iv' era imaginata quella ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella 'Ecce ancilla De', propriamente come figura in cera si suggella. Non tener pur ad un loco la mente, disse 'l dolce maestro, che m'avea da quella parte onde 'l cuore ha la gente. Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa onde m'era colui che mi movea, un'altra storia ne la roccia imposta; per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso, acci che fosse a li occhi miei disposta. Era intagliato l nel marmo stesso lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa, per che si teme officio non commesso. Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a' due mie' sensi faceva dir l'un 'No', l'altro 'S, canta'. Similemente al fummo de li 'ncensi che v'era imaginato, li occhi e 'l naso e al s e al no discordi fensi. L precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l'umile salmista, e pi e men che re era in quel caso. Di contra, effigata ad una vista d'un gran palazzo, Micl ammirava s come donna dispettosa e trista. I' mossi i pi del loco dov' io stava, per avvisar da presso un'altra istoria, che di dietro a Micl mi biancheggiava. Quiv' era storata l'alta gloria del roman principato, il cui valore mosse Gregorio a la sua gran vittoria; i' dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore. Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro sovr' essi in vista al vento si movieno. La miserella intra tutti costoro pareva dir: Segnor, fammi vendetta di mio figliuol ch' morto, ond' io m'accoro; ed elli a lei rispondere: Or aspetta tanto ch'i' torni; e quella: Segnor mio, come persona in cui dolor s'affretta, se tu non torni?; ed ei: Chi fia dov' io, la ti far; ed ella: L'altrui bene a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?; ond' elli: Or ti conforta; ch'ei convene ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova: giustizia vuole e piet mi ritene. Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perch qui non si trova. Mentr' io mi dilettava di guardare l'imagini di tante umilitadi, e per lo fabbro loro a veder care, Ecco di qua, ma fanno i passi radi, mormorava il poeta, molte genti: questi ne 'nveranno a li alti gradi. Li occhi miei, ch'a mirare eran contenti per veder novitadi ond' e' son vaghi, volgendosi ver' lui non furon lenti. Non vo' per, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire come Dio vuol che 'l debito si paghi. Non attender la forma del martre: pensa la succession; pensa ch'al peggio oltre la gran sentenza non pu ire. Io cominciai: Maestro, quel ch'io veggio muovere a noi, non mi sembian persone, e non so che, s nel veder vaneggio. Ed elli a me: La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, s che ' miei occhi pria n'ebber tencione. Ma guarda fiso l, e disviticchia col viso quel che vien sotto a quei sassi: gi scorger puoi come ciascun si picchia. O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne' retrosi passi, non v'accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi? Di che l'animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, s come vermo in cui formazion falla? Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura si vede giugner le ginocchia al petto, la qual fa del non ver vera rancura nascere 'n chi la vede; cos fatti vid' io color, quando puosi ben cura. Vero che pi e meno eran contratti secondo ch'avien pi e meno a dosso; e qual pi pazenza avea ne li atti, piangendo parea dicer: 'Pi non posso'. CANTO XI [Canto XI, nel quale si tratta del sopradetto primo girone e de' superbi medesimi, e qui si purga la vana gloria ch' uno de' rami de la superbia; dove nomina il conte Uberto da Santafiore e messer Provenzano Salvani di Siena e molti altri.] O Padre nostro, che ne' cieli stai, non circunscritto, ma per pi amore ch'ai primi effetti di l s tu hai, laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore da ogne creatura, com' degno di render grazie al tuo dolce vapore. Vegna ver' noi la pace del tuo regno, ch noi ad essa non potem da noi, s'ella non vien, con tutto nostro ingegno. Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, cos facciano li uomini de' suoi. D oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi pi di gir s'affanna. E come noi lo mal ch'avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto. Nostra virt che di legger s'adona, non spermentar con l'antico avversaro, ma libera da lui che s la sprona. Quest' ultima preghiera, segnor caro, gi non si fa per noi, ch non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro. Cos a s e noi buona ramogna quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo, simile a quel che talvolta si sogna, disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, purgando la caligine del mondo. Se di l sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei c'hanno al voler buona radice? Ben si de' loro atar lavar le note che portar quinci, s che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote. Deh, se giustizia e piet vi disgrievi tosto, s che possiate muover l'ala, che secondo il disio vostro vi lievi, mostrate da qual mano inver' la scala si va pi corto; e se c' pi d'un varco, quel ne 'nsegnate che men erto cala; ch questi che vien meco, per lo 'ncarco de la carne d'Adamo onde si veste, al montar s, contra sua voglia, parco. Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu' io seguiva, non fur da cui venisser manifeste; ma fu detto: A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva. E s'io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar convienmi il viso basso, cotesti, ch'ancor vive e non si noma, guardere' io, per veder s'i' 'l conosco, e per farlo pietoso a questa soma. Io fui latino e nato d'un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se 'l nome suo gi mai fu vosco. L'antico sangue e l'opere leggiadre d'i miei maggior mi fer s arrogante, che, non pensando a la comune madre, ogn' uomo ebbi in despetto tanto avante, ch'io ne mori', come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante. Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ch tutti miei consorti ha ella tratti seco nel malanno. E qui convien ch'io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti. Ascoltando chinai in gi la faccia; e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li 'mpaccia, e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi a me che tutto chin con loro andava. Oh!, diss' io lui, non se' tu Oderisi, l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte ch'alluminar chiamata in Parisi?. Frate, diss' elli, pi ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; l'onore tutto or suo, e mio in parte. Ben non sare' io stato s cortese mentre ch'io vissi, per lo gran disio de l'eccellenza ove mio core intese. Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio. Oh vana gloria de l'umane posse! com' poco verde in su la cima dura, se non giunta da l'etati grosse! Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, s che la fama di colui scura. Cos ha tolto l'uno a l'altro Guido la gloria de la lingua; e forse nato chi l'uno e l'altro caccer del nido. Non il mondan romore altro ch'un fiato di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perch muta lato. Che voce avrai tu pi, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi', pria che passin mill' anni? ch' pi corto spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia al cerchio che pi tardi in cielo torto. Colui che del cammin s poco piglia dinanzi a me, Toscana son tutta; e ora a pena in Siena sen pispiglia, ond' era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba fu a quel tempo s com' ora putta. La vostra nominanza color d'erba, che viene e va, e quei la discolora per cui ella esce de la terra acerba. E io a lui: Tuo vero dir m'incora bona umilt, e gran tumor m'appiani; ma chi quei di cui tu parlavi ora?. Quelli , rispuose, Provenzan Salvani; ed qui perch fu presuntoso a recar Siena tutta a le sue mani. Ito cos e va, sanza riposo, poi che mor; cotal moneta rende a sodisfar chi di l troppo oso. E io: Se quello spirito ch'attende, pria che si penta, l'orlo de la vita, qua gi dimora e qua s non ascende, se buona orazon lui non aita, prima che passi tempo quanto visse, come fu la venuta lui largita?. Quando vivea pi gloroso, disse, liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s'affisse; e l, per trar l'amico suo di pena, ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena. Pi non dir, e scuro so che parlo; ma poco tempo andr, che ' tuoi vicini faranno s che tu potrai chiosarlo. Quest' opera li tolse quei confini. CANTO XII [Canto XII, ove si tratta del secondo girone dove si sono intagliate certe imagini antiche de' superbi; e quivi si puniscono li superbi medesimi.] Di pari, come buoi che vanno a giogo, m'andava io con quell' anima carca, fin che 'l sofferse il dolce pedagogo. Ma quando disse: Lascia lui e varca; ch qui buono con l'ali e coi remi, quantunque pu, ciascun pinger sua barca; dritto s come andar vuolsi rife'mi con la persona, avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi. Io m'era mosso, e seguia volontieri del mio maestro i passi, e amendue gi mostravam com' eravam leggeri; ed el mi disse: Volgi li occhi in gie: buon ti sar, per tranquillar la via, veder lo letto de le piante tue. Come, perch di lor memoria sia, sovra i sepolti le tombe terragne portan segnato quel ch'elli eran pria, onde l molte volte si ripiagne per la puntura de la rimembranza, che solo a' pi d de le calcagne; s vid' io l, ma di miglior sembianza secondo l'artificio, figurato quanto per via di fuor del monte avanza. Vedea colui che fu nobil creato pi ch'altra creatura, gi dal cielo folgoreggiando scender, da l'un lato. Veda Brareo fitto dal telo celestal giacer, da l'altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo. Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d'i Giganti sparte. Vedea Nembrt a pi del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti che 'n Sennar con lui superbi fuoro. O Nob, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! O Sal, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelbo, che poi non sent pioggia n rugiada! O folle Aragne, s vedea io te gi mezza ragna, trista in su li stracci de l'opera che mal per te si f. O Robom, gi non par che minacci quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci. Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre f caro parer lo sventurato addornamento. Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherb dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro. Mostrava la ruina e 'l crudo scempio che f Tamiri, quando disse a Ciro: Sangue sitisti, e io di sangue t'empio. Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro. Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Iln, come te basso e vile mostrava il segno che l si discerne! Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi mirar farieno uno ingegno sottile? Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, quant' io calcai, fin che chinato givi. Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d'Eva, e non chinate il volto s che veggiate il vostro mal sentero! Pi era gi per noi del monte vlto e del cammin del sole assai pi speso che non stimava l'animo non sciolto, quando colui che sempre innanzi atteso andava, cominci: Drizza la testa; non pi tempo di gir s sospeso. Vedi col un angel che s'appresta per venir verso noi; vedi che torna dal servigio del d l'ancella sesta. Di reverenza il viso e li atti addorna, s che i diletti lo 'nvarci in suso; pensa che questo d mai non raggiorna!. Io era ben del suo ammonir uso pur di non perder tempo, s che 'n quella materia non potea parlarmi chiuso. A noi vena la creatura bella, biancovestito e ne la faccia quale par tremolando mattutina stella. Le braccia aperse, e indi aperse l'ale; disse: Venite: qui son presso i gradi, e agevolemente omai si sale. A questo invito vegnon molto radi: o gente umana, per volar s nata, perch a poco vento cos cadi?. Menocci ove la roccia era tagliata; quivi mi batt l'ali per la fronte; poi mi promise sicura l'andata. Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga la ben guidata sopra Rubaconte, si rompe del montar l'ardita foga per le scalee che si fero ad etade ch'era sicuro il quaderno e la doga; cos s'allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l'altro girone; ma quinci e quindi l'alta pietra rade. Noi volgendo ivi le nostre persone, 'Beati pauperes spiritu!' voci cantaron s, che nol diria sermone. Ahi quanto son diverse quelle foci da l'infernali! ch quivi per canti s'entra, e l gi per lamenti feroci. Gi montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo pi lieve che per lo pian non mi parea davanti. Ond' io: Maestro, d, qual cosa greve levata s' da me, che nulla quasi per me fatica, andando, si riceve?. Rispuose: Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, saranno, com' l'un, del tutto rasi, fier li tuoi pi dal buon voler s vinti, che non pur non fatica sentiranno, ma fia diletto loro esser s pinti. Allor fec' io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ' cenni altrui sospecciar fanno; per che la mano ad accertar s'aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si pu fornir per la veduta; e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che 'ncise quel da le chiavi a me sovra le tempie: a che guardando, il mio duca sorrise. CANTO XIII [Canto XIII, dove si tratta del sopradetto girone secondo, e quivi si punisce la colpa della invidia; dove nomina madonna Sapa, moglie di messer Viviano de' Ghinibaldi da Siena, e molti altri.] Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondamente si risega lo monte che salendo altrui dismala. Ivi cos una cornice lega dintorno il poggio, come la primaia; se non che l'arco suo pi tosto piega. Ombra non l n segno che si paia: parsi la ripa e parsi la via schietta col livido color de la petraia. Se qui per dimandar gente s'aspetta, ragionava il poeta, io temo forse che troppo avr d'indugio nostra eletta. Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro, e la sinistra parte di s torse. O dolce lume a cui fidanza i' entro per lo novo cammin, tu ne conduci, dicea, come condur si vuol quinc' entro. Tu scaldi il mondo, tu sovr' esso luci; s'altra ragione in contrario non ponta, esser dien sempre li tuoi raggi duci. Quanto di qua per un migliaio si conta, tanto di l eravam noi gi iti, con poco tempo, per la voglia pronta; e verso noi volar furon sentiti, non per visti, spiriti parlando a la mensa d'amor cortesi inviti. La prima voce che pass volando 'Vinum non habent' altamente disse, e dietro a noi l'and reterando. E prima che del tutto non si udisse per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste' pass gridando, e anco non s'affisse. Oh!, diss' io, padre, che voci son queste?. E com' io domandai, ecco la terza dicendo: 'Amate da cui male aveste'. E 'l buon maestro: Questo cinghio sferza la colpa de la invidia, e per sono tratte d'amor le corde de la ferza. Lo fren vuol esser del contrario suono; credo che l'udirai, per mio avviso, prima che giunghi al passo del perdono. Ma ficca li occhi per l'aere ben fiso, e vedrai gente innanzi a noi sedersi, e ciascun lungo la grotta assiso. Allora pi che prima li occhi apersi; guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti al color de la pietra non diversi. E poi che fummo un poco pi avanti, udia gridar: 'Maria, ra per noi': gridar 'Michele' e 'Pietro' e 'Tutti santi'. Non credo che per terra vada ancoi omo s duro, che non fosse punto per compassion di quel ch'i' vidi poi; ch, quando fui s presso di lor giunto, che li atti loro a me venivan certi, per li occhi fui di grave dolor munto. Di vil ciliccio mi parean coperti, e l'un sofferia l'altro con la spalla, e tutti da la ripa eran sofferti. Cos li ciechi a cui la roba falla, stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, e l'uno il capo sopra l'altro avvalla, perch 'n altrui piet tosto si pogna, non pur per lo sonar de le parole, ma per la vista che non meno agogna. E come a li orbi non approda il sole, cos a l'ombre quivi, ond' io parlo ora, luce del ciel di s largir non vole; ch a tutti un fil di ferro i cigli fra e cusce s, come a sparvier selvaggio si fa per che queto non dimora. A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto: per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio. Ben sapev' ei che volea dir lo muto; e per non attese mia dimanda, ma disse: Parla, e sie breve e arguto. Virgilio mi vena da quella banda de la cornice onde cader si puote, perch da nulla sponda s'inghirlanda; da l'altra parte m'eran le divote ombre, che per l'orribile costura premevan s, che bagnavan le gote. Volsimi a loro e: O gente sicura, incominciai, di veder l'alto lume che 'l disio vostro solo ha in sua cura, se tosto grazia resolva le schiume di vostra coscenza s che chiaro per essa scenda de la mente il fiume, ditemi, ch mi fia grazioso e caro, s'anima qui tra voi che sia latina; e forse lei sar buon s'i' l'apparo. O frate mio, ciascuna cittadina d'una vera citt; ma tu vuo' dire che vivesse in Italia peregrina. Questo mi parve per risposta udire pi innanzi alquanto che l dov' io stava, ond' io mi feci ancor pi l sentire. Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava in vista; e se volesse alcun dir 'Come?', lo mento a guisa d'orbo in s levava. Spirto, diss' io, che per salir ti dome, se tu se' quelli che mi rispondesti, fammiti conto o per luogo o per nome. Io fui sanese, rispuose, e con questi altri rimendo qui la vita ria, lagrimando a colui che s ne presti. Savia non fui, avvegna che Sapa fossi chiamata, e fui de li altrui danni pi lieta assai che di ventura mia. E perch tu non creda ch'io t'inganni, odi s'i' fui, com' io ti dico, folle, gi discendendo l'arco d'i miei anni. Eran li cittadin miei presso a Colle in campo giunti co' loro avversari, e io pregava Iddio di quel ch'e' volle. Rotti fuor quivi e vlti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia, letizia presi a tutte altre dispari, tanto ch'io volsi in s l'ardita faccia, gridando a Dio: "Omai pi non ti temo!", come f 'l merlo per poca bonaccia. Pace volli con Dio in su lo stremo de la mia vita; e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo, se ci non fosse, ch'a memoria m'ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe. Ma tu chi se', che nostre condizioni vai dimandando, e porti li occhi sciolti, s com' io credo, e spirando ragioni?. Li occhi, diss' io, mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ch poca l'offesa fatta per esser con invidia vlti. Troppa pi la paura ond' sospesa l'anima mia del tormento di sotto, che gi lo 'ncarco di l gi mi pesa. Ed ella a me: Chi t'ha dunque condotto qua s tra noi, se gi ritornar credi?. E io: Costui ch' meco e non fa motto. E vivo sono; e per mi richiedi, spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova di l per te ancor li mortai piedi. Oh, questa a udir s cosa nuova, rispuose, che gran segno che Dio t'ami; per col priego tuo talor mi giova. E cheggioti, per quel che tu pi brami, se mai calchi la terra di Toscana, che a' miei propinqui tu ben mi rinfami. Tu li vedrai tra quella gente vana che spera in Talamone, e perderagli pi di speranza ch'a trovar la Diana; ma pi vi perderanno li ammiragli. CANTO XIV [Canto XIV, dove si tratta del sopradetto girone, e qui si purga la sopradetta colpa della invidia; dove nomina messer Rinieri da Calvoli e molti altri.] Chi costui che 'l nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo, e apre li occhi a sua voglia e coverchia?. Non so chi sia, ma so ch'e' non solo; domandal tu che pi li t'avvicini, e dolcemente, s che parli, acco'lo. Cos due spirti, l'uno a l'altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini; e disse l'uno: O anima che fitta nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, per carit ne consola e ne ditta onde vieni e chi se'; ch tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu pi mai. E io: Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia. Di sovr' esso rech' io questa persona: dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, ch 'l nome mio ancor molto non suona. Se ben lo 'ntendimento tuo accarno con lo 'ntelletto, allora mi rispuose quei che diceva pria, tu parli d'Arno. E l'altro disse lui: Perch nascose questi il vocabol di quella riviera, pur com' om fa de l'orribili cose?. E l'ombra che di ci domandata era, si sdebit cos: Non so; ma degno ben che 'l nome di tal valle pra; ch dal principio suo, ov' s pregno l'alpestro monte ond' tronco Peloro, che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno, infin l 've si rende per ristoro di quel che 'l ciel de la marina asciuga, ond' hanno i fiumi ci che va con loro, vert cos per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga: ond' hanno s mutata lor natura li abitator de la misera valle, che par che Circe li avesse in pastura. Tra brutti porci, pi degni di galle che d'altro cibo fatto in uman uso, dirizza prima il suo povero calle. Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi pi che non chiede lor possa, e da lor disdegnosa torce il muso. Vassi caggendo; e quant' ella pi 'ngrossa, tanto pi trova di can farsi lupi la maladetta e sventurata fossa. Discesa poi per pi pelaghi cupi, trova le volpi s piene di froda, che non temono ingegno che le occpi. N lascer di dir perch' altri m'oda; e buon sar costui, s'ancor s'ammenta di ci che vero spirto mi disnoda. Io veggio tuo nepote che diventa cacciator di quei lupi in su la riva del fiero fiume, e tutti li sgomenta. Vende la carne loro essendo viva; poscia li ancide come antica belva; molti di vita e s di pregio priva. Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille anni ne lo stato primaio non si rinselva. Com' a l'annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch'ascolta, da qual che parte il periglio l'assanni, cos vid' io l'altr' anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, poi ch'ebbe la parola a s raccolta. Lo dir de l'una e de l'altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, e dimanda ne fei con prieghi mista; per che lo spirto che di pria parlmi ricominci: Tu vuo' ch'io mi deduca nel fare a te ci che tu far non vuo'mi. Ma da che Dio in te vuol che traluca tanto sua grazia, non ti sar scarso; per sappi ch'io fui Guido del Duca. Fu il sangue mio d'invidia s rarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m'avresti di livore sparso. Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perch poni 'l core l 'v' mestier di consorte divieto? Questi Rinier; questi 'l pregio e l'onore de la casa da Calboli, ove nullo fatto s' reda poi del suo valore. E non pur lo suo sangue fatto brullo, tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, del ben richesto al vero e al trastullo; ch dentro a questi termini ripieno di venenosi sterpi, s che tardi per coltivare omai verrebber meno. Ov' 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? Oh Romagnuoli tornati in bastardi! Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, verga gentil di picciola gramigna? Non ti maravigliar s'io piango, Tosco, quando rimembro, con Guido da Prata, Ugolin d'Azzo che vivette nosco, Federigo Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi (e l'una gente e l'altra diretata), le donne e ' cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia l dove i cuor son fatti s malvagi. O Bretinoro, ch non fuggi via, poi che gita se n' la tua famiglia e molta gente per non esser ria? Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di figliar tai conti pi s'impiglia. Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio lor sen gir; ma non per che puro gi mai rimagna d'essi testimonio. O Ugolin de' Fantolin, sicuro 'l nome tuo, da che pi non s'aspetta chi far lo possa, tralignando, scuro. Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta troppo di pianger pi che di parlare, s m'ha nostra ragion la mente stretta. Noi sapavam che quell' anime care ci sentivano andar; per, tacendo, facan noi del cammin confidare. Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l'aere fende, voce che giunse di contra dicendo: 'Anciderammi qualunque m'apprende'; e fugg come tuon che si dilegua, se sbito la nuvola scoscende. Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, ed ecco l'altra con s gran fracasso, che somigli tonar che tosto segua: Io sono Aglauro che divenni sasso; e allor, per ristrignermi al poeta, in destro feci, e non innanzi, il passo. Gi era l'aura d'ogne parte queta; ed el mi disse: Quel fu 'l duro camo che dovria l'uom tener dentro a sua meta. Ma voi prendete l'esca, s che l'amo de l'antico avversaro a s vi tira; e per poco val freno o richiamo. Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, e l'occhio vostro pur a terra mira; onde vi batte chi tutto discerne. CANTO XV [Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogo diputato a purgare la colpa e peccato de l'ira; e dichiara Virgilio a Dante uno dubbio nato di parole dette nel precedente canto da Guido del Duca, e una visione ch'aparve in sogno a l'auttore, cio Dante.] Quanto tra l'ultimar de l'ora terza e 'l principio del d par de la spera che sempre a guisa di fanciullo scherza, tanto pareva gi inver' la sera essere al sol del suo corso rimaso; vespero l, e qui mezza notte era. E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, perch per noi girato era s 'l monte, che gi dritti andavamo inver' l'occaso, quand' io senti' a me gravar la fronte a lo splendore assai pi che di prima, e stupor m'eran le cose non conte; ond' io levai le mani inver' la cima de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio, che del soverchio visibile lima. Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, s come mostra esperenza e arte; cos mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso; per che a fuggir la mia vista fu ratta. Che quel, dolce padre, a che non posso schermar lo viso tanto che mi vaglia, diss' io, e pare inver' noi esser mosso?. Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia la famiglia del cielo, a me rispuose: messo che viene ad invitar ch'om saglia. Tosto sar ch'a veder queste cose non ti fia grave, ma fieti diletto quanto natura a sentir ti dispuose. Poi giunti fummo a l'angel benedetto, con lieta voce disse: Intrate quinci ad un scaleo vie men che li altri eretto. Noi montavam, gi partiti di linci, e 'Beati misericordes!' fue cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'. Lo mio maestro e io soli amendue suso andavamo; e io pensai, andando, prode acquistar ne le parole sue; e dirizza'mi a lui s dimandando: Che volse dir lo spirto di Romagna, e 'divieto' e 'consorte' menzionando?. Per ch'elli a me: Di sua maggior magagna conosce il danno; e per non s'ammiri se ne riprende perch men si piagna. Perch s'appuntano i vostri disiri dove per compagnia parte si scema, invidia move il mantaco a' sospiri. Ma se l'amor de la spera supprema torcesse in suso il disiderio vostro, non vi sarebbe al petto quella tema; ch, per quanti si dice pi l 'nostro', tanto possiede pi di ben ciascuno, e pi di caritate arde in quel chiostro. Io son d'esser contento pi digiuno, diss' io, che se mi fosse pria taciuto, e pi di dubbio ne la mente aduno. Com' esser puote ch'un ben, distributo in pi posseditor, faccia pi ricchi di s che se da pochi posseduto?. Ed elli a me: Per che tu rificchi la mente pur a le cose terrene, di vera luce tenebre dispicchi. Quello infinito e ineffabil bene che l s , cos corre ad amore com' a lucido corpo raggio vene. Tanto si d quanto trova d'ardore; s che, quantunque carit si stende, cresce sovr' essa l'etterno valore. E quanta gente pi l s s'intende, pi v' da bene amare, e pi vi s'ama, e come specchio l'uno a l'altro rende. E se la mia ragion non ti disfama, vedrai Beatrice, ed ella pienamente ti torr questa e ciascun' altra brama. Procaccia pur che tosto sieno spente, come son gi le due, le cinque piaghe, che si richiudon per esser dolente. Com' io voleva dicer 'Tu m'appaghe', vidimi giunto in su l'altro girone, s che tacer mi fer le luci vaghe. Ivi mi parve in una visone estatica di sbito esser tratto, e vedere in un tempio pi persone; e una donna, in su l'entrar, con atto dolce di madre dicer: Figliuol mio, perch hai tu cos verso noi fatto? Ecco, dolenti, lo tuo padre e io ti cercavamo. E come qui si tacque, ci che pareva prima, dispario. Indi m'apparve un'altra con quell' acque gi per le gote che 'l dolor distilla quando di gran dispetto in altrui nacque, e dir: Se tu se' sire de la villa del cui nome ne' di fu tanta lite, e onde ogne scenza disfavilla, vendica te di quelle braccia ardite ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistrto. E 'l segnor mi parea, benigno e mite, risponder lei con viso temperato: Che farem noi a chi mal ne disira, se quei che ci ama per noi condannato?. Poi vidi genti accese in foco d'ira con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a s pur: Martira, martira!. E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava gi, inver' la terra, ma de li occhi facea sempre al ciel porte, orando a l'alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a' suoi persecutori, con quello aspetto che piet diserra. Quando l'anima mia torn di fori a le cose che son fuor di lei vere, io riconobbi i miei non falsi errori. Lo duca mio, che mi potea vedere far s com' om che dal sonno si slega, disse: Che hai che non ti puoi tenere, ma se' venuto pi che mezza lega velando li occhi e con le gambe avvolte, a guisa di cui vino o sonno piega?. O dolce padre mio, se tu m'ascolte, io ti dir, diss' io, ci che m'apparve quando le gambe mi furon s tolte. Ed ei: Se tu avessi cento larve sovra la faccia, non mi sarian chiuse le tue cogitazion, quantunque parve. Ci che vedesti fu perch non scuse d'aprir lo core a l'acque de la pace che da l'etterno fonte son diffuse. Non dimandai "Che hai?" per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace; ma dimandai per darti forza al piede: cos frugar conviensi i pigri, lenti ad usar lor vigilia quando riede. Noi andavam per lo vespero, attenti oltre quanto potean li occhi allungarsi contra i raggi serotini e lucenti. Ed ecco a poco a poco un fummo farsi verso di noi come la notte oscuro; n da quello era loco da cansarsi. Questo ne tolse li occhi e l'aere puro. CANTO XVI [Canto XVI, dove si tratta del sopradetto terzo girone e del purgare la detta colpa de l'ira; e qui Marco Lombardo solve uno dubbio a Dante.] Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant' esser pu di nuvol tenebrata, non fece al viso mio s grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, n a sentir di cos aspro pelo, che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accost e l'omero m'offerse. S come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida, m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: Guarda che da me tu non sia mozzo. Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l'Agnel di Dio che le peccata leva. Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, s che parea tra esse ogne concordia. Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo?, diss' io. Ed elli a me: Tu vero apprendi, e d'iracundia van solvendo il nodo. Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?. Cos per una voce detto fue; onde 'l maestro mio disse: Rispondi, e domanda se quinci si va se. E io: O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondi. Io ti seguiter quanto mi lece, rispuose; e se veder fummo non lascia, l'udir ci terr giunti in quella vece. Allora incominciai: Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l'infernale ambascia. E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso, non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte. Lombardo fui, e fu' chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l'arco. Per montar s dirittamente vai. Cos rispuose, e soggiunse: I' ti prego che per me prieghi quando s sarai. E io a lui: Per fede mi ti lego di far ci che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego. Prima era scempio, e ora fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio. Lo mondo ben cos tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto; ma priego che m'addite la cagione, s ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui; ch nel cielo uno, e un qua gi la pone. Alto sospir, che duolo strinse in uhi!, mise fuor prima; e poi cominci: Frate, lo mondo cieco, e tu vien ben da lui. Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se cos fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica, lume v' dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. Per, se 'l mondo presente disvia, in voi la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sar or vera spia. Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l'anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ci che la trastulla. Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore. Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver, che discernesse de la vera cittade almen la torre. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, per che 'l pastor che procede, rugumar pu, ma non ha l'unghie fesse; per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond' ella ghiotta, di quel si pasce, e pi oltre non chiede. Ben puoi veder che la mala condotta la cagion che 'l mondo ha fatto reo, e non natura che 'n voi sia corrotta. Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. L'un l'altro ha spento; ed giunta la spada col pasturale, e l'un con l'altro insieme per viva forza mal convien che vada; per che, giunti, l'un l'altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch'ogn' erba si conosce per lo seme. In sul paese ch'Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga; or pu sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna, di ragionar coi buoni o d'appressarsi. Ben v'n tre vecchi ancora in cui rampogna l'antica et la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma, francescamente, il semplice Lombardo. D oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in s due reggimenti, cade nel fango, e s brutta e la soma. O Marco mio, diss' io, bene argomenti; e or discerno perch dal retaggio li figli di Lev furono essenti. Ma qual Gherardo quel che tu per saggio di' ch' rimaso de la gente spenta, in rimprovro del secol selvaggio?. O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta, rispuose a me; ch, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta. Per altro sopranome io nol conosco, s'io nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, ch pi non vegno vosco. Vedi l'albor che per lo fummo raia gi biancheggiare, e me convien partirmi (l'angelo ivi) prima ch'io li paia. Cos torn, e pi non volle udirmi. CANTO XVII [Canto XVII, dove tratta de la qualit del quarto girone, dove si purga la colpa de la accidia, dove si ristora l'amore de lo imperfetto bene; e qui dichiara una questione che indi nasce.] Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera del sol debilemente entra per essi; e fia la tua imagine leggera in giugnere a veder com' io rividi lo sole in pria, che gi nel corcar era. S, pareggiando i miei co' passi fidi del mio maestro, usci' fuor di tal nube ai raggi morti gi ne' bassi lidi. O imaginativa che ne rube talvolta s di fuor, ch'om non s'accorge perch dintorno suonin mille tube, chi move te, se 'l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s'informa, per s o per voler che gi lo scorge. De l'empiezza di lei che mut forma ne l'uccel ch'a cantar pi si diletta, ne l'imagine mia apparve l'orma; e qui fu la mia mente s ristretta dentro da s, che di fuor non vena cosa che fosse allor da lei ricetta. Poi piovve dentro a l'alta fantasia un crucifisso, dispettoso e fero ne la sua vista, e cotal si moria; intorno ad esso era il grande Assero, Estr sua sposa e 'l giusto Mardoceo, che fu al dire e al far cos intero. E come questa imagine rompeo s per s stessa, a guisa d'una bulla cui manca l'acqua sotto qual si feo, surse in mia visone una fanciulla piangendo forte, e dicea: O regina, perch per ira hai voluto esser nulla? Ancisa t'hai per non perder Lavina; or m'hai perduta! Io son essa che lutto, madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina. Come si frange il sonno ove di butto nova luce percuote il viso chiuso, che fratto guizza pria che muoia tutto; cos l'imaginar mio cadde giuso tosto che lume il volto mi percosse, maggior assai che quel ch' in nostro uso. I' mi volgea per veder ov' io fosse, quando una voce disse Qui si monta, che da ogne altro intento mi rimosse; e fece la mia voglia tanto pronta di riguardar chi era che parlava, che mai non posa, se non si raffronta. Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela, cos la mia virt quivi mancava. Questo divino spirito, che ne la via da ir s ne drizza sanza prego, e col suo lume s medesmo cela. S fa con noi, come l'uom si fa sego; ch quale aspetta prego e l'uopo vede, malignamente gi si mette al nego. Or accordiamo a tanto invito il piede; procacciam di salir pria che s'abbui, ch poi non si poria, se 'l d non riede. Cos disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala; e tosto ch'io al primo grado fui, senti'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: 'Beati pacifici, che son sanz' ira mala!'. Gi eran sovra noi tanto levati li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da pi lati. 'O virt mia, perch s ti dilegue?', fra me stesso dicea, ch mi sentiva la possa de le gambe posta in triegue. Noi eravam dove pi non saliva la scala s, ed eravamo affissi, pur come nave ch'a la piaggia arriva. E io attesi un poco, s'io udissi alcuna cosa nel novo girone; poi mi volsi al maestro mio, e dissi: Dolce mio padre, d, quale offensione si purga qui nel giro dove semo? Se i pi si stanno, non stea tuo sermone. Ed elli a me: L'amor del bene, scemo del suo dover, quiritta si ristora; qui si ribatte il mal tardato remo. Ma perch pi aperto intendi ancora, volgi la mente a me, e prenderai alcun buon frutto di nostra dimora. N creator n creatura mai, cominci el, figliuol, fu sanza amore, o naturale o d'animo; e tu 'l sai. Lo naturale sempre sanza errore, ma l'altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore. Mentre ch'elli nel primo ben diretto, e ne' secondi s stesso misura, esser non pu cagion di mal diletto; ma quando al mal si torce, o con pi cura o con men che non dee corre nel bene, contra 'l fattore adovra sua fattura. Quinci comprender puoi ch'esser convene amor sementa in voi d'ogne virtute e d'ogne operazion che merta pene. Or, perch mai non pu da la salute amor del suo subietto volger viso, da l'odio proprio son le cose tute; e perch intender non si pu diviso, e per s stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogne effetto deciso. Resta, se dividendo bene stimo, che 'l mal che s'ama del prossimo; ed esso amor nasce in tre modi in vostro limo. chi, per esser suo vicin soppresso, spera eccellenza, e sol per questo brama ch'el sia di sua grandezza in basso messo; chi podere, grazia, onore e fama teme di perder perch' altri sormonti, onde s'attrista s che 'l contrario ama; ed chi per ingiuria par ch'aonti, s che si fa de la vendetta ghiotto, e tal convien che 'l male altrui impronti. Questo triforme amor qua gi di sotto si piange: or vo' che tu de l'altro intende, che corre al ben con ordine corrotto. Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l'animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende. Se lento amore a lui veder vi tira o a lui acquistar, questa cornice, dopo giusto penter, ve ne martira. Altro ben che non fa l'uom felice; non felicit, non la buona essenza, d'ogne ben frutto e radice. L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona, di sovr' a noi si piange per tre cerchi; ma come tripartito si ragiona, tacciolo, acci che tu per te ne cerchi. CANTO XVIII [Canto XVIII, il quale tratta del sopradetto quarto girone, ove si purga la soprascritta colpa e peccato de l'accidia; e qui mostra Virgilio che perfetto amore; dove nomina l'abate da San Zeno di Verona.] Posto avea fine al suo ragionamento l'alto dottore, e attento guardava ne la mia vista s'io parea contento; e io, cui nova sete ancor frugava, di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse lo troppo dimandar ch'io fo li grava'. Ma quel padre verace, che s'accorse del timido voler che non s'apriva, parlando, di parlare ardir mi porse. Ond' io: Maestro, il mio veder s'avviva s nel tuo lume, ch'io discerno chiaro quanto la tua ragion parta o descriva. Per ti prego, dolce padre caro, che mi dimostri amore, a cui reduci ogne buono operare e 'l suo contraro. Drizza, disse, ver' me l'agute luci de lo 'ntelletto, e fieti manifesto l'error de' ciechi che si fanno duci. L'animo, ch' creato ad amar presto, ad ogne cosa mobile che piace, tosto che dal piacere in atto desto. Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, s che l'animo ad essa volger face; e se, rivolto, inver' di lei si piega, quel piegare amor, quell' natura che per piacer di novo in voi si lega. Poi, come 'l foco movesi in altura per la sua forma ch' nata a salire l dove pi in sua matera dura, cos l'animo preso entra in disire, ch' moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire. Or ti puote apparer quant' nascosa la veritate a la gente ch'avvera ciascun amore in s laudabil cosa; per che forse appar la sua matera sempre esser buona, ma non ciascun segno buono, ancor che buona sia la cera. Le tue parole e 'l mio seguace ingegno, rispuos' io lui, m'hanno amor discoverto, ma ci m'ha fatto di dubbiar pi pregno; ch, s'amore di fuori a noi offerto e l'anima non va con altro piede, se dritta o torta va, non suo merto. Ed elli a me: Quanto ragion qui vede, dir ti poss' io; da indi in l t'aspetta pur a Beatrice, ch' opra di fede. Ogne forma sustanzal, che setta da matera ed con lei unita, specifica vertute ha in s colletta, la qual sanza operar non sentita, n si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita. Per, l onde vegna lo 'ntelletto de le prime notizie, omo non sape, e de' primi appetibili l'affetto, che sono in voi s come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia merto di lode o di biasmo non cape. Or perch a questa ogn' altra si raccoglia, innata v' la virt che consiglia, e de l'assenso de' tener la soglia. Quest' 'l principio l onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo che buoni e rei amori accoglie e viglia. Color che ragionando andaro al fondo, s'accorser d'esta innata libertate; per moralit lasciaro al mondo. Onde, poniam che di necessitate surga ogne amor che dentro a voi s'accende, di ritenerlo in voi la podestate. La nobile virt Beatrice intende per lo libero arbitrio, e per guarda che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende. La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer pi rade, fatta com' un secchion che tuttor arda; e correa contra 'l ciel per quelle strade che 'l sole infiamma allor che quel da Roma tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade. E quell' ombra gentil per cui si noma Pietola pi che villa mantoana, del mio carcar diposta avea la soma; per ch'io, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta, stava com' om che sonnolento vana. Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo le nostre spalle a noi era gi volta. E quale Ismeno gi vide e Asopo lungo di s di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo, cotal per quel giron suo passo falca, per quel ch'io vidi di color, venendo, cui buon volere e giusto amor cavalca. Tosto fur sovr' a noi, perch correndo si movea tutta quella turba magna; e due dinanzi gridavan piangendo: Maria corse con fretta a la montagna; e Cesare, per soggiogare Ilerda, punse Marsilia e poi corse in Ispagna. Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda per poco amor, gridavan li altri appresso, che studio di ben far grazia rinverda. O gente in cui fervore aguto adesso ricompie forse negligenza e indugio da voi per tepidezza in ben far messo, questi che vive, e certo i' non vi bugio, vuole andar s, pur che 'l sol ne riluca; per ne dite ond' presso il pertugio. Parole furon queste del mio duca; e un di quelli spirti disse: Vieni di retro a noi, e troverai la buca. Noi siam di voglia a muoverci s pieni, che restar non potem; per perdona, se villania nostra giustizia tieni. Io fui abate in San Zeno a Verona sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, di cui dolente ancor Milan ragiona. E tale ha gi l'un pi dentro la fossa, che tosto pianger quel monastero, e tristo fia d'avere avuta possa; perch suo figlio, mal del corpo intero, e de la mente peggio, e che mal nacque, ha posto in loco di suo pastor vero. Io non so se pi disse o s'ei si tacque, tant' era gi di l da noi trascorso; ma questo intesi, e ritener mi piacque. E quei che m'era ad ogne uopo soccorso disse: Volgiti qua: vedine due venir dando a l'accida di morso. Di retro a tutti dicean: Prima fue morta la gente a cui il mar s'aperse, che vedesse Iordan le rede sue. E quella che l'affanno non sofferse fino a la fine col figlio d'Anchise, s stessa a vita sanza gloria offerse. Poi quando fuor da noi tanto divise quell' ombre, che veder pi non potiersi, novo pensiero dentro a me si mise, del qual pi altri nacquero e diversi; e tanto d'uno in altro vaneggiai, che li occhi per vaghezza ricopersi, e 'l pensamento in sogno trasmutai. CANTO XIX [Canto XIX, ove tratta de la essenza del quinto girone e qui si purga la colpa de l'avarizia; dove nomina papa Adriano nato di Genova de' conti da Lavagna.] Ne l'ora che non pu 'l calor durno intepidar pi 'l freddo de la luna, vinto da terra, e talor da Saturno - quando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in orente, innanzi a l'alba, surger per via che poco le sta bruna -, mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i pi distorta, con le man monche, e di colore scialba. Io la mirava; e come 'l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, cos lo sguardo mio le facea scorta la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d'ora, e lo smarrito volto, com' amor vuol, cos le colorava. Poi ch'ell' avea 'l parlar cos disciolto, cominciava a cantar s, che con pena da lei avrei mio intento rivolto. Io son, cantava, io son dolce serena, che ' marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena! Io volsi Ulisse del suo cammin vago al canto mio; e qual meco s'ausa, rado sen parte; s tutto l'appago!. Ancor non era sua bocca richiusa, quand' una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa. O Virgilio, Virgilio, chi questa?, fieramente dicea; ed el vena con li occhi fitti pur in quella onesta. L'altra prendea, e dinanzi l'apria fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; quel mi svegli col puzzo che n'uscia. Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: Almen tre voci t'ho messe!, dicea, Surgi e vieni; troviam l'aperta per la qual tu entre. S mi levai, e tutti eran gi pieni de l'alto d i giron del sacro monte, e andavam col sol novo a le reni. Seguendo lui, portava la mia fronte come colui che l'ha di pensier carca, che fa di s un mezzo arco di ponte; quand' io udi' Venite; qui si varca parlare in modo soave e benigno, qual non si sente in questa mortal marca. Con l'ali aperte, che parean di cigno, volseci in s colui che s parlonne tra due pareti del duro macigno. Mosse le penne poi e ventilonne, 'Qui lugent' affermando esser beati, ch'avran di consolar l'anime donne. Che hai che pur inver' la terra guati?, la guida mia incominci a dirmi, poco amendue da l'angel sormontati. E io: Con tanta sospeccion fa irmi novella vison ch'a s mi piega, s ch'io non posso dal pensar partirmi. Vedesti, disse, quell'antica strega che sola sovr' a noi omai si piagne; vedesti come l'uom da lei si slega. Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira lo rege etterno con le rote magne. Quale 'l falcon, che prima a' pi si mira, indi si volge al grido e si protende per lo disio del pasto che l il tira, tal mi fec' io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso, n'andai infin dove 'l cerchiar si prende. Com' io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in giuso. 'Adhaesit pavimento anima mea' sentia dir lor con s alti sospiri, che la parola a pena s'intendea. O eletti di Dio, li cui soffriri e giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliri. Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via pi tosto, le vostre destre sien sempre di fori. Cos preg 'l poeta, e s risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io nel parlare avvisai l'altro nascosto, e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assent con lieto cenno ci che chiedea la vista del disio. Poi ch'io potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura le cui parole pria notar mi fenno, dicendo: Spirto in cui pianger matura quel sanza 'l quale a Dio tornar non pssi, sosta un poco per me tua maggior cura. Chi fosti e perch vlti avete i dossi al s, mi d, e se vuo' ch'io t'impetri cosa di l ond' io vivendo mossi. Ed elli a me: Perch i nostri diretri rivolga il cielo a s, saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri. Intra Sestri e Chiaveri s'adima una fiumana bella, e del suo nome lo titol del mio sangue fa sua cima. Un mese e poco pi prova' io come pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, che piuma sembran tutte l'altre some. La mia conversone, om!, fu tarda; ma, come fatto fui roman pastore, cos scopersi la vita bugiarda. Vidi che l non s'acquetava il core, n pi salir potiesi in quella vita; per che di questa in me s'accese amore. Fino a quel punto misera e partita da Dio anima fui, del tutto avara; or, come vedi, qui ne son punita. Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara in purgazion de l'anime converse; e nulla pena il monte ha pi amara. S come l'occhio nostro non s'aderse in alto, fisso a le cose terrene, cos giustizia qui a terra il merse. Come avarizia spense a ciascun bene lo nostro amore, onde operar perdsi, cos giustizia qui stretti ne tene, ne' piedi e ne le man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto Sire, tanto staremo immobili e distesi. Io m'era inginocchiato e volea dire; ma com' io cominciai ed el s'accorse, solo ascoltando, del mio reverire, Qual cagion, disse, in gi cos ti torse?. E io a lui: Per vostra dignitate mia coscenza dritto mi rimorse. Drizza le gambe, lvati s, frate!, rispuose; non errar: conservo sono teco e con li altri ad una podestate. Se mai quel santo evangelico suono che dice 'Neque nubent' intendesti, ben puoi veder perch' io cos ragiono. Vattene omai: non vo' che pi t'arresti; ch la tua stanza mio pianger disagia, col qual maturo ci che tu dicesti. Nepote ho io di l c'ha nome Alagia, buona da s, pur che la nostra casa non faccia lei per essempro malvagia; e questa sola di l m' rimasa. CANTO XX [Canto XX, ove si tratta del sopradetto girone e de la sopradetta colpa de l'avarizia.] Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra 'l piacer mio, per piacerli, trassi de l'acqua non sazia la spugna. Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia, come si va per muro stretto a' merli; ch la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, da l'altra parte in fuor troppo s'approccia. Maladetta sie tu, antica lupa, che pi che tutte l'altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa! O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di qua gi trasmutarsi, quando verr per cui questa disceda? Noi andavam con passi lenti e scarsi, e io attento a l'ombre, ch'i' sentia pietosamente piangere e lagnarsi; e per ventura udi' Dolce Maria! dinanzi a noi chiamar cos nel pianto come fa donna che in parturir sia; e seguitar: Povera fosti tanto, quanto veder si pu per quello ospizio dove sponesti il tuo portato santo. Seguentemente intesi: O buon Fabrizio, con povert volesti anzi virtute che gran ricchezza posseder con vizio. Queste parole m'eran s piaciute, ch'io mi trassi oltre per aver contezza di quello spirto onde parean venute. Esso parlava ancor de la larghezza che fece Niccol a le pulcelle, per condurre ad onor lor giovinezza. O anima che tanto ben favelle, dimmi chi fosti, dissi, e perch sola tu queste degne lode rinovelle. Non fia sanza merc la tua parola, s'io ritorno a compir lo cammin corto di quella vita ch'al termine vola. Ed elli: Io ti dir, non per conforto ch'io attenda di l, ma perch tanta grazia in te luce prima che sie morto. Io fui radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia, s che buon frutto rado se ne schianta. Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia potesser, tosto ne saria vendetta; e io la cheggio a lui che tutto giuggia. Chiamato fui di l Ugo Ciappetta; di me son nati i Filippi e i Luigi per cui novellamente Francia retta. Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi: quando li regi antichi venner meno tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi, trova'mi stretto ne le mani il freno del governo del regno, e tanta possa di nuovo acquisto, e s d'amici pieno, ch'a la corona vedova promossa la testa di mio figlio fu, dal quale cominciar di costor le sacrate ossa. Mentre che la gran dota provenzale al sangue mio non tolse la vergogna, poco valea, ma pur non facea male. L cominci con forza e con menzogna la sua rapina; e poscia, per ammenda, Pont e Normandia prese e Guascogna. Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima f di Curradino; e poi ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. Tempo vegg' io, non molto dopo ancoi, che tragge un altro Carlo fuor di Francia, per far conoscer meglio e s e ' suoi. Sanz' arme n'esce e solo con la lancia con la qual giostr Giuda, e quella ponta s, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia. Quindi non terra, ma peccato e onta guadagner, per s tanto pi grave, quanto pi lieve simil danno conta. L'altro, che gi usc preso di nave, veggio vender sua figlia e patteggiarne come fanno i corsar de l'altre schiave. O avarizia, che puoi tu pi farne, poscia c'ha' il mio sangue a te s tratto, che non si cura de la propria carne? Perch men paia il mal futuro e 'l fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un'altra volta esser deriso; veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele, e tra vivi ladroni esser anciso. Veggio il novo Pilato s crudele, che ci nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide vele. O Segnor mio, quando sar io lieto a veder la vendetta che, nascosa, fa dolce l'ira tua nel tuo secreto? Ci ch'io dicea di quell' unica sposa de lo Spirito Santo e che ti fece verso me volger per alcuna chiosa, tanto risposto a tutte nostre prece quanto 'l d dura; ma com' el s'annotta, contrario suon prendemo in quella vece. Noi repetiam Pigmalon allotta, cui traditore e ladro e paricida fece la voglia sua de l'oro ghiotta; e la miseria de l'avaro Mida, che segu a la sua dimanda gorda, per la qual sempre convien che si rida. Del folle Acn ciascun poi si ricorda, come fur le spoglie, s che l'ira di Ios qui par ch'ancor lo morda. Indi accusiam col marito Saffira; lodiam i calci ch'ebbe Elodoro; e in infamia tutto 'l monte gira Polinestr ch'ancise Polidoro; ultimamente ci si grida: "Crasso, dilci, che 'l sai: di che sapore l'oro?". Talor parla l'uno alto e l'altro basso, secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona ora a maggiore e ora a minor passo: per al ben che 'l d ci si ragiona, dianzi non era io sol; ma qui da presso non alzava la voce altra persona. Noi eravam partiti gi da esso, e brigavam di soverchiar la strada tanto quanto al poder n'era permesso, quand' io senti', come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch'a morte vada. Certo non si scoteo s forte Delo, pria che Latona in lei facesse 'l nido a parturir li due occhi del cielo. Poi cominci da tutte parti un grido tal, che 'l maestro inverso me si feo, dicendo: Non dubbiar, mentr' io ti guido. 'Glora in excelsis' tutti 'Deo' dicean, per quel ch'io da' vicin compresi, onde intender lo grido si poteo. No' istavamo immobili e sospesi come i pastor che prima udir quel canto, fin che 'l tremar cess ed el compisi. Poi ripigliammo nostro cammin santo, guardando l'ombre che giacean per terra, tornate gi in su l'usato pianto. Nulla ignoranza mai con tanta guerra mi f desideroso di sapere, se la memoria mia in ci non erra, quanta pareami allor, pensando, avere; n per la fretta dimandare er' oso, n per me l potea cosa vedere: cos m'andava timido e pensoso. CANTO XXI [Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si punisce e purga la predetta colpa de l'avarizia e la colpa de la prodigalitade; dove truova Stazio poeta tolosano.] La sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domand la grazia, mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, s come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, gi surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un'ombra, e dietro a noi vena, dal pi guardando la turba che giace; n ci addemmo di lei, s parl pria, dicendo: O frati miei, Dio vi dea pace. Noi ci volgemmo sbiti, e Virgilio rendli 'l cenno ch'a ci si conface. Poi cominci: Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l'etterno essilio. Come!, diss' elli, e parte andavam forte: se voi siete ombre che Dio s non degni, chi v'ha per la sua scala tanto scorte?. E 'l dottor mio: Se tu riguardi a' segni che questi porta e che l'angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. Ma perch lei che d e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, l'anima sua, ch' tua e mia serocchia, venendo s, non potea venir sola, per ch'al nostro modo non adocchia. Ond' io fui tratto fuor de l'ampia gola d'inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto 'l potr menar mia scola. Ma dimmi, se tu sai, perch tai crolli di dianzi 'l monte, e perch tutto ad una parve gridare infino a' suoi pi molli. S mi di, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. Quei cominci: Cosa non che sanza ordine senta la religone de la montagna, o che sia fuor d'usanza. Libero qui da ogne alterazione: di quel che 'l ciel da s in s riceve esser ci puote, e non d'altro, cagione. Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina pi s cade che la scaletta di tre gradi breve; nuvole spesse non paion n rade, n coruscar, n figlia di Taumante, che di l cangia sovente contrade; secco vapor non surge pi avante ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, dov' ha 'l vicario di Pietro le piante. Trema forse pi gi poco o assai; ma per vento che 'n terra si nasconda, non so come, qua s non trem mai. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, s che surga o che si mova per salir s; e tal grido seconda. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l'alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent' anni e pi, pur mo sentii libera volont di miglior soglia: per sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto s li 'nvii. Cos ne disse; e per ch'el si gode tanto del ber quant' grande la sete, non saprei dir quant' el mi fece prode. E 'l savio duca: Omai veggio la rete che qui vi 'mpiglia e come si scalappia, perch ci trema e di che congaudete. Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perch tanti secoli giaciuto qui se', ne le parole tue mi cappia. Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendic le fra ond' usc 'l sangue per Giuda venduto, col nome che pi dura e pi onora era io di l, rispuose quello spirto, famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a s mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di l mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati pi di mille; de l'Eneda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz' essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di l quando visse Virgilio, assentirei un sole pi che non deggio al mio uscir di bando. Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non pu tutto la virt che vuole; ch riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' pi veraci. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante pi si ficca; e Se tanto labore in bene assommi, disse, perch la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?. Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e Non aver paura, mi dice, di parlar; ma parla e digli quel ch'e' dimanda con cotanta cura. Ond' io: Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; ma pi d'ammirazion vo' che ti pigli. Questi che guida in alto li occhi miei, quel Virgilio dal qual tu togliesti forte a cantar de li uomini e d'i di. Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti. Gi s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: Frate, non far, ch tu se' ombra e ombra vedi. Ed ei surgendo: Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, quand' io dismento nostra vanitate, trattando l'ombre come cosa salda. CANTO XXII [Canto XXII, dove tratta de la qualit del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.] Gi era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea vlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso; e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci con 'sitiunt', sanz' altro, ci forniro. E io pi lieve che per l'altre foci m'andava, s che sanz' alcun labore seguiva in s li spiriti veloci; quando Virgilio incominci: Amore, acceso di virt, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore; onde da l'ora che tra noi discese nel limbo de lo 'nferno Giovenale, che la tua affezion mi f palese, mia benvoglienza inverso te fu quale pi strinse mai di non vista persona, s ch'or mi parran corte queste scale. Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurt m'allarga il freno, e come amico omai meco ragiona: come pot trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?. Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: Ogne tuo dir d'amor m' caro cenno. Veramente pi volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose. La tua dimanda tuo creder m'avvera esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, forse per quella cerchia dov' io era. Or sappi ch'avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita. E se non fosse ch'io drizzai mia cura, quand' io intesi l dove tu chiame, crucciato quasi a l'umana natura: 'Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali?', voltando sentirei le giostre grame. Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali potean le mani a spendere, e pente'mi cos di quel come de li altri mali. Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca; per, s'io son tra quella gente stato che piange l'avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m' incontrato. Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta, disse 'l cantor de' buccolici carmi, per quello che Cl teco l tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta. Se cos , qual sole o quai candele ti stenebraron s, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?. Ed elli a lui: Tu prima m'invasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m'alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e s non giova, ma dopo s fa le persone dotte, quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progene scende da ciel nova'. Per te poeta fui, per te cristiano: ma perch veggi mei ci ch'io disegno, a colorare stender la mano. Gi era 'l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l'etterno regno; e la parola tua sopra toccata si consonava a' nuovi predicanti; ond' io a visitarli presi usata. Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti; e mentre che di l per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette. E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi di Tebe poetando, ebb' io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu'mi, lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi f pi che 'l quarto centesmo. Tu dunque, che levato hai il coperchio che m'ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio, dimmi dov' Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico. Costoro e Persio e io e altri assai, rispuose il duca mio, siam con quel Greco che le Muse lattar pi ch'altri mai, nel primo cinghio del carcere cieco; spesse fate ragioniam del monte che sempre ha le nutrice nostre seco. Euripide v' nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri pie Greci che gi di lauro ornar la fronte. Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Defile e Argia, e Ismene s trista come fue. Vdeisi quella che mostr Langia; vvi la figlia di Tiresia, e Teti, e con le suore sue Dedamia. Tacevansi ambedue gi li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti; e gi le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in s l'ardente corno, quando il mio duca: Io credo ch'a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo. Cos l'usanza fu l nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l'assentir di quell' anima degna. Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch'a poetar mi davano intelletto. Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni; e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, cos quello in giuso, cred' io, perch persona s non vada. Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso. Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde grid: Di questo cibo avrete caro. Poi disse: Pi pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde. E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d'acqua; e Danello dispregi cibo e acquist savere. Lo secol primo, quant' oro fu bello, f savorose con fame le ghiande, e nettare con sete ogne ruscello. Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; per ch'elli gloroso e tanto grande quanto per lo Vangelio v' aperto. CANTO XXIII [Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.] Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava o s come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde, lo pi che padre mi dicea: Figliuole, vienne oramai, ch 'l tempo che n' imposto pi utilmente compartir si vuole. Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan se, che l'andar mi facean di nullo costo. Ed ecco piangere e cantar s'ude 'Laba ma, Domine' per modo tal, che diletto e doglia parture. O dolce padre, che quel ch'i' odo?, comincia' io; ed elli: Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo. S come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, cos di retro a noi, pi tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l'ossa la pelle s'informava. Non credo che cos a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando pi n'ebbe tema. Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perd Ierusalemme, quando Maria nel figlio di di becco!'. Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo' ben avria quivi conosciuta l'emme. Chi crederebbe che l'odor d'un pomo s governasse, generando brama, e quel d'un'acqua, non sappiendo como? Gi era in ammirar che s li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guard fiso; poi grid forte: Qual grazia m' questa?. Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ci che l'aspetto in s avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora, pregava, la pelle, n a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, d chi son quelle due anime che l ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!. La faccia tua, ch'io lagrimai gi morta, mi d di pianger mo non minor doglia, rispuos' io lui, veggendola s torta. Per mi d, per Dio, che s vi sfoglia; non mi far dir mentr' io mi maraviglio, ch mal pu dir chi pien d'altra voglia. Ed elli a me: De l'etterno consiglio cade vert ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond' io s m'assottiglio. Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rif santa. Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura. E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo, ch quella voglia a li alberi ci mena che men Cristo lieto a dire 'El', quando ne liber con la sua vena. E io a lui: Forese, da quel d nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinqu' anni non son vlti infino a qui. Se prima fu la possa in te finita di peccar pi, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua s venuto ancora? Io ti credea trovar l gi di sotto, dove tempo per tempo si ristora. Ond' elli a me: S tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i martri la Nella mia con suo pianger dirotto. Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri. Tanto a Dio pi cara e pi diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare pi soletta; ch la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue pi pudica che la Barbagia dov' io la lasciai. O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? Tempo futuro m' gi nel cospetto, cui non sar quest' ora molto antica, nel qual sar in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l'andar mostrando con le poppe il petto. Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline? Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, gi per urlare avrian le bocche aperte; ch, se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna. Deh, frate, or fa che pi non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira l dove 'l sol veli. Per ch'io a lui: Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente. Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda vi si mostr la suora di colui, e 'l sol mostrai; costui per la profonda notte menato m'ha d'i veri morti con questa vera carne che 'l seconda. Indi m'han tratto s li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che 'l mondo fece torti. Tanto dice di farmi sua compagna che io sar l dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna. Virgilio questi che cos mi dice, e addita'lo; e quest' altro quell' ombra per cu scosse dianzi ogne pendice lo vostro regno, che da s lo sgombra. CANTO XXIV [Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui alcune cose a venire de la citt lucana.] N 'l dir l'andar, n l'andar lui pi lento facea, ma ragionando andavam forte, s come nave pinta da buon vento; e l'ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte. E io, continando al mio sermone, dissi: Ella sen va s forse pi tarda che non farebbe, per altrui cagione. Ma dimmi, se tu sai, dov' Piccarda; dimmi s'io veggio da notar persona tra questa gente che s mi riguarda. La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse pi, trunfa lieta ne l'alto Olimpo gi di sua corona. S disse prima; e poi: Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch' s munta nostra sembianza via per la deta. Questi, e mostr col dito, Ǐ Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia di l da lui pi che l'altre trapunta ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l'anguille di Bolsena e la vernaccia. Molti altri mi nom ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, s ch'io per non vidi un atto bruno. Vidi per fame a vto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pastur col rocco molte genti. Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio gi di bere a Forl con men secchezza, e s fu tal, che non si sent sazio. Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza pi d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, che pi parea di me aver contezza. El mormorava; e non so che Gentucca sentiv' io l, ov' el sentia la piaga de la giustizia che s li pilucca. O anima, diss' io, che par s vaga di parlar meco, fa s ch'io t'intenda, e te e me col tuo parlare appaga. Femmina nata, e non porta ancor benda, cominci el, che ti far piacere la mia citt, come ch'om la riprenda. Tu te n'andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, dichiareranti ancor le cose vere. Ma d s'i' veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando 'Donne ch'avete intelletto d'amore'. E io a lui: I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando. O frate, issa vegg' io, diss' elli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne; e qual pi a gradire oltre si mette, non vede pi da l'uno a l'altro stilo; e, quasi contentato, si tacette. Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan pi a fretta e vanno in filo, cos tutta la gente che l era, volgendo 'l viso, raffrett suo passo, e per magrezza e per voler leggera. E come l'uom che di trottare lasso, lascia andar li compagni, e s passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso, s lasci trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: Quando fia ch'io ti riveggia?. Non so, rispuos' io lui, quant' io mi viva; ma gi non fa il tornar mio tantosto, ch'io non sia col voler prima a la riva; per che 'l loco u' fui a viver posto, di giorno in giorno pi di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto. Or va, diss' el; che quei che pi n'ha colpa, vegg' o a coda d'una bestia tratto inver' la valle ove mai non si scolpa. La bestia ad ogne passo va pi ratto, crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto. Non hanno molto a volger quelle ruote, e drizz li occhi al ciel, che ti fia chiaro ci che 'l mio dir pi dichiarar non puote. Tu ti rimani omai; ch 'l tempo caro in questo regno, s ch'io perdo troppo venendo teco s a paro a paro. Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo, tal si part da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo s gran marescalchi. E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue, parvermi i rami gravidi e vivaci d'un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vlto in laci. Vidi gente sott' esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde. Poi si part s come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta. Trapassate oltre sanza farvi presso: legno pi s che fu morso da Eva, e questa pianta si lev da esso. S tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva. Ricordivi, dicea, d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Teso combatter co' doppi petti; e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver' Madan discese i colli. S accostati a l'un d'i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite gi da miseri guadagni. Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e pi ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola. Che andate pensando s voi sol tre?. sbita voce disse; ond' io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre. Drizzai la testa per veder chi fossi; e gi mai non si videro in fornace vetri o metalli s lucenti e rossi, com' io vidi un che dicea: S'a voi piace montare in s, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace. L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, com' om che va secondo ch'elli ascolta. E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che f sentir d'ambrosa l'orezza. E senti' dir: Beati cui alluma tanto di grazia, che l'amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma, esurendo sempre quanto giusto!. CANTO XXV [Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.] Ora era onde 'l salir non volea storpio; ch 'l sole ava il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: per che, come fa l'uom che non s'affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge, cos intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia. E quale il cicognin che leva l'ala per voglia di volare, e non s'attenta d'abbandonar lo nido, e gi la cala; tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l'atto che fa colui ch'a dicer s'argomenta. Non lasci, per l'andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: Scocca l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto. Allor sicuramente apri' la bocca e cominciai: Come si pu far magro l dove l'uopo di nodrir non tocca?. Se t'ammentassi come Meleagro si consum al consumar d'un stizzo, non fora, disse, a te questo s agro; e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, ci che par duro ti parrebbe vizzo. Ma perch dentro a tuo voler t'adage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego che sia or sanator de le tue piage. Se la veduta etterna li dislego, rispuose Stazio, l dove tu sie, discolpi me non potert' io far nego. Poi cominci: Se le parole mie, figlio, la mente tua guarda e riceve, lume ti fiero al come che tu die. Sangue perfetto, che poi non si beve da l'assetate vene, e si rimane quasi alimento che di mensa leve, prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello ch'a farsi quelle per le vene vane. Ancor digesto, scende ov' pi bello tacer che dire; e quindi poscia geme sovr' altrui sangue in natural vasello. Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, l'un disposto a patire, e l'altro a fare per lo perfetto loco onde si preme; e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva ci che per sua matera f constare. Anima fatta la virtute attiva qual d'una pianta, in tanto differente, che questa in via e quella gi a riva, tanto ovra poi, che gi si move e sente, come spungo marino; e indi imprende ad organar le posse ond' semente. Or si spiega, figliuolo, or si distende la virt ch' dal cor del generante, dove natura a tutte membra intende. Ma come d'animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest' tal punto, che pi savio di te f gi errante, s che per sua dottrina f disgiunto da l'anima il possibile intelletto, perch da lui non vide organo assunto. Apri a la verit che viene il petto; e sappi che, s tosto come al feto l'articular del cerebro perfetto, lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant' arte di natura, e spira spirito novo, di vert repleto, che ci che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, che vive e sente e s in s rigira. E perch meno ammiri la parola, guarda il calor del sole che si fa vino, giunto a l'omor che de la vite cola. Quando Lchesis non ha pi del lino, solvesi da la carne, e in virtute ne porta seco e l'umano e 'l divino: l'altre potenze tutte quante mute; memoria, intelligenza e volontade in atto molto pi che prima agute. Sanza restarsi, per s stessa cade mirabilmente a l'una de le rive; quivi conosce prima le sue strade. Tosto che loco l la circunscrive, la virt formativa raggia intorno cos e quanto ne le membra vive. E come l'aere, quand' ben porno, per l'altrui raggio che 'n s si reflette, di diversi color diventa addorno; cos l'aere vicin quivi si mette e in quella forma ch' in lui suggella virtalmente l'alma che ristette; e simigliante poi a la fiammella che segue il foco l 'vunque si muta, segue lo spirto sua forma novella. Per che quindi ha poscia sua paruta, chiamata ombra; e quindi organa poi ciascun sentire infino a la veduta. Quindi parliamo e quindi ridiam noi; quindi facciam le lagrime e ' sospiri che per lo monte aver sentiti puoi. Secondo che ci affliggono i disiri e li altri affetti, l'ombra si figura; e quest' la cagion di che tu miri. E gi venuto a l'ultima tortura s'era per noi, e vlto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura. Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra; ond' ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io tema 'l foco quinci, e quindi temeva cader giuso. Lo duca mio dicea: Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, per ch'errar potrebbesi per poco. 'Summae Deus clementae' nel seno al grande ardore allora udi' cantando, che di volger mi f caler non meno; e vidi spirti per la fiamma andando; per ch'io guardava a loro e a' miei passi, compartendo la vista a quando a quando. Appresso il fine ch'a quell' inno fassi, gridavano alto: 'Virum non cognosco'; indi ricominciavan l'inno bassi. Finitolo, anco gridavano: Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne che di Venere avea sentito il tsco. Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti come virtute e matrimonio imponne. E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti che la piaga da sezzo si ricuscia. CANTO XXVI [Canto XXVI, dove tratta di quello medesimo girone e del purgamento de' predetti peccati e vizi lussuriosi; dove nomina messer Guido Guinizzelli da Bologna e molti altri.] Mentre che s per l'orlo, uno innanzi altro, ce n'andavamo, e spesso il buon maestro diceami: Guarda: giovi ch'io ti scaltro; feriami il sole in su l'omero destro, che gi, raggiando, tutto l'occidente mutava in bianco aspetto di cilestro; e io facea con l'ombra pi rovente parer la fiamma; e pur a tanto indizio vidi molt' ombre, andando, poner mente. Questa fu la cagion che diede inizio loro a parlar di me; e cominciarsi a dir: Colui non par corpo fittizio; poi verso me, quanto potan farsi, certi si fero, sempre con riguardo di non uscir dove non fosser arsi. O tu che vai, non per esser pi tardo, ma forse reverente, a li altri dopo, rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo. N solo a me la tua risposta uopo; ch tutti questi n'hanno maggior sete che d'acqua fredda Indo o Etopo. Dinne com' che fai di te parete al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro da la rete. S mi parlava un d'essi; e io mi fora gi manifesto, s'io non fossi atteso ad altra novit ch'apparve allora; ch per lo mezzo del cammino acceso venne gente col viso incontro a questa, la qual mi fece a rimirar sospeso. L veggio d'ogne parte farsi presta ciascun' ombra e basciarsi una con una sanza restar, contente a brieve festa; cos per entro loro schiera bruna s'ammusa l'una con l'altra formica, forse a spar lor via e lor fortuna. Tosto che parton l'accoglienza amica, prima che 'l primo passo l trascorra, sopragridar ciascuna s'affatica: la nova gente: Soddoma e Gomorra; e l'altra: Ne la vacca entra Pasife, perch 'l torello a sua lussuria corra. Poi, come grue ch'a le montagne Rife volasser parte, e parte inver' l'arene, queste del gel, quelle del sole schife, l'una gente sen va, l'altra sen vene; e tornan, lagrimando, a' primi canti e al gridar che pi lor si convene; e raccostansi a me, come davanti, essi medesmi che m'avean pregato, attenti ad ascoltar ne' lor sembianti. Io, che due volte avea visto lor grato, incominciai: O anime sicure d'aver, quando che sia, di pace stato, non son rimase acerbe n mature le membra mie di l, ma son qui meco col sangue suo e con le sue giunture. Quinci s vo per non esser pi cieco; donna di sopra che m'acquista grazia, per che 'l mortal per vostro mondo reco. Ma se la vostra maggior voglia sazia tosto divegna, s che 'l ciel v'alberghi ch' pien d'amore e pi ampio si spazia, ditemi, acci ch'ancor carte ne verghi, chi siete voi, e chi quella turba che se ne va di retro a' vostri terghi. Non altrimenti stupido si turba lo montanaro, e rimirando ammuta, quando rozzo e salvatico s'inurba, che ciascun' ombra fece in sua paruta; ma poi che furon di stupore scarche, lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta, Beato te, che de le nostre marche, ricominci colei che pria m'inchiese, per morir meglio, esperenza imbarche! La gente che non vien con noi, offese di ci per che gi Cesar, trunfando, "Regina" contra s chiamar s'intese: per si parton "Soddoma" gridando, rimproverando a s com' hai udito, e aiutan l'arsura vergognando. Nostro peccato fu ermafrodito; ma perch non servammo umana legge, seguendo come bestie l'appetito, in obbrobrio di noi, per noi si legge, quando partinci, il nome di colei che s'imbesti ne le 'mbestiate schegge. Or sai nostri atti e di che fummo rei: se forse a nome vuo' saper chi semo, tempo non di dire, e non saprei. Farotti ben di me volere scemo: son Guido Guinizzelli, e gi mi purgo per ben dolermi prima ch'a lo stremo. Quali ne la tristizia di Ligurgo si fer due figli a riveder la madre, tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo, quand' io odo nomar s stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre; e sanza udire e dir pensoso andai lunga fata rimirando lui, n, per lo foco, in l pi m'appressai. Poi che di riguardar pasciuto fui, tutto m'offersi pronto al suo servigio con l'affermar che fa credere altrui. Ed elli a me: Tu lasci tal vestigio, per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro, che Let nol pu trre n far bigio. Ma se le tue parole or ver giuraro, dimmi che cagion per che dimostri nel dire e nel guardar d'avermi caro. E io a lui: Li dolci detti vostri, che, quanto durer l'uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri. O frate, disse, questi ch'io ti cerno col dito, e addit un spirto innanzi, fu miglior fabbro del parlar materno. Versi d'amore e prose di romanzi soverchi tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemos credon ch'avanzi. A voce pi ch'al ver drizzan li volti, e cos ferman sua oppinone prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti. Cos fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l'ha vinto il ver con pi persone. Or se tu hai s ampio privilegio, che licito ti sia l'andare al chiostro nel quale Cristo abate del collegio, falli per me un dir d'un paternostro, quanto bisogna a noi di questo mondo, dove poter peccar non pi nostro. Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo foco, come per l'acqua il pesce andando al fondo. Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi ch'al suo nome il mio disire apparecchiava grazoso loco. El cominci liberamente a dire: Tan m'abellis vostre cortes deman, qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu'esper, denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l'escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!. Poi s'ascose nel foco che li affina. CANTO XXVII [Canto XXVII, dove tratta d'una visione che apparve a Dante in sogno, o come pervennero a la sommit del monte ed entraro nel Paradiso Terrestre chiamato paradiso delitiarum.] S come quando i primi raggi vibra l dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto l'alta Libra, e l'onde in Gange da nona rarse, s stava il sole; onde 'l giorno sen giva, come l'angel di Dio lieto ci apparse. Fuor de la fiamma stava in su la riva, e cantava 'Beati mundo corde!' in voce assai pi che la nostra viva. Poscia Pi non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso, e al cantar di l non siate sorde, ci disse come noi li fummo presso; per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi, qual colui che ne la fossa messo. In su le man commesse mi protesi, guardando il foco e imaginando forte umani corpi gi veduti accesi. Volsersi verso me le buone scorte; e Virgilio mi disse: Figliuol mio, qui pu esser tormento, ma non morte. Ricorditi, ricorditi! E se io sovresso Geron ti guidai salvo, che far ora presso pi a Dio? Credi per certo che se dentro a l'alvo di questa fiamma stessi ben mille anni, non ti potrebbe far d'un capel calvo. E se tu forse credi ch'io t'inganni, fatti ver' lei, e fatti far credenza con le tue mani al lembo d'i tuoi panni. Pon gi omai, pon gi ogne temenza; volgiti in qua e vieni: entra sicuro!. E io pur fermo e contra coscenza. Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: Or vedi, figlio: tra Batrice e te questo muro. Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che 'l gelso divent vermiglio; cos, la mia durezza fatta solla, mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla. Ond' ei croll la fronte e disse: Come! volenci star di qua?; indi sorrise come al fanciul si fa ch' vinto al pome. Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro, che pria per lunga strada ci divise. S com' fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi, tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro. Lo dolce padre mio, per confortarmi, pur di Beatrice ragionando andava, dicendo: Li occhi suoi gi veder parmi. Guidavaci una voce che cantava di l; e noi, attenti pur a lei, venimmo fuor l ove si montava. 'Venite, benedicti Patris mei', son dentro a un lume che l era, tal che mi vinse e guardar nol potei. Lo sol sen va, soggiunse, e vien la sera; non v'arrestate, ma studiate il passo, mentre che l'occidente non si annera. Dritta salia la via per entro 'l sasso verso tal parte ch'io toglieva i raggi dinanzi a me del sol ch'era gi basso. E di pochi scaglion levammo i saggi, che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense, sentimmo dietro e io e li miei saggi. E pria che 'n tutte le sue parti immense fosse orizzonte fatto d'uno aspetto, e notte avesse tutte sue dispense, ciascun di noi d'un grado fece letto; ch la natura del monte ci affranse la possa del salir pi e 'l diletto. Quali si stanno ruminando manse le capre, state rapide e proterve sovra le cime avante che sien pranse, tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, guardate dal pastor, che 'n su la verga poggiato s' e lor di posa serve; e quale il mandran che fori alberga, lungo il pecuglio suo queto pernotta, guardando perch fiera non lo sperga; tali eravamo tutti e tre allotta, io come capra, ed ei come pastori, fasciati quinci e quindi d'alta grotta. Poco parer potea l del di fori; ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e pi chiare e maggiori. S ruminando e s mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. Ne l'ora, credo, che de l'orente prima raggi nel monte Citerea, che di foco d'amor par sempre ardente, giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea: Sappia qualunque il mio nome dimanda ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda. Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno; ma mia suora Rachel mai non si smaga dal suo miraglio, e siede tutto giorno. Ell' d'i suoi belli occhi veder vaga com' io de l'addornarmi con le mani; lei lo vedere, e me l'ovrare appaga. E gi per li splendori antelucani, che tanto a' pellegrin surgon pi grati, quanto, tornando, albergan men lontani, le tenebre fuggian da tutti lati, e 'l sonno mio con esse; ond' io leva'mi, veggendo i gran maestri gi levati. Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de' mortali, oggi porr in pace le tue fami. Virgilio inverso me queste cotali parole us; e mai non furo strenne che fosser di piacere a queste iguali. Tanto voler sopra voler mi venne de l'esser s, ch'ad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne. Come la scala tutta sotto noi fu corsa e fummo in su 'l grado superno, in me ficc Virgilio li occhi suoi, e disse: Il temporal foco e l'etterno veduto hai, figlio; e se' venuto in parte dov' io per me pi oltre non discerno. Tratto t'ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce; fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte. Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce; vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli che qui la terra sol da s produce. Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli. Non aspettar mio dir pi n mio cenno; libero, dritto e sano tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch'io te sovra te corono e mitrio. CANTO XXVIII [Canto XXVIII, ove si tratta come la vita attiva distingue a l'auttore la natura del fiume di Let, il quale trov nel detto Paradiso, ove molto dimostra de la felicitade e del peccato di Adamo, e del modo e ordine del detto luogo.] Vago gi di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva, ch'a li occhi temperava il novo giorno, sanza pi aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento su per lo suol che d'ogne parte auliva. Un'aura dolce, sanza mutamento avere in s, mi feria per la fronte non di pi colpo che soave vento; per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u' la prim' ombra gitta il santo monte; non per dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d'operare ogne lor arte; ma con piena letizia l'ore prime, cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime, tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su 'l lito di Chiassi, quand' olo scilocco fuor discioglie. Gi m'avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, ch'io non potea rivedere ond' io mi 'ntrassi; ed ecco pi andar mi tolse un rio, che 'nver' sinistra con sue picciole onde piegava l'erba che 'n sua ripa usco. Tutte l'acque che son di qua pi monde, parrieno avere in s mistura alcuna verso di quella, che nulla nasconde, avvegna che si mova bruna bruna sotto l'ombra perpeta, che mai raggiar non lascia sole ivi n luna. Coi pi ristetti e con li occhi passai di l dal fiumicello, per mirare la gran varazion d'i freschi mai; e l m'apparve, s com' elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond' era pinta tutta la sua via. Deh, bella donna, che a' raggi d'amore ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti, diss' io a lei, verso questa rivera, tanto ch'io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera. Come si volge, con le piante strette a terra e intra s, donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti che vergine che li occhi onesti avvalli; e fece i prieghi miei esser contenti, s appressando s, che 'l dolce suono veniva a me co' suoi intendimenti. Tosto che fu l dove l'erbe sono bagnate gi da l'onde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio fuor di tutto suo costume. Ella ridea da l'altra riva dritta, trattando pi color con le sue mani, che l'alta terra sanza seme gitta. Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, l 've pass Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, pi odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch' allor non s'aperse. Voi siete nuovi, e forse perch' io rido, cominci ella, in questo luogo eletto a l'umana natura per suo nido, maravigliando tienvi alcun sospetto; ma luce rende il salmo Delectasti, che puote disnebbiar vostro intelletto. E tu che se' dinanzi e mi pregasti, d s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta ad ogne tua question tanto che basti. L'acqua, diss' io, e 'l suon de la foresta impugnan dentro a me novella fede di cosa ch'io udi' contraria a questa. Ond' ella: Io dicer come procede per sua cagion ci ch'ammirar ti face, e purgher la nebbia che ti fiede. Lo sommo Ben, che solo esso a s piace, f l'uom buono e a bene, e questo loco diede per arr' a lui d'etterna pace. Per sua difalta qui dimor poco; per sua difalta in pianto e in affanno cambi onesto riso e dolce gioco. Perch 'l turbar che sotto da s fanno l'essalazion de l'acqua e de la terra, che quanto posson dietro al calor vanno, a l'uomo non facesse alcuna guerra, questo monte salo verso 'l ciel tanto, e libero n' d'indi ove si serra. Or perch in circuito tutto quanto l'aere si volge con la prima volta, se non li rotto il cerchio d'alcun canto, in questa altezza ch' tutta disciolta ne l'aere vivo, tal moto percuote, e fa sonar la selva perch' folta; e la percossa pianta tanto puote, che de la sua virtute l'aura impregna e quella poi, girando, intorno scuote; e l'altra terra, secondo ch' degna per s e per suo ciel, concepe e figlia di diverse virt diverse legna. Non parrebbe di l poi maraviglia, udito questo, quando alcuna pianta sanza seme palese vi s'appiglia. E saper dei che la campagna santa dove tu se', d'ogne semenza piena, e frutto ha in s che di l non si schianta. L'acqua che vedi non surge di vena che ristori vapor che gel converta, come fiume ch'acquista e perde lena; ma esce di fontana salda e certa, che tanto dal voler di Dio riprende, quant' ella versa da due parti aperta. Da questa parte con virt discende che toglie altrui memoria del peccato; da l'altra d'ogne ben fatto la rende. Quinci Let; cos da l'altro lato Eno si chiama, e non adopra se quinci e quindi pria non gustato: a tutti altri sapori esto di sopra. E avvegna ch'assai possa esser sazia la sete tua perch' io pi non ti scuopra, darotti un corollario ancor per grazia; n credo che 'l mio dir ti sia men caro, se oltre promession teco si spazia. Quelli ch'anticamente poetaro l'et de l'oro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro. Qui fu innocente l'umana radice; qui primavera sempre e ogne frutto; nettare questo di che ciascun dice. Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto a' miei poeti, e vidi che con riso udito avan l'ultimo costrutto; poi a la bella donna torna' il viso. CANTO XXIX [Canto XXIX, dove si tratta s come l'auttore contristato si conduoleva e come vide li sette doni del Santo Spirito e Cristo e la celestiale corte in forma di certe figure.] Cantando come donna innamorata, contin col fin di sue parole: 'Beati quorum tecta sunt peccata!'. E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre, disando qual di veder, qual di fuggir lo sole, allor si mosse contra 'l fiume, andando su per la riva; e io pari di lei, picciol passo con picciol seguitando. Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei, quando le ripe igualmente dier volta, per modo ch'a levante mi rendei. N ancor fu cos nostra via molta, quando la donna tutta a me si torse, dicendo: Frate mio, guarda e ascolta. Ed ecco un lustro sbito trascorse da tutte parti per la gran foresta, tal che di balenar mi mise in forse. Ma perch 'l balenar, come vien, resta, e quel, durando, pi e pi splendeva, nel mio pensier dicea: 'Che cosa questa?'. E una melodia dolce correva per l'aere luminoso; onde buon zelo mi f riprender l'ardimento d'Eva, che l dove ubidia la terra e 'l cielo, femmina, sola e pur test formata, non sofferse di star sotto alcun velo; sotto 'l qual se divota fosse stata, avrei quelle ineffabili delizie sentite prima e pi lunga fata. Mentr' io m'andava tra tante primizie de l'etterno piacer tutto sospeso, e disoso ancora a pi letizie, dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, ci si f l'aere sotto i verdi rami; e 'l dolce suon per canti era gi inteso. O sacrosante Vergini, se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi, cagion mi sprona ch'io merc vi chiami. Or convien che Elicona per me versi, e Urane m'aiuti col suo coro forti cose a pensar mettere in versi. Poco pi oltre, sette alberi d'oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch'era ancor tra noi e loro; ma quand' i' fui s presso di lor fatto, che l'obietto comun, che 'l senso inganna, non perdea per distanza alcun suo atto, la virt ch'a ragion discorso ammanna, s com' elli eran candelabri apprese, e ne le voci del cantare 'Osanna'. Di sopra fiammeggiava il bello arnese pi chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo mezzo mese. Io mi rivolsi d'ammirazion pieno al buon Virgilio, ed esso mi rispuose con vista carca di stupor non meno. Indi rendei l'aspetto a l'alte cose che si movieno incontr' a noi s tardi, che foran vinte da novelle spose. La donna mi sgrid: Perch pur ardi s ne l'affetto de le vive luci, e ci che vien di retro a lor non guardi?. Genti vid' io allor, come a lor duci, venire appresso, vestite di bianco; e tal candor di qua gi mai non fuci. L'acqua imprenda dal sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa, s'io riguardava in lei, come specchio anco. Quand' io da la mia riva ebbi tal posta, che solo il fiume mi facea distante, per veder meglio ai passi diedi sosta, e vidi le fiammelle andar davante, lasciando dietro a s l'aere dipinto, e di tratti pennelli avean sembiante; s che l sopra rimanea distinto di sette liste, tutte in quei colori onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto. Questi ostendali in dietro eran maggiori che la mia vista; e, quanto a mio avviso, diece passi distavan quei di fori. Sotto cos bel ciel com' io diviso, ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fiordaliso. Tutti cantavan: Benedicta tue ne le figlie d'Adamo, e benedette sieno in etterno le bellezze tue!. Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette a rimpetto di me da l'altra sponda libere fuor da quelle genti elette, s come luce luce in ciel seconda, vennero appresso lor quattro animali, coronati ciascun di verde fronda. Ognuno era pennuto di sei ali; le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo, se fosser vivi, sarebber cotali. A descriver lor forme pi non spargo rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, tanto ch'a questa non posso esser largo; ma leggi Ezechel, che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne; e quali i troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch'a le penne Giovanni meco e da lui si diparte. Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due rote, trunfale, ch'al collo d'un grifon tirato venne. Esso tendeva in s l'una e l'altra ale tra la mezzana e le tre e tre liste, s ch'a nulla, fendendo, facea male. Tanto salivan che non eran viste; le membra d'oro avea quant' era uccello, e bianche l'altre, di vermiglio miste. Non che Roma di carro cos bello rallegrasse Affricano, o vero Augusto, ma quel del Sol saria pover con ello; quel del Sol che, svando, fu combusto per l'orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto. Tre donne in giro da la destra rota venian danzando; l'una tanto rossa ch'a pena fora dentro al foco nota; l'altr' era come se le carni e l'ossa fossero state di smeraldo fatte; la terza parea neve test mossa; e or paran da la bianca tratte, or da la rossa; e dal canto di questa l'altre toglien l'andare e tarde e ratte. Da la sinistra quattro facean festa, in porpore vestite, dietro al modo d'una di lor ch'avea tre occhi in testa. Appresso tutto il pertrattato nodo vidi due vecchi in abito dispari, ma pari in atto e onesto e sodo. L'un si mostrava alcun de' famigliari di quel sommo Ipocrte che natura a li animali f ch'ell' ha pi cari; mostrava l'altro la contraria cura con una spada lucida e aguta, tal che di qua dal rio mi f paura. Poi vidi quattro in umile paruta; e di retro da tutti un vecchio solo venir, dormendo, con la faccia arguta. E questi sette col primaio stuolo erano abitati, ma di gigli dintorno al capo non facan brolo, anzi di rose e d'altri fior vermigli; giurato avria poco lontano aspetto che tutti ardesser di sopra da' cigli. E quando il carro a me fu a rimpetto, un tuon s'ud, e quelle genti degne parvero aver l'andar pi interdetto, fermandosi ivi con le prime insegne. CANTO XXX [Canto XXX, dove narra come Beatrice apparve a Dante e Virgilio il lasci, e lo recitare per l'alta donna de la incostanza e difetto di Dante, e qui l'auttore piange i suoi difetti con vergogna compuntiva.] Quando il settentron del primo cielo, che n occaso mai seppe n orto n d'altra nebbia che di colpa velo, e che faceva l ciascuno accorto di suo dover, come 'l pi basso face qual temon gira per venire a porto, fermo s'affisse: la gente verace, venuta prima tra 'l grifone ed esso, al carro volse s come a sua pace; e un di loro, quasi da ciel messo, 'Veni, sponsa, de Libano' cantando grid tre volte, e tutti li altri appresso. Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna, la revestita voce alleluiando, cotali in su la divina basterna si levar cento, ad vocem tanti senis, ministri e messaggier di vita etterna. Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!', e fior gittando e di sopra e dintorno, 'Manibus, oh, date lila plenis!'. Io vidi gi nel cominciar del giorno la parte orental tutta rosata, e l'altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, s che per temperanza di vapori l'occhio la sostenea lunga fata: cos dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in gi dentro e di fori, sovra candido vel cinta d'uliva donna m'apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva. E lo spirito mio, che gi cotanto tempo era stato ch'a la sua presenza non era di stupor, tremando, affranto, sanza de li occhi aver pi conoscenza, per occulta virt che da lei mosse, d'antico amor sent la gran potenza. Tosto che ne la vista mi percosse l'alta virt che gi m'avea trafitto prima ch'io fuor di perizia fosse, volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli afflitto, per dicere a Virgilio: 'Men che dramma di sangue m' rimaso che non tremi: conosco i segni de l'antica fiamma'. Ma Virgilio n'avea lasciati scemi di s, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi; n quantunque perdeo l'antica matre, valse a le guance nette di rugiada che, lagrimando, non tornasser atre. Dante, perch Virgilio se ne vada, non pianger anco, non piangere ancora; ch pianger ti conven per altra spada. Quasi ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l'incora; in su la sponda del carro sinistra, quando mi volsi al suon del nome mio, che di necessit qui si registra, vidi la donna che pria m'appario velata sotto l'angelica festa, drizzar li occhi ver' me di qua dal rio. Tutto che 'l vel che le scendea di testa, cerchiato de le fronde di Minerva, non la lasciasse parer manifesta, regalmente ne l'atto ancor proterva contin come colui che dice e 'l pi caldo parlar dietro reserva: Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. Come degnasti d'accedere al monte? non sapei tu che qui l'uom felice?. Li occhi mi cadder gi nel chiaro fonte; ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, tanta vergogna mi grav la fronte. Cos la madre al figlio par superba, com' ella parve a me; perch d'amaro sente il sapor de la pietade acerba. Ella si tacque; e li angeli cantaro di sbito 'In te, Domine, speravi'; ma oltre 'pedes meos' non passaro. S come neve tra le vive travi per lo dosso d'Italia si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi, poi, liquefatta, in s stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri, s che par foco fonder la candela; cos fui sanza lagrime e sospiri anzi 'l cantar di quei che notan sempre dietro a le note de li etterni giri; ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre lor compatire a me, par che se detto avesser: 'Donna, perch s lo stempre?', lo gel che m'era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi usc del petto. Ella, pur ferma in su la detta coscia del carro stando, a le sustanze pie volse le sue parole cos poscia: Voi vigilate ne l'etterno die, s che notte n sonno a voi non fura passo che faccia il secol per sue vie; onde la mia risposta con pi cura che m'intenda colui che di l piagne, perch sia colpa e duol d'una misura. Non pur per ovra de le rote magne, che drizzan ciascun seme ad alcun fine secondo che le stelle son compagne, ma per larghezza di grazie divine, che s alti vapori hanno a lor piova, che nostre viste l non van vicine, questi fu tal ne la sua vita nova virtalmente, ch'ogne abito destro fatto averebbe in lui mirabil prova. Ma tanto pi maligno e pi silvestro si fa 'l terren col mal seme e non clto, quant' elli ha pi di buon vigor terrestro. Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, meco il menava in dritta parte vlto. S tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. Quando di carne a spirto era salita, e bellezza e virt cresciuta m'era, fu' io a lui men cara e men gradita; e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera. N l'impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti lo rivocai: s poco a lui ne calse! Tanto gi cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran gi corti, fuor che mostrarli le perdute genti. Per questo visitai l'uscio d'i morti, e a colui che l'ha qua s condotto, li preghi miei, piangendo, furon porti. Alto fato di Dio sarebbe rotto, se Let si passasse e tal vivanda fosse gustata sanza alcuno scotto di pentimento che lagrime spanda. CANTO XXXI [Canto XXXI, ove si tratta s come Beatrice riprende l'auttore de le commesse colpe, e come la donna che avante li apparve il bagna.] O tu che se' di l dal fiume sacro, volgendo suo parlare a me per punta, che pur per taglio m'era paruto acro, ricominci, seguendo sanza cunta, d, d se questo vero; a tanta accusa tua confession conviene esser congiunta. Era la mia virt tanto confusa, che la voce si mosse, e pria si spense che da li organi suoi fosse dischiusa. Poco sofferse; poi disse: Che pense? Rispondi a me; ch le memorie triste in te non sono ancor da l'acqua offense. Confusione e paura insieme miste mi pinsero un tal s fuor de la bocca, al quale intender fuor mestier le viste. Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa, la sua corda e l'arco, e con men foga l'asta il segno tocca, s scoppia' io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allent per lo suo varco. Ond' ella a me: Per entro i mie' disiri, che ti menavano ad amar lo bene di l dal qual non a che s'aspiri, quai fossi attraversati o quai catene trovasti, per che del passare innanzi dovessiti cos spogliar la spene? E quali agevolezze o quali avanzi ne la fronte de li altri si mostraro, per che dovessi lor passeggiare anzi?. Dopo la tratta d'un sospiro amaro, a pena ebbi la voce che rispuose, e le labbra a fatica la formaro. Piangendo dissi: Le presenti cose col falso lor piacer volser miei passi, tosto che 'l vostro viso si nascose. Ed ella: Se tacessi o se negassi ci che confessi, non fora men nota la colpa tua: da tal giudice sassi! Ma quando scoppia de la propria gota l'accusa del peccato, in nostra corte rivolge s contra 'l taglio la rota. Tuttavia, perch mo vergogna porte del tuo errore, e perch altra volta, udendo le serene, sie pi forte, pon gi il seme del piangere e ascolta: s udirai come in contraria parte mover dovieti mia carne sepolta. Mai non t'appresent natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch'io rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte; e se 'l sommo piacer s ti fallio per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disio? Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era pi tale. Non ti dovea gravar le penne in giuso, ad aspettar pi colpo, o pargoletta o altra novit con s breve uso. Novo augelletto due o tre aspetta; ma dinanzi da li occhi d'i pennuti rete si spiega indarno o si saetta. Quali fanciulli, vergognando, muti con li occhi a terra stannosi, ascoltando e s riconoscendo e ripentuti, tal mi stav' io; ed ella disse: Quando per udir se' dolente, alza la barba, e prenderai pi doglia riguardando. Con men di resistenza si dibarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba, ch'io non levai al suo comando il mento; e quando per la barba il viso chiese, ben conobbi il velen de l'argomento. E come la mia faccia si distese, posarsi quelle prime creature da loro asperson l'occhio comprese; e le mie luci, ancor poco sicure, vider Beatrice volta in su la fiera ch' sola una persona in due nature. Sotto 'l suo velo e oltre la rivera vincer pariemi pi s stessa antica, vincer che l'altre qui, quand' ella c'era. Di penter s mi punse ivi l'ortica, che di tutte altre cose qual mi torse pi nel suo amor, pi mi si f nemica. Tanta riconoscenza il cor mi morse, ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, salsi colei che la cagion mi porse. Poi, quando il cor virt di fuor rendemmi, la donna ch'io avea trovata sola sopra me vidi, e dicea: Tiemmi, tiemmi!. Tratto m'avea nel fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola. Quando fui presso a la beata riva, 'Asperges me' s dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva. La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi. Indi mi tolse, e bagnato m'offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse. Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle. Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch' dentro aguzzeranno i tuoi le tre di l, che miran pi profondo. Cos cantando cominciaro; e poi al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi. Disser: Fa che le viste non risparmi; posto t'avem dinanzi a li smeraldi ond' Amor gi ti trasse le sue armi. Mille disiri pi che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi. Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti. Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, quando vedea la cosa in s star queta, e ne l'idolo suo si trasmutava. Mentre che piena di stupore e lieta l'anima mia gustava di quel cibo che, saziando di s, di s asseta, s dimostrando di pi alto tribo ne li atti, l'altre tre si fero avanti, danzando al loro angelico caribo. Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi, era la sua canzone, al tuo fedele che, per vederti, ha mossi passi tanti! Per grazia fa noi grazia che disvele a lui la bocca tua, s che discerna la seconda bellezza che tu cele. O isplendor di viva luce etterna, chi palido si fece sotto l'ombra s di Parnaso, o bevve in sua cisterna, che non paresse aver la mente ingombra, tentando a render te qual tu paresti l dove armonizzando il ciel t'adombra, quando ne l'aere aperto ti solvesti? CANTO XXXII [Canto XXXII, dove si tratta come Beatrice comand a l'auttore che scrivesse li miracoli che vide in quel luogo, e come elli con le donne seguio il carro, e l'aguglia percosse il carro, e una volpe sen fuggio, e de la puttana e del gigante.] Tant' eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete, che li altri sensi m'eran tutti spenti. Ed essi quinci e quindi avien parete di non caler - cos lo santo riso a s trali con l'antica rete! -; quando per forza mi fu vlto il viso ver' la sinistra mia da quelle dee, perch' io udi' da loro un Troppo fiso!; e la disposizion ch'a veder e ne li occhi pur test dal sol percossi, sanza la vista alquanto esser mi fe. Ma poi ch'al poco il viso riformossi (e dico 'al poco' per rispetto al molto sensibile onde a forza mi rimossi), vidi 'n sul braccio destro esser rivolto lo gloroso essercito, e tornarsi col sole e con le sette fiamme al volto. Come sotto li scudi per salvarsi volgesi schiera, e s gira col segno, prima che possa tutta in s mutarsi; quella milizia del celeste regno che procedeva, tutta trapassonne pria che piegasse il carro il primo legno. Indi a le rote si tornar le donne, e 'l grifon mosse il benedetto carco s, che per nulla penna crollonne. La bella donna che mi trasse al varco e Stazio e io seguitavam la rota che f l'orbita sua con minore arco. S passeggiando l'alta selva vta, colpa di quella ch'al serpente crese, temprava i passi un'angelica nota. Forse in tre voli tanto spazio prese disfrenata saetta, quanto eramo rimossi, quando Batrice scese. Io senti' mormorare a tutti Adamo; poi cerchiaro una pianta dispogliata di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo. La coma sua, che tanto si dilata pi quanto pi s, fora da l'Indi ne' boschi lor per altezza ammirata. Beato se', grifon, che non discindi col becco d'esto legno dolce al gusto, poscia che mal si torce il ventre quindi. Cos dintorno a l'albero robusto gridaron li altri; e l'animal binato: S si conserva il seme d'ogne giusto. E vlto al temo ch'elli avea tirato, trasselo al pi de la vedova frasca, e quel di lei a lei lasci legato. Come le nostre piante, quando casca gi la gran luce mischiata con quella che raggia dietro a la celeste lasca, turgide fansi, e poi si rinovella di suo color ciascuna, pria che 'l sole giunga li suoi corsier sotto altra stella; men che di rose e pi che di vole colore aprendo, s'innov la pianta, che prima avea le ramora s sole. Io non lo 'ntesi, n qui non si canta l'inno che quella gente allor cantaro, n la nota soffersi tutta quanta. S'io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati udendo di Siringa, li occhi a cui pur vegghiar cost s caro; come pintor che con essempro pinga, disegnerei com' io m'addormentai; ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga. Per trascorro a quando mi svegliai, e dico ch'un splendor mi squarci 'l velo del sonno, e un chiamar: Surgi: che fai?. Quali a veder de' fioretti del melo che del suo pome li angeli fa ghiotti e perpete nozze fa nel cielo, Pietro e Giovanni e Iacopo condotti e vinti, ritornaro a la parola da la qual furon maggior sonni rotti, e videro scemata loro scuola cos di Mos come d'Elia, e al maestro suo cangiata stola; tal torna' io, e vidi quella pia sovra me starsi che conducitrice fu de' miei passi lungo 'l fiume pria. E tutto in dubbio dissi: Ov' Beatrice?. Ond' ella: Vedi lei sotto la fronda nova sedere in su la sua radice. Vedi la compagnia che la circonda: li altri dopo 'l grifon sen vanno suso con pi dolce canzone e pi profonda. E se pi fu lo suo parlar diffuso, non so, per che gi ne li occhi m'era quella ch'ad altro intender m'avea chiuso. Sola sedeasi in su la terra vera, come guardia lasciata l del plaustro che legar vidi a la biforme fera. In cerchio le facevan di s claustro le sette ninfe, con quei lumi in mano che son sicuri d'Aquilone e d'Austro. Qui sarai tu poco tempo silvano; e sarai meco sanza fine cive di quella Roma onde Cristo romano. Per, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di l, fa che tu scrive. Cos Beatrice; e io, che tutto ai piedi d'i suoi comandamenti era divoto, la mente e li occhi ov' ella volle diedi. Non scese mai con s veloce moto foco di spessa nube, quando piove da quel confine che pi va remoto, com' io vidi calar l'uccel di Giove per l'alber gi, rompendo de la scorza, non che d'i fiori e de le foglie nove; e fer 'l carro di tutta sua forza; ond' el pieg come nave in fortuna, vinta da l'onda, or da poggia, or da orza. Poscia vidi avventarsi ne la cuna del trunfal veiculo una volpe che d'ogne pasto buon parea digiuna; ma, riprendendo lei di laide colpe, la donna mia la volse in tanta futa quanto sofferser l'ossa sanza polpe. Poscia per indi ond' era pria venuta, l'aguglia vidi scender gi ne l'arca del carro e lasciar lei di s pennuta; e qual esce di cuor che si rammarca, tal voce usc del cielo e cotal disse: O navicella mia, com' mal se' carca!. Poi parve a me che la terra s'aprisse tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago che per lo carro s la coda fisse; e come vespa che ritragge l'ago, a s traendo la coda maligna, trasse del fondo, e gissen vago vago. Quel che rimase, come da gramigna vivace terra, da la piuma, offerta forse con intenzion sana e benigna, si ricoperse, e funne ricoperta e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto che pi tiene un sospir la bocca aperta. Trasformato cos 'l dificio santo mise fuor teste per le parti sue, tre sovra 'l temo e una in ciascun canto. Le prime eran cornute come bue, ma le quattro un sol corno avean per fronte: simile mostro visto ancor non fue. Sicura, quasi rocca in alto monte, seder sovresso una puttana sciolta m'apparve con le ciglia intorno pronte; e come perch non li fosse tolta, vidi di costa a lei dritto un gigante; e basciavansi insieme alcuna volta. Ma perch l'occhio cupido e vagante a me rivolse, quel feroce drudo la flagell dal capo infin le piante; poi, di sospetto pieno e d'ira crudo, disciolse il mostro, e trassel per la selva, tanto che sol di lei mi fece scudo a la puttana e a la nova belva. CANTO XXXIII [Canto XXXIII, il quale si l'ultimo de la seconda cantica, ove si racconta s come Beatrice dichiaroe a Dante quelle cose ch'elli vide, trattando e dimostrando le future vendette e de la ingiuria nel predetto carro del grifone; e infine, veduti li quattro fiumi del Paradiso, escono verso il cielo.] 'Deus, venerunt gentes', alternando or tre or quattro dolce salmodia, le donne incominciaro, e lagrimando; e Batrice, sospirosa e pia, quelle ascoltava s fatta, che poco pi a la croce si cambi Maria. Ma poi che l'altre vergini dier loco a lei di dir, levata dritta in p, rispuose, colorata come foco: 'Modicum, et non videbitis me; et iterum, sorelle mie dilette, modicum, et vos videbitis me'. Poi le si mise innanzi tutte e sette, e dopo s, solo accennando, mosse me e la donna e 'l savio che ristette. Cos sen giva; e non credo che fosse lo decimo suo passo in terra posto, quando con li occhi li occhi mi percosse; e con tranquillo aspetto Vien pi tosto, mi disse, tanto che, s'io parlo teco, ad ascoltarmi tu sie ben disposto. S com' io fui, com' io dova, seco, dissemi: Frate, perch non t'attenti a domandarmi omai venendo meco?. Come a color che troppo reverenti dinanzi a suo maggior parlando sono, che non traggon la voce viva ai denti, avvenne a me, che sanza intero suono incominciai: Madonna, mia bisogna voi conoscete, e ci ch'ad essa buono. Ed ella a me: Da tema e da vergogna voglio che tu omai ti disviluppe, s che non parli pi com' om che sogna. Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe, fu e non ; ma chi n'ha colpa, creda che vendetta di Dio non teme suppe. Non sar tutto tempo sanza reda l'aguglia che lasci le penne al carro, per che divenne mostro e poscia preda; ch'io veggio certamente, e per il narro, a darne tempo gi stelle propinque, secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro, nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, ancider la fuia con quel gigante che con lei delinque. E forse che la mia narrazion buia, qual Temi e Sfinge, men ti persuade, perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia; ma tosto fier li fatti le Naiade, che solveranno questo enigma forte sanza danno di pecore o di biade. Tu nota; e s come da me son porte, cos queste parole segna a' vivi del viver ch' un correre a la morte. E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch' or due volte dirubata quivi. Qualunque ruba quella o quella schianta, con bestemmia di fatto offende a Dio, che solo a l'uso suo la cre santa. Per morder quella, in pena e in disio cinquemilia anni e pi l'anima prima bram colui che 'l morso in s punio. Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima per singular cagione essere eccelsa lei tanto e s travolta ne la cima. E se stati non fossero acqua d'Elsa li pensier vani intorno a la tua mente, e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa, per tante circostanze solamente la giustizia di Dio, ne l'interdetto, conosceresti a l'arbor moralmente. Ma perch' io veggio te ne lo 'ntelletto fatto di pietra e, impetrato, tinto, s che t'abbaglia il lume del mio detto, voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, che 'l te ne porti dentro a te per quello che si reca il bordon di palma cinto. E io: S come cera da suggello, che la figura impressa non trasmuta, segnato or da voi lo mio cervello. Ma perch tanto sovra mia veduta vostra parola disata vola, che pi la perde quanto pi s'aiuta?. Perch conoschi, disse, quella scuola c'hai seguitata, e veggi sua dottrina come pu seguitar la mia parola; e veggi vostra via da la divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il ciel che pi alto festina. Ond' io rispuosi lei: Non mi ricorda ch'i' stranasse me gi mai da voi, n honne coscenza che rimorda. E se tu ricordar non te ne puoi, sorridendo rispuose, or ti rammenta come bevesti di Let ancoi; e se dal fummo foco s'argomenta, cotesta oblivon chiaro conchiude colpa ne la tua voglia altrove attenta. Veramente oramai saranno nude le mie parole, quanto converrassi quelle scovrire a la tua vista rude. E pi corusco e con pi lenti passi teneva il sole il cerchio di merigge, che qua e l, come li aspetti, fassi, quando s'affisser, s come s'affigge chi va dinanzi a gente per iscorta se trova novitate o sue vestigge, le sette donne al fin d'un'ombra smorta, qual sotto foglie verdi e rami nigri sovra suoi freddi rivi l'alpe porta. Dinanzi ad esse ufrats e Tigri veder mi parve uscir d'una fontana, e, quasi amici, dipartirsi pigri. O luce, o gloria de la gente umana, che acqua questa che qui si dispiega da un principio e s da s lontana?. Per cotal priego detto mi fu: Priega Matelda che 'l ti dica. E qui rispuose, come fa chi da colpa si dislega, la bella donna: Questo e altre cose dette li son per me; e son sicura che l'acqua di Let non gliel nascose. E Batrice: Forse maggior cura, che spesse volte la memoria priva, fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura. Ma vedi Eno che l diriva: menalo ad esso, e come tu se' usa, la tramortita sua virt ravviva. Come anima gentil, che non fa scusa, ma fa sua voglia de la voglia altrui tosto che per segno fuor dischiusa; cos, poi che da essa preso fui, la bella donna mossesi, e a Stazio donnescamente disse: Vien con lui. S'io avessi, lettor, pi lungo spazio da scrivere, i' pur cantere' in parte lo dolce ber che mai non m'avria sazio; ma perch piene son tutte le carte ordite a questa cantica seconda, non mi lascia pi ir lo fren de l'arte. Io ritornai da la santissima onda rifatto s come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire a le stelle. [Explicit secunda pars Comedie Dantis Alagherii in qua tractatum est de Purgatorio] LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri PARADISO CANTO I [Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alaghiere di Fiorenza, ne la quale si tratta de' beati e de la celestiale gloria e de' meriti e premi de' santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui principio l'auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del fuoco e Beatrice solve a l'auttore una questione; nel quale canto l'auttore promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica, cio Appollo chiamato il deo de la Sapienza.] La gloria di colui che tutto move per l'universo penetra, e risplende in una parte pi e meno altrove. Nel ciel che pi de la sua luce prende fu' io, e vidi cose che ridire n sa n pu chi di l s discende; perch appressando s al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non pu ire. Veramente quant' io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sar ora materia del mio canto. O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor s fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m' uopo intrar ne l'aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue s come quando Marsa traesti de la vagina de le membra sue. O divina virt, se mi ti presti tanto che l'ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedra'mi al pi del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. S rade volte, padre, se ne coglie per trunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l'umane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica det dovria la fronda peneia, quando alcun di s asseta. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregher perch Cirra risponda. Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera pi a suo modo tempera e suggella. Fatto avea di l mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era l bianco quello emisperio, e l'altra parte nera, quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aguglia s non li s'affisse unquanco. E s come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, cos de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso. Molto licito l, che qui non lece a le nostre virt, merc del loco fatto per proprio de l'umana spece. Io nol soffersi molto, n s poco, ch'io nol vedessi sfavillar dintorno, com' ferro che bogliente esce del foco; e di sbito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d'un altro sole addorno. Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di l s rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si f Glauco nel gustar de l'erba che 'l f consorto in mar de li altri di. Trasumanar significar per verba non si poria; per l'essemplo basti a cui esperenza grazia serba. S'i' era sol di me quel che creasti novellamente, amor che 'l ciel governi, tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a s mi fece atteso con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. La novit del suono e 'l grande lume di lor cagion m'accesero un disio mai non sentito di cotanto acume. Ond' ella, che vedea me s com' io, a quetarmi l'animo commosso, pria ch'io a dimandar, la bocca aprio e cominci: Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar, s che non vedi ci che vedresti se l'avessi scosso. Tu non se' in terra, s come tu credi; ma folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch'ad esso riedi. S'io fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo pi fu' inretito e dissi: Gi contento requevi di grande ammirazion; ma ora ammiro com' io trascenda questi corpi levi. Ond' ella, appresso d'un po sospiro, li occhi drizz ver' me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, e cominci: Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo forma che l'universo a Dio fa simigliante. Qui veggion l'alte creature l'orma de l'etterno valore, il qual fine al quale fatta la toccata norma. Ne l'ordine ch'io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, pi al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l'essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inver' la luna; questi ne' cor mortali permotore; questi la terra in s stringe e aduna; n pur le creature che son fore d'intelligenza quest' arco saetta, ma quelle c'hanno intelletto e amore. La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa 'l ciel sempre queto nel qual si volge quel c'ha maggior fretta; e ora l, come a sito decreto, cen porta la virt di quella corda che ci che scocca drizza in segno lieto. Vero che, come forma non s'accorda molte fate a l'intenzion de l'arte, perch' a risponder la materia sorda, cos da questo corso si diparte talor la creatura, c'ha podere di piegar, cos pinta, in altra parte; e s come veder si pu cadere foco di nube, s l'impeto primo l'atterra torto da falso piacere. Non dei pi ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d'un rivo se d'alto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te se, privo d'impedimento, gi ti fossi assiso, com' a terra quete in foco vivo. Quinci rivolse inver' lo cielo il viso. CANTO II [Canto secondo, ove tratta come Beatrice e l'auttore pervegnono al cielo de la Luna, aprendo la veritade de l'ombra ch'appare in essa; e qui comincia questa terza parte de la Commedia quanto al proprio dire.] O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d'ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, ch forse, perdendo me, rimarreste smarriti. L'acqua ch'io prendo gi mai non si corse; Minerva spira, e conducemi Appollo, e nove Muse mi dimostran l'Orse. Voialtri pochi che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli, del quale vivesi qui ma non sen vien satollo, metter potete ben per l'alto sale vostro navigio, servando mio solco dinanzi a l'acqua che ritorna equale. Que' glorosi che passaro al Colco non s'ammiraron come voi farete, quando Iasn vider fatto bifolco. La concreata e perpeta sete del deforme regno cen portava veloci quasi come 'l ciel vedete. Beatrice in suso, e io in lei guardava; e forse in tanto in quanto un quadrel posa e vola e da la noce si dischiava, giunto mi vidi ove mirabil cosa mi torse il viso a s; e per quella cui non potea mia cura essere ascosa, volta ver' me, s lieta come bella, Drizza la mente in Dio grata, mi disse, che n'ha congiunti con la prima stella. Parev' a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro s l'etterna margarita ne ricevette, com' acqua recepe raggio di luce permanendo unita. S'io era corpo, e qui non si concepe com' una dimensione altra patio, ch'esser convien se corpo in corpo repe, accender ne dovria pi il disio di veder quella essenza in che si vede come nostra natura e Dio s'unio. L si vedr ci che tenem per fede, non dimostrato, ma fia per s noto a guisa del ver primo che l'uom crede. Io rispuosi: Madonna, s devoto com' esser posso pi, ringrazio lui lo qual dal mortal mondo m'ha remoto. Ma ditemi: che son li segni bui di questo corpo, che l giuso in terra fan di Cain favoleggiare altrui?. Ella sorrise alquanto, e poi S'elli erra l'oppinon, mi disse, d'i mortali dove chiave di senso non diserra, certo non ti dovrien punger li strali d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte l'ali. Ma dimmi quel che tu da te ne pensi. E io: Ci che n'appar qua s diverso credo che fanno i corpi rari e densi. Ed ella: Certo assai vedrai sommerso nel falso il creder tuo, se bene ascolti l'argomentar ch'io li far avverso. La spera ottava vi dimostra molti lumi, li quali e nel quale e nel quanto notar si posson di diversi volti. Se raro e denso ci facesser tanto, una sola virt sarebbe in tutti, pi e men distributa e altrettanto. Virt diverse esser convegnon frutti di princpi formali, e quei, for ch'uno, seguiterieno a tua ragion distrutti. Ancor, se raro fosse di quel bruno cagion che tu dimandi, o d'oltre in parte fora di sua materia s digiuno esto pianeto, o, s come comparte lo grasso e 'l magro un corpo, cos questo nel suo volume cangerebbe carte. Se 'l primo fosse, fora manifesto ne l'eclissi del sol, per trasparere lo lume come in altro raro ingesto. Questo non : per da vedere de l'altro; e s'elli avvien ch'io l'altro cassi, falsificato fia lo tuo parere. S'elli che questo raro non trapassi, esser conviene un termine da onde lo suo contrario pi passar non lassi; e indi l'altrui raggio si rifonde cos come color torna per vetro lo qual di retro a s piombo nasconde. Or dirai tu ch'el si dimostra tetro ivi lo raggio pi che in altre parti, per esser l refratto pi a retro. Da questa instanza pu deliberarti esperenza, se gi mai la provi, ch'esser suol fonte ai rivi di vostr' arti. Tre specchi prenderai; e i due rimovi da te d'un modo, e l'altro, pi rimosso, tr'ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume che i tre specchi accenda e torni a te da tutti ripercosso. Ben che nel quanto tanto non si stenda la vista pi lontana, l vedrai come convien ch'igualmente risplenda. Or, come ai colpi de li caldi rai de la neve riman nudo il suggetto e dal colore e dal freddo primai, cos rimaso te ne l'intelletto voglio informar di luce s vivace, che ti tremoler nel suo aspetto. Dentro dal ciel de la divina pace si gira un corpo ne la cui virtute l'esser di tutto suo contento giace. Lo ciel seguente, c'ha tante vedute, quell' esser parte per diverse essenze, da lui distratte e da lui contenute. Li altri giron per varie differenze le distinzion che dentro da s hanno dispongono a lor fini e lor semenze. Questi organi del mondo cos vanno, come tu vedi omai, di grado in grado, che di s prendono e di sotto fanno. Riguarda bene omai s com' io vado per questo loco al vero che disiri, s che poi sappi sol tener lo guado. Lo moto e la virt d'i santi giri, come dal fabbro l'arte del martello, da' beati motor convien che spiri; e 'l ciel cui tanti lumi fanno bello, de la mente profonda che lui volve prende l'image e fassene suggello. E come l'alma dentro a vostra polve per differenti membra e conformate a diverse potenze si risolve, cos l'intelligenza sua bontate multiplicata per le stelle spiega, girando s sovra sua unitate. Virt diversa fa diversa lega col prezoso corpo ch'ella avviva, nel qual, s come vita in voi, si lega. Per la natura lieta onde deriva, la virt mista per lo corpo luce come letizia per pupilla viva. Da essa vien ci che da luce a luce par differente, non da denso e raro; essa formal principio che produce, conforme a sua bont, lo turbo e 'l chiaro. CANTO III [Canto terzo, nel quale si tratta di quello medesimo cielo de la Luna e di certi spiriti che appariro in esso; e solve qui una questione: cio se li spiriti che sono in cielo di sotto vorrebbero esser pi s ch'elli siano.] Quel sol che pria d'amor mi scald 'l petto, di bella verit m'avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne leva' il capo a proferer pi erto; ma visone apparve che ritenne a s me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne. Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non s profonde che i fondi sien persi, tornan d'i nostri visi le postille debili s, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille; tali vid' io pi facce a parlar pronte; per ch'io dentro a l'error contrario corsi a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte. Sbito s com' io di lor m'accorsi, quelle stimando specchiati sembianti, per veder di cui fosser, li occhi torsi; e nulla vidi, e ritorsili avanti dritti nel lume de la dolce guida, che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. Non ti maravigliar perch' io sorrida, mi disse, appresso il tuo peril coto, poi sopra 'l vero ancor lo pi non fida, ma te rivolve, come suole, a vto: vere sustanze son ci che tu vedi, qui rilegate per manco di voto. Per parla con esse e odi e credi; ch la verace luce che le appaga da s non lascia lor torcer li piedi. E io a l'ombra che parea pi vaga di ragionar, drizza'mi, e cominciai, quasi com' uom cui troppa voglia smaga: O ben creato spirito, che a' rai di vita etterna la dolcezza senti che, non gustata, non s'intende mai, grazoso mi fia se mi contenti del nome tuo e de la vostra sorte. Ond' ella, pronta e con occhi ridenti: La nostra carit non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a s tutta sua corte. I' fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben s riguarda, non mi ti celer l'esser pi bella, ma riconoscerai ch'i' son Piccarda, che, posta qui con questi altri beati, beata sono in la spera pi tarda. Li nostri affetti, che solo infiammati son nel piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. E questa sorte che par gi cotanto, per n' data, perch fuor negletti li nostri voti, e vti in alcun canto. Ond' io a lei: Ne' mirabili aspetti vostri risplende non so che divino che vi trasmuta da' primi concetti: per non fui a rimembrar festino; ma or m'aiuta ci che tu mi dici, s che raffigurar m' pi latino. Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi pi alto loco per pi vedere e per pi farvi amici?. Con quelle altr' ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta, ch'arder parea d'amor nel primo foco: Frate, la nostra volont queta virt di carit, che fa volerne sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta. Se disassimo esser pi superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; che vedrai non capere in questi giri, s'essere in carit qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. Anzi formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia, per ch'una fansi nostre voglie stesse; s che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piace com' a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia. E 'n la sua volontade nostra pace: ell' quel mare al qual tutto si move ci ch'ella cra o che natura face. Chiaro mi fu allor come ogne dove in cielo paradiso, etsi la grazia del sommo ben d'un modo non vi piove. Ma s com' elli avvien, s'un cibo sazia e d'un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, cos fec' io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. Perfetta vita e alto merto inciela donna pi s, mi disse, a la cui norma nel vostro mondo gi si veste e vela, perch fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch'ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma. Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. Uomini poi, a mal pi ch'a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. E quest' altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s'accende di tutto il lume de la spera nostra, ci ch'io dico di me, di s intende; sorella fu, e cos le fu tolta di capo l'ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor gi mai disciolta. Quest' la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave gener 'l terzo e l'ultima possanza. Cos parlommi, e poi cominci 'Ave, Maria' cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgor nel mo sguardo s che da prima il viso non sofferse; e ci mi fece a dimandar pi tardo. CANTO IV [Canto IV, dove in quello medesimo cielo due veritadi si manifestano da Beatrice: l'una del luogo de' beati, e l'altra si de la voluntate mista e de la obsuluta; e propone terza questione del voto e se si puote satisfare al voto rotto e non osservato.] Intra due cibi, distanti e moventi d'un modo, prima si morria di fame, che liber' omo l'un recasse ai denti; s si starebbe un agno intra due brame di fieri lupi, igualmente temendo; s si starebbe un cane intra due dame: per che, s'i' mi tacea, me non riprendo, da li miei dubbi d'un modo sospinto, poi ch'era necessario, n commendo. Io mi tacea, ma 'l mio disir dipinto m'era nel viso, e 'l dimandar con ello, pi caldo assai che per parlar distinto. F s Beatrice qual f Danello, Nabuccodonosor levando d'ira, che l'avea fatto ingiustamente fello; e disse: Io veggio ben come ti tira uno e altro disio, s che tua cura s stessa lega s che fuor non spira. Tu argomenti: "Se 'l buon voler dura, la volenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?". Ancor di dubitar ti d cagione parer tornarsi l'anime a le stelle, secondo la sentenza di Platone. Queste son le question che nel tuo velle pontano igualmente; e per pria tratter quella che pi ha di felle. D'i Serafin colui che pi s'india, Mos, Samuel, e quel Giovanni che prender vuoli, io dico, non Maria, non hanno in altro cielo i loro scanni che questi spirti che mo t'appariro, n hanno a l'esser lor pi o meno anni; ma tutti fanno bello il primo giro, e differentemente han dolce vita per sentir pi e men l'etterno spiro. Qui si mostraro, non perch sortita sia questa spera lor, ma per far segno de la celestal c'ha men salita. Cos parlar conviensi al vostro ingegno, per che solo da sensato apprende ci che fa poscia d'intelletto degno. Per questo la Scrittura condescende a vostra facultate, e piedi e mano attribuisce a Dio e altro intende; e Santa Chiesa con aspetto umano Gabrel e Michel vi rappresenta, e l'altro che Tobia rifece sano. Quel che Timeo de l'anime argomenta non simile a ci che qui si vede, per che, come dice, par che senta. Dice che l'alma a la sua stella riede, credendo quella quindi esser decisa quando natura per forma la diede; e forse sua sentenza d'altra guisa che la voce non suona, ed esser puote con intenzion da non esser derisa. S'elli intende tornare a queste ruote l'onor de la influenza e 'l biasmo, forse in alcun vero suo arco percuote. Questo principio, male inteso, torse gi tutto il mondo quasi, s che Giove, Mercurio e Marte a nominar trascorse. L'altra dubitazion che ti commove ha men velen, per che sua malizia non ti poria menar da me altrove. Parere ingiusta la nostra giustizia ne li occhi d'i mortali, argomento di fede e non d'eretica nequizia. Ma perch puote vostro accorgimento ben penetrare a questa veritate, come disiri, ti far contento. Se volenza quando quel che pate nente conferisce a quel che sforza, non fuor quest' alme per essa scusate: ch volont, se non vuol, non s'ammorza, ma fa come natura face in foco, se mille volte volenza il torza. Per che, s'ella si piega assai o poco, segue la forza; e cos queste fero possendo rifuggir nel santo loco. Se fosse stato lor volere intero, come tenne Lorenzo in su la grada, e fece Muzio a la sua man severo, cos l'avria ripinte per la strada ond' eran tratte, come fuoro sciolte; ma cos salda voglia troppo rada. E per queste parole, se ricolte l'hai come dei, l'argomento casso che t'avria fatto noia ancor pi volte. Ma or ti s'attraversa un altro passo dinanzi a li occhi, tal che per te stesso non usciresti: pria saresti lasso. Io t'ho per certo ne la mente messo ch'alma beata non poria mentire, per ch' sempre al primo vero appresso; e poi potesti da Piccarda udire che l'affezion del vel Costanza tenne; s ch'ella par qui meco contradire. Molte fate gi, frate, addivenne che, per fuggir periglio, contra grato si f di quel che far non si convenne; come Almeone, che, di ci pregato dal padre suo, la propria madre spense, per non perder piet si f spietato. A questo punto voglio che tu pense che la forza al voler si mischia, e fanno s che scusar non si posson l'offense. Voglia assoluta non consente al danno; ma consentevi in tanto in quanto teme, se si ritrae, cadere in pi affanno. Per, quando Piccarda quello spreme, de la voglia assoluta intende, e io de l'altra; s che ver diciamo insieme. Cotal fu l'ondeggiar del santo rio ch'usc del fonte ond' ogne ver deriva; tal puose in pace uno e altro disio. O amanza del primo amante, o diva, diss' io appresso, il cui parlar m'inonda e scalda s, che pi e pi m'avviva, non l'affezion mia tanto profonda, che basti a render voi grazia per grazia; ma quei che vede e puote a ci risponda. Io veggio ben che gi mai non si sazia nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso, come fera in lustra, tosto che giunto l'ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a pi del vero il dubbio; ed natura ch'al sommo pinge noi di collo in collo. Questo m'invita, questo m'assicura con reverenza, donna, a dimandarvi d'un'altra verit che m' oscura. Io vo' saper se l'uom pu sodisfarvi ai voti manchi s con altri beni, ch'a la vostra statera non sien parvi. Beatrice mi guard con li occhi pieni di faville d'amor cos divini, che, vinta, mia virtute di le reni, e quasi mi perdei con li occhi chini. CANTO V [Canto V, nel quale solve una questione premessa nel precedente canto e ammaestra li cristiani intorno a li voti ch'elli fanno a Dio; ed entrasi nel cielo di Mercurio, e qui comincia la seconda parte di questa cantica.] S'io ti fiammeggio nel caldo d'amore di l dal modo che 'n terra si vede, s che del viso tuo vinco il valore, non ti maravigliar, ch ci procede da perfetto veder, che, come apprende, cos nel bene appreso move il piede. Io veggio ben s come gi resplende ne l'intelletto tuo l'etterna luce, che, vista, sola e sempre amore accende; e s'altra cosa vostro amor seduce, non se non di quella alcun vestigio, mal conosciuto, che quivi traluce. Tu vuo' saper se con altro servigio, per manco voto, si pu render tanto che l'anima sicuri di letigio. S cominci Beatrice questo canto; e s com' uom che suo parlar non spezza, contin cos 'l processo santo: Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontate pi conformato, e quel ch'e' pi apprezza, fu de la volont la libertate; di che le creature intelligenti, e tutte e sole, fuoro e son dotate. Or ti parr, se tu quinci argomenti, l'alto valor del voto, s' s fatto che Dio consenta quando tu consenti; ch, nel fermar tra Dio e l'omo il patto, vittima fassi di questo tesoro, tal quale io dico; e fassi col suo atto. Dunque che render puossi per ristoro? Se credi bene usar quel c'hai offerto, di maltolletto vuo' far buon lavoro. Tu se' omai del maggior punto certo; ma perch Santa Chiesa in ci dispensa, che par contra lo ver ch'i' t'ho scoverto, convienti ancor sedere un poco a mensa, per che 'l cibo rigido c'hai preso, richiede ancora aiuto a tua dispensa. Apri la mente a quel ch'io ti paleso e fermalvi entro; ch non fa scenza, sanza lo ritenere, avere inteso. Due cose si convegnono a l'essenza di questo sacrificio: l'una quella di che si fa; l'altr' la convenenza. Quest' ultima gi mai non si cancella se non servata; e intorno di lei s preciso di sopra si favella: per necessitato fu a li Ebrei pur l'offerere, ancor ch'alcuna offerta s permutasse, come saver dei. L'altra, che per materia t' aperta, puote ben esser tal, che non si falla se con altra materia si converta. Ma non trasmuti carco a la sua spalla per suo arbitrio alcun, sanza la volta e de la chiave bianca e de la gialla; e ogne permutanza credi stolta, se la cosa dimessa in la sorpresa come 'l quattro nel sei non raccolta. Per qualunque cosa tanto pesa per suo valor che tragga ogne bilancia, sodisfar non si pu con altra spesa. Non prendan li mortali il voto a ciancia; siate fedeli, e a ci far non bieci, come Iept a la sua prima mancia; cui pi si convenia dicer 'Mal feci', che, servando, far peggio; e cos stolto ritrovar puoi il gran duca de' Greci, onde pianse Efignia il suo bel volto, e f pianger di s i folli e i savi ch'udir parlar di cos fatto clto. Siate, Cristiani, a muovervi pi gravi: non siate come penna ad ogne vento, e non crediate ch'ogne acqua vi lavi. Avete il novo e 'l vecchio Testamento, e 'l pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte, s che 'l Giudeo di voi tra voi non rida! Non fate com' agnel che lascia il latte de la sua madre, e semplice e lascivo seco medesmo a suo piacer combatte!. Cos Beatrice a me com' o scrivo; poi si rivolse tutta disante a quella parte ove 'l mondo pi vivo. Lo suo tacere e 'l trasmutar sembiante puoser silenzio al mio cupido ingegno, che gi nuove questioni avea davante; e s come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, cos corremmo nel secondo regno. Quivi la donna mia vid' io s lieta, come nel lume di quel ciel si mise, che pi lucente se ne f 'l pianeta. E se la stella si cambi e rise, qual mi fec' io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise! Come 'n peschiera ch' tranquilla e pura traggonsi i pesci a ci che vien di fori per modo che lo stimin lor pastura, s vid' io ben pi di mille splendori trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia: Ecco chi crescer li nostri amori. E s come ciascuno a noi vena, vedeasi l'ombra piena di letizia nel folgr chiaro che di lei uscia. Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia non procedesse, come tu avresti di pi savere angosciosa carizia; e per te vederai come da questi m'era in disio d'udir lor condizioni, s come a li occhi mi fur manifesti. O bene nato a cui veder li troni del trunfo etternal concede grazia prima che la milizia s'abbandoni, del lume che per tutto il ciel si spazia noi semo accesi; e per, se disii di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia. Cos da un di quelli spirti pii detto mi fu; e da Beatrice: D, d sicuramente, e credi come a dii. Io veggio ben s come tu t'annidi nel proprio lume, e che de li occhi il traggi, perch' e' corusca s come tu ridi; ma non so chi tu se', n perch aggi, anima degna, il grado de la spera che si vela a' mortai con altrui raggi. Questo diss' io diritto a la lumera che pria m'avea parlato; ond' ella fessi lucente pi assai di quel ch'ell' era. S come il sol che si cela elli stessi per troppa luce, come 'l caldo ha rse le temperanze d'i vapori spessi, per pi letizia s mi si nascose dentro al suo raggio la figura santa; e cos chiusa chiusa mi rispuose nel modo che 'l seguente canto canta. CANTO VI [Canto VI, dove, nel cielo di Mercurio, Iustiniano imperadore sotto brevit narra tutti li grandi fatti operati per li Romani sotto la 'nsegna de l'aquila, da l'avvenimento di Enea in Italia infino al tempo di Longobardi; e alcune cose si dicono qui in laude di Romeo visconte del conte Ramondo Berlinghieri di Proenza.] Poscia che Costantin l'aquila volse contr' al corso del ciel, ch'ella seguio dietro a l'antico che Lavina tolse, cento e cent' anni e pi l'uccel di Dio ne lo stremo d'Europa si ritenne, vicino a' monti de' quai prima usco; e sotto l'ombra de le sacre penne govern 'l mondo l di mano in mano, e, s cangiando, in su la mia pervenne. Cesare fui e son Iustinano, che, per voler del primo amor ch'i' sento, d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano. E prima ch'io a l'ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non pie, credea, e di tal fede era contento; ma 'l benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera mi dirizz con le parole sue. Io li credetti; e ci che 'n sua fede era, vegg' io or chiaro s, come tu vedi ogni contradizione e falsa e vera. Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi; e al mio Belisar commendai l'armi, cui la destra del ciel fu s congiunta, che segno fu ch'i' dovessi posarmi. Or qui a la question prima s'appunta la mia risposta; ma sua condizione mi stringe a seguitare alcuna giunta, perch tu veggi con quanta ragione si move contr' al sacrosanto segno e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone. Vedi quanta virt l'ha fatto degno di reverenza; e cominci da l'ora che Pallante mor per darli regno. Tu sai ch'el fece in Alba sua dimora per trecento anni e oltre, infino al fine che i tre a' tre pugnar per lui ancora. E sai ch'el f dal mal de le Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine. Sai quel ch'el f portato da li egregi Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, incontro a li altri principi e collegi; onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi ebber la fama che volontier mirro. Esso atterr l'orgoglio de li Arbi che di retro ad Anibale passaro l'alpestre rocce, Po, di che tu labi. Sott' esso giovanetti trunfaro Scipone e Pompeo; e a quel colle sotto 'l qual tu nascesti parve amaro. Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. E quel che f da Varo infino a Reno, Isara vide ed Era e vide Senna e ogne valle onde Rodano pieno. Quel che f poi ch'elli usc di Ravenna e salt Rubicon, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua n penna. Inver' la Spagna rivolse lo stuolo, poi ver' Durazzo, e Farsalia percosse s ch'al Nil caldo si sent del duolo. Antandro e Simeonta, onde si mosse, rivide e l dov' Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse. Da indi scese folgorando a Iuba; onde si volse nel vostro occidente, ove sentia la pompeana tuba. Di quel che f col baiulo seguente, Bruto con Cassio ne l'inferno latra, e Modena e Perugia fu dolente. Piangene ancor la trista Cleopatra, che, fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra. Con costui corse infino al lito rubro; con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro. Ma ci che 'l segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal ch'a lui soggiace, diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; ch la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel ch'i' dico, gloria di far vendetta a la sua ira. Or qui t'ammira in ci ch'io ti replco: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. Omai puoi giudicar di quei cotali ch'io accusai di sopra e di lor falli, che son cagion di tutti vostri mali. L'uno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e l'altro appropria quello a parte, s ch' forte a veder chi pi si falli. Faccian li Ghibellin, faccian lor arte sott' altro segno, ch mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte; e non l'abbatta esto Carlo novello coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli ch'a pi alto leon trasser lo vello. Molte fate gi pianser li figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio trasmuti l'armi per suoi gigli! Questa picciola stella si correda d'i buoni spirti che son stati attivi perch onore e fama li succeda: e quando li disiri poggian quivi, s disvando, pur convien che i raggi del vero amore in s poggin men vivi. Ma nel commensurar d'i nostri gaggi col merto parte di nostra letizia, perch non li vedem minor n maggi. Quindi addolcisce la viva giustizia in noi l'affetto s, che non si puote torcer gi mai ad alcuna nequizia. Diverse voci fanno dolci note; cos diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote. E dentro a la presente margarita luce la luce di Romeo, di cui fu l'ovra grande e bella mal gradita. Ma i Provenzai che fecer contra lui non hanno riso; e per mal cammina qual si fa danno del ben fare altrui. Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, Ramondo Beringhiere, e ci li fece Romeo, persona umle e peregrina. E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegn sette e cinque per diece, indi partissi povero e vetusto; e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto, assai lo loda, e pi lo loderebbe. CANTO VII [Canto VII, nel quale Beatrice mostra come la vendetta fatta per Tito de la morte di Ges Cristo nostro Salvatore fue giusta, essendo la morte di Ges Cristo giusta per ricomperamento de l'umana generazione e solvimento del peccato del primo padre.] Osanna, sanctus Deus sabath, superillustrans claritate tua felices ignes horum malacth!. Cos, volgendosi a la nota sua, fu viso a me cantare essa sustanza, sopra la qual doppio lume s'addua; ed essa e l'altre mossero a sua danza, e quasi velocissime faville mi si velar di sbita distanza. Io dubitava e dicea 'Dille, dille!' fra me, 'dille' dicea, 'a la mia donna che mi diseta con le dolci stille'. Ma quella reverenza che s'indonna di tutto me, pur per Be e per ice, mi richinava come l'uom ch'assonna. Poco sofferse me cotal Beatrice e cominci, raggiandomi d'un riso tal, che nel foco faria l'uom felice: Secondo mio infallibile avviso, come giusta vendetta giustamente punita fosse, t'ha in pensier miso; ma io ti solver tosto la mente; e tu ascolta, ch le mie parole di gran sentenza ti faran presente. Per non soffrire a la virt che vole freno a suo prode, quell' uom che non nacque, dannando s, dann tutta sua prole; onde l'umana specie inferma giacque gi per secoli molti in grande errore, fin ch'al Verbo di Dio discender piacque u' la natura, che dal suo fattore s'era allungata, un a s in persona con l'atto sol del suo etterno amore. Or drizza il viso a quel ch'or si ragiona: questa natura al suo fattore unita, qual fu creata, fu sincera e buona; ma per s stessa pur fu ella sbandita di paradiso, per che si torse da via di verit e da sua vita. La pena dunque che la croce porse s'a la natura assunta si misura, nulla gi mai s giustamente morse; e cos nulla fu di tanta ingiura, guardando a la persona che sofferse, in che era contratta tal natura. Per d'un atto uscir cose diverse: ch'a Dio e a' Giudei piacque una morte; per lei trem la terra e 'l ciel s'aperse. Non ti dee oramai parer pi forte, quando si dice che giusta vendetta poscia vengiata fu da giusta corte. Ma io veggi' or la tua mente ristretta di pensiero in pensier dentro ad un nodo, del qual con gran disio solver s'aspetta. Tu dici: "Ben discerno ci ch'i' odo; ma perch Dio volesse, m' occulto, a nostra redenzion pur questo modo". Questo decreto, frate, sta sepulto a li occhi di ciascuno il cui ingegno ne la fiamma d'amor non adulto. Veramente, per ch'a questo segno molto si mira e poco si discerne, dir perch tal modo fu pi degno. La divina bont, che da s sperne ogne livore, ardendo in s, sfavilla s che dispiega le bellezze etterne. Ci che da lei sanza mezzo distilla non ha poi fine, perch non si move la sua imprenta quand' ella sigilla. Ci che da essa sanza mezzo piove libero tutto, perch non soggiace a la virtute de le cose nove. Pi l' conforme, e per pi le piace; ch l'ardor santo ch'ogne cosa raggia, ne la pi somigliante pi vivace. Di tutte queste dote s'avvantaggia l'umana creatura, e s'una manca, di sua nobilit convien che caggia. Solo il peccato quel che la disfranca e falla dissimle al sommo bene, per che del lume suo poco s'imbianca; e in sua dignit mai non rivene, se non rempie, dove colpa vta, contra mal dilettar con giuste pene. Vostra natura, quando pecc tota nel seme suo, da queste dignitadi, come di paradiso, fu remota; n ricovrar potiensi, se tu badi ben sottilmente, per alcuna via, sanza passar per un di questi guadi: o che Dio solo per sua cortesia dimesso avesse, o che l'uom per s isso avesse sodisfatto a sua follia. Ficca mo l'occhio per entro l'abisso de l'etterno consiglio, quanto puoi al mio parlar distrettamente fisso. Non potea l'uomo ne' termini suoi mai sodisfar, per non potere ir giuso con umiltate obedendo poi, quanto disobediendo intese ir suso; e questa la cagion per che l'uom fue da poter sodisfar per s dischiuso. Dunque a Dio convenia con le vie sue riparar l'omo a sua intera vita, dico con l'una, o ver con amendue. Ma perch l'ovra tanto pi gradita da l'operante, quanto pi appresenta de la bont del core ond' ell' uscita, la divina bont che 'l mondo imprenta, di proceder per tutte le sue vie, a rilevarvi suso, fu contenta. N tra l'ultima notte e 'l primo die s alto o s magnifico processo, o per l'una o per l'altra, fu o fie: ch pi largo fu Dio a dar s stesso per far l'uom sufficiente a rilevarsi, che s'elli avesse sol da s dimesso; e tutti li altri modi erano scarsi a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio non fosse umilato ad incarnarsi. Or per empierti bene ogne disio, ritorno a dichiararti in alcun loco, perch tu veggi l cos com' io. Tu dici: "Io veggio l'acqua, io veggio il foco, l'aere e la terra e tutte lor misture venire a corruzione, e durar poco; e queste cose pur furon creature; per che, se ci ch' detto stato vero, esser dovrien da corruzion sicure". Li angeli, frate, e 'l paese sincero nel qual tu se', dir si posson creati, s come sono, in loro essere intero; ma li alimenti che tu hai nomati e quelle cose che di lor si fanno da creata virt sono informati. Creata fu la materia ch'elli hanno; creata fu la virt informante in queste stelle che 'ntorno a lor vanno. L'anima d'ogne bruto e de le piante di complession potenzata tira lo raggio e 'l moto de le luci sante; ma vostra vita sanza mezzo spira la somma beninanza, e la innamora di s s che poi sempre la disira. E quinci puoi argomentare ancora vostra resurrezion, se tu ripensi come l'umana carne fessi allora che li primi parenti intrambo fensi. CANTO VIII [Canto VIII, nel quale si manifestano alcune questioni per Carlo giovane, re d'Ungheria, il quale si mostroe nel circulo di Venere; e qui comincia la terza parte di questa cantica.] Solea creder lo mondo in suo periclo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo; per che non pur a lei faceano onore di sacrificio e di votivo grido le genti antiche ne l'antico errore; ma Done onoravano e Cupido, quella per madre sua, questo per figlio, e dicean ch'el sedette in grembo a Dido; e da costei ond' io principio piglio pigliavano il vocabol de la stella che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. Io non m'accorsi del salire in ella; ma d'esservi entro mi f assai fede la donna mia ch'i' vidi far pi bella. E come in fiamma favilla si vede, e come in voce voce si discerne, quand' una ferma e altra va e riede, vid' io in essa luce altre lucerne muoversi in giro pi e men correnti, al modo, credo, di lor viste interne. Di fredda nube non disceser venti, o visibili o no, tanto festini, che non paressero impediti e lenti a chi avesse quei lumi divini veduti a noi venir, lasciando il giro pria cominciato in li alti Serafini; e dentro a quei che pi innanzi appariro sonava 'Osanna' s, che unque poi di rudir non fui sanza disiro. Indi si fece l'un pi presso a noi e solo incominci: Tutti sem presti al tuo piacer, perch di noi ti gioi. Noi ci volgiam coi principi celesti d'un giro e d'un girare e d'una sete, ai quali tu del mondo gi dicesti: 'Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete'; e sem s pien d'amor, che, per piacerti, non fia men dolce un poco di quete. Poscia che li occhi miei si fuoro offerti a la mia donna reverenti, ed essa fatti li avea di s contenti e certi, rivolsersi a la luce che promessa tanto s'avea, e Deh, chi siete? fue la voce mia di grande affetto impressa. E quanta e quale vid' io lei far pie per allegrezza nova che s'accrebbe, quando parlai, a l'allegrezze sue! Cos fatta, mi disse: Il mondo m'ebbe gi poco tempo; e se pi fosse stato, molto sar di mal, che non sarebbe. La mia letizia mi ti tien celato che mi raggia dintorno e mi nasconde quasi animal di sua seta fasciato. Assai m'amasti, e avesti ben onde; che s'io fossi gi stato, io ti mostrava di mio amor pi oltre che le fronde. Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi ch' misto con Sorga, per suo segnore a tempo m'aspettava, e quel corno d'Ausonia che s'imborga di Bari e di Gaeta e di Catona, da ove Tronto e Verde in mare sgorga. Fulgeami gi in fronte la corona di quella terra che 'l Danubio riga poi che le ripe tedesche abbandona. E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!". E se mio frate questo antivedesse, l'avara povert di Catalogna gi fuggeria, perch non li offendesse; ch veramente proveder bisogna per lui, o per altrui, s ch'a sua barca carcata pi d'incarco non si pogna. La sua natura, che di larga parca discese, avria mestier di tal milizia che non curasse di mettere in arca. Per ch'i' credo che l'alta letizia che 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio, l 've ogne ben si termina e s'inizia, per te si veggia come la vegg' io, grata m' pi; e anco quest' ho caro perch 'l discerni rimirando in Dio. Fatto m'hai lieto, e cos mi fa chiaro, poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso com' esser pu, di dolce seme, amaro. Questo io a lui; ed elli a me: S'io posso mostrarti un vero, a quel che tu dimandi terrai lo viso come tien lo dosso. Lo ben che tutto il regno che tu scandi volge e contenta, fa esser virtute sua provedenza in questi corpi grandi. E non pur le nature provedute sono in la mente ch' da s perfetta, ma esse insieme con la lor salute: per che quantunque quest' arco saetta disposto cade a proveduto fine, s come cosa in suo segno diretta. Se ci non fosse, il ciel che tu cammine producerebbe s li suoi effetti, che non sarebbero arti, ma ruine; e ci esser non pu, se li 'ntelletti che muovon queste stelle non son manchi, e manco il primo, che non li ha perfetti. Vuo' tu che questo ver pi ti s'imbianchi?. E io: Non gi; ch impossibil veggio che la natura, in quel ch' uopo, stanchi. Ond' elli ancora: Or d: sarebbe il peggio per l'omo in terra, se non fosse cive?. S, rispuos' io; e qui ragion non cheggio. E puot' elli esser, se gi non si vive diversamente per diversi offici? Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive. S venne deducendo infino a quici; poscia conchiuse: Dunque esser diverse convien di vostri effetti le radici: per ch'un nasce Solone e altro Serse, altro Melchisedch e altro quello che, volando per l'aere, il figlio perse. La circular natura, ch' suggello a la cera mortal, fa ben sua arte, ma non distingue l'un da l'altro ostello. Quinci addivien ch'Esa si diparte per seme da Iacb; e vien Quirino da s vil padre, che si rende a Marte. Natura generata il suo cammino simil farebbe sempre a' generanti, se non vincesse il proveder divino. Or quel che t'era dietro t' davanti: ma perch sappi che di te mi giova, un corollario voglio che t'ammanti. Sempre natura, se fortuna trova discorde a s, com' ogne altra semente fuor di sua regon, fa mala prova. E se 'l mondo l gi ponesse mente al fondamento che natura pone, seguendo lui, avria buona la gente. Ma voi torcete a la religone tal che fia nato a cignersi la spada, e fate re di tal ch' da sermone; onde la traccia vostra fuor di strada. CANTO IX [Canto IX, nel quale parla madonna Cunizza di Romano, antidicendo alcuna cosa de la Marca di Trevigi; e parla Folco di Marsilia che fue vescovo d'essa.] Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, m'ebbe chiarito, mi narr li 'nganni che ricever dovea la sua semenza; ma disse: Taci e lascia muover li anni; s ch'io non posso dir se non che pianto giusto verr di retro ai vostri danni. E gi la vita di quel lume santo rivolta s'era al Sol che la rempie come quel ben ch'a ogne cosa tanto. Ahi anime ingannate e fatture empie, che da s fatto ben torcete i cuori, drizzando in vanit le vostre tempie! Ed ecco un altro di quelli splendori ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi significava nel chiarir di fori. Li occhi di Batrice, ch'eran fermi sovra me, come pria, di caro assenso al mio disio certificato fermi. Deh, metti al mio voler tosto compenso, beato spirto, dissi, e fammi prova ch'i' possa in te refletter quel ch'io penso!. Onde la luce che m'era ancor nova, del suo profondo, ond' ella pria cantava, seguette come a cui di ben far giova: In quella parte de la terra prava italica che siede tra Ralto e le fontane di Brenta e di Piava, si leva un colle, e non surge molt' alto, l onde scese gi una facella che fece a la contrada un grande assalto. D'una radice nacqui e io ed ella: Cunizza fui chiamata, e qui refulgo perch mi vinse il lume d'esta stella; ma lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia; che parria forse forte al vostro vulgo. Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che pi m' propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor s'incinqua: vedi se far si dee l'omo eccellente, s ch'altra vita la prima relinqua. E ci non pensa la turba presente che Tagliamento e Adice richiude, n per esser battuta ancor si pente; ma tosto fia che Padova al palude canger l'acqua che Vincenza bagna, per essere al dover le genti crude; e dove Sile e Cagnan s'accompagna, tal signoreggia e va con la testa alta, che gi per lui carpir si fa la ragna. Pianger Feltro ancora la difalta de l'empio suo pastor, che sar sconcia s, che per simil non s'entr in malta. Troppo sarebbe larga la bigoncia che ricevesse il sangue ferrarese, e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia, che doner questo prete cortese per mostrarsi di parte; e cotai doni conformi fieno al viver del paese. S sono specchi, voi dicete Troni, onde refulge a noi Dio giudicante; s che questi parlar ne paion buoni. Qui si tacette; e fecemi sembiante che fosse ad altro volta, per la rota in che si mise com' era davante. L'altra letizia, che m'era gi nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. Per letiziar l s fulgor s'acquista, s come riso qui; ma gi s'abbuia l'ombra di fuor, come la mente trista. Dio vede tutto, e tuo veder s'inluia, diss' io, beato spirto, s che nulla voglia di s a te puot' esser fuia. Dunque la voce tua, che 'l ciel trastulla sempre col canto di quei fuochi pii che di sei ali facen la coculla, perch non satisface a' miei disii? Gi non attendere' io tua dimanda, s'io m'intuassi, come tu t'inmii. La maggior valle in che l'acqua si spanda, incominciaro allor le sue parole, fuor di quel mar che la terra inghirlanda, tra ' discordanti liti contra 'l sole tanto sen va, che fa meridano l dove l'orizzonte pria far suole. Di quella valle fu' io litorano tra Ebro e Macra, che per cammin corto parte lo Genovese dal Toscano. Ad un occaso quasi e ad un orto Buggea siede e la terra ond' io fui, che f del sangue suo gi caldo il porto. Folco mi disse quella gente a cui fu noto il nome mio; e questo cielo di me s'imprenta, com' io fe' di lui; ch pi non arse la figlia di Belo, noiando e a Sicheo e a Creusa, di me, infin che si convenne al pelo; n quella Rodopa che delusa fu da Demofoonte, n Alcide quando Iole nel core ebbe rinchiusa. Non per qui si pente, ma si ride, non de la colpa, ch'a mente non torna, ma del valor ch'ordin e provide. Qui si rimira ne l'arte ch'addorna cotanto affetto, e discernesi 'l bene per che 'l mondo di s quel di gi torna. Ma perch tutte le tue voglie piene ten porti che son nate in questa spera, proceder ancor oltre mi convene. Tu vuo' saper chi in questa lumera che qui appresso me cos scintilla come raggio di sole in acqua mera. Or sappi che l entro si tranquilla Raab; e a nostr' ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla. Da questo cielo, in cui l'ombra s'appunta che 'l vostro mondo face, pria ch'altr' alma del trunfo di Cristo fu assunta. Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de l'alta vittoria che s'acquist con l'una e l'altra palma, perch' ella favor la prima gloria di Ios in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. La tua citt, che di colui pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui la 'nvidia tanto pianta, produce e spande il maladetto fiore c'ha disvate le pecore e li agni, per che fatto ha lupo del pastore. Per questo l'Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, s che pare a' lor vivagni. A questo intende il papa e ' cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, l dove Gabrello aperse l'ali. Ma Vaticano e l'altre parti elette di Roma che son state cimitero a la milizia che Pietro seguette, tosto libere fien de l'avoltero. CANTO X [Canto X, nel quale santo Tommaso d'Aquino de l'ordine de' Frati Predicatori parla nel cielo del Sole; e qui comincia la quarta parte.] Guardando nel suo Figlio con l'Amore che l'uno e l'altro etternalmente spira, lo primo e ineffabile Valore quanto per mente e per loco si gira con tant' ordine f, ch'esser non puote sanza gustar di lui chi ci rimira. Leva dunque, lettore, a l'alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l'un moto e l'altro si percuote; e l comincia a vagheggiar ne l'arte di quel maestro che dentro a s l'ama, tanto che mai da lei l'occhio non parte. Vedi come da indi si dirama l'oblico cerchio che i pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. Che se la strada lor non fosse torta, molta virt nel ciel sarebbe in vano, e quasi ogne potenza qua gi morta; e se dal dritto pi o men lontano fosse 'l partire, assai sarebbe manco e gi e s de l'ordine mondano. Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, dietro pensando a ci che si preliba, s'esser vuoi lieto assai prima che stanco. Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba; ch a s torce tutta la mia cura quella materia ond' io son fatto scriba. Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura, con quella parte che s si rammenta congiunto, si girava per le spire in che pi tosto ognora s'appresenta; e io era con lui; ma del salire non m'accors' io, se non com' uom s'accorge, anzi 'l primo pensier, del suo venire. Batrice quella che s scorge di bene in meglio, s subitamente che l'atto suo per tempo non si sporge. Quant' esser convenia da s lucente quel ch'era dentro al sol dov' io entra'mi, non per color, ma per lume parvente! Perch' io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, s nol direi che mai s'imaginasse; ma creder puossi e di veder si brami. E se le fantasie nostre son basse a tanta altezza, non maraviglia; ch sopra 'l sol non fu occhio ch'andasse. Tal era quivi la quarta famiglia de l'alto Padre, che sempre la sazia, mostrando come spira e come figlia. E Batrice cominci: Ringrazia, ringrazia il Sol de li angeli, ch'a questo sensibil t'ha levato per sua grazia. Cor di mortal non fu mai s digesto a divozione e a rendersi a Dio con tutto 'l suo gradir cotanto presto, come a quelle parole mi fec' io; e s tutto 'l mio amore in lui si mise, che Batrice ecliss ne l'oblio. Non le dispiacque; ma s se ne rise, che lo splendor de li occhi suoi ridenti mia mente unita in pi cose divise. Io vidi pi folgr vivi e vincenti far di noi centro e di s far corona, pi dolci in voce che in vista lucenti: cos cinger la figlia di Latona vedem talvolta, quando l'aere pregno, s che ritenga il fil che fa la zona. Ne la corte del cielo, ond' io rivegno, si trovan molte gioie care e belle tanto che non si posson trar del regno; e 'l canto di quei lumi era di quelle; chi non s'impenna s che l s voli, dal muto aspetti quindi le novelle. Poi, s cantando, quelli ardenti soli si fuor girati intorno a noi tre volte, come stelle vicine a' fermi poli, donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che s'arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte. E dentro a l'un senti' cominciar: Quando lo raggio de la grazia, onde s'accende verace amore e che poi cresce amando, multiplicato in te tanto resplende, che ti conduce su per quella scala u' sanza risalir nessun discende; qual ti negasse il vin de la sua fiala per la tua sete, in libert non fora se non com' acqua ch'al mar non si cala. Tu vuo' saper di quai piante s'infiora questa ghirlanda che 'ntorno vagheggia la bella donna ch'al ciel t'avvalora. Io fui de li agni de la santa greggia che Domenico mena per cammino u' ben s'impingua se non si vaneggia. Questi che m' a destra pi vicino, frate e maestro fummi, ed esso Alberto di Cologna, e io Thomas d'Aquino. Se s di tutti li altri esser vuo' certo, di retro al mio parlar ten vien col viso girando su per lo beato serto. Quell' altro fiammeggiare esce del riso di Grazan, che l'uno e l'altro foro aiut s che piace in paradiso. L'altro ch'appresso addorna il nostro coro, quel Pietro fu che con la poverella offerse a Santa Chiesa suo tesoro. La quinta luce, ch' tra noi pi bella, spira di tale amor, che tutto 'l mondo l gi ne gola di saper novella: entro v' l'alta mente u' s profondo saver fu messo, che, se 'l vero vero, a veder tanto non surse il secondo. Appresso vedi il lume di quel cero che gi in carne pi a dentro vide l'angelica natura e 'l ministero. Ne l'altra piccioletta luce ride quello avvocato de' tempi cristiani del cui latino Augustin si provide. Or se tu l'occhio de la mente trani di luce in luce dietro a le mie lode, gi de l'ottava con sete rimani. Per vedere ogne ben dentro vi gode l'anima santa che 'l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode. Lo corpo ond' ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da essilio venne a questa pace. Vedi oltre fiammeggiar l'ardente spiro d'Isidoro, di Beda e di Riccardo, che a considerar fu pi che viro. Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, 'l lume d'uno spirto che 'n pensieri gravi a morir li parve venir tardo: essa la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizz invidosi veri. Indi, come orologio che ne chiami ne l'ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perch l'ami, che l'una parte e l'altra tira e urge, tin tin sonando con s dolce nota, che 'l ben disposto spirto d'amor turge; cos vid' o la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch'esser non p nota se non col dove gioir s'insempra. CANTO XI [Canto XI, nel quale il detto frate in gloria di san Francesco sotto brevitate racconta la sua vita tutta, e riprende i suoi frati, ch pochi sono quelli che '1 seguitino.] O insensata cura de' mortali, quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l'ali! Chi dietro a iura e chi ad amforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare e chi civil negozio, chi nel diletto de la carne involto s'affaticava e chi si dava a l'ozio, quando, da tutte queste cose sciolto, con Batrice m'era suso in cielo cotanto glorosamente accolto. Poi che ciascuno fu tornato ne lo punto del cerchio in che avanti s'era, fermossi, come a candellier candelo. E io senti' dentro a quella lumera che pria m'avea parlato, sorridendo incominciar, faccendosi pi mera: Cos com' io del suo raggio resplendo, s, riguardando ne la luce etterna, li tuoi pensieri onde cagioni apprendo. Tu dubbi, e hai voler che si ricerna in s aperta e 'n s distesa lingua lo dicer mio, ch'al tuo sentir si sterna, ove dinanzi dissi: "U' ben s'impingua", e l u' dissi: "Non nacque il secondo"; e qui uopo che ben si distingua. La provedenza, che governa il mondo con quel consiglio nel quale ogne aspetto creato vinto pria che vada al fondo, per che andasse ver' lo suo diletto la sposa di colui ch'ad alte grida dispos lei col sangue benedetto, in s sicura e anche a lui pi fida, due principi ordin in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida. L'un fu tutto serafico in ardore; l'altro per sapenza in terra fue di cherubica luce uno splendore. De l'un dir, per che d'amendue si dice l'un pregiando, qual ch'om prende, perch' ad un fine fur l'opere sue. Intra Tupino e l'acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa d'alto monte pende, onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole; e di rietro le piange per grave giogo Nocera con Gualdo. Di questa costa, l dov' ella frange pi sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo talvolta di Gange. Per chi d'esso loco fa parole, non dica Ascesi, ch direbbe corto, ma Orente, se proprio dir vuole. Non era ancor molto lontan da l'orto, ch'el cominci a far sentir la terra de la sua gran virtute alcun conforto; ch per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse, a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra; e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito; poscia di d in d l'am pi forte. Questa, privata del primo marito, millecent' anni e pi dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito; n valse udir che la trov sicura con Amiclate, al suon de la sua voce, colui ch'a tutto 'l mondo f paura; n valse esser costante n feroce, s che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce. Ma perch' io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povert per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi; tanto che 'l venerabile Bernardo si scalz prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo. Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, s la sposa piace. Indi sen va quel padre e quel maestro con la sua donna e con quella famiglia che gi legava l'umile capestro. N li grav vilt di cuor le ciglia per esser fi' di Pietro Bernardone, n per parer dispetto a maraviglia; ma regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua religone. Poi che la gente poverella crebbe dietro a costui, la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe, di seconda corona redimita fu per Onorio da l'Etterno Spiro la santa voglia d'esto archimandrita. E poi che, per la sete del martiro, ne la presenza del Soldan superba predic Cristo e li altri che 'l seguiro, e per trovare a conversione acerba troppo la gente e per non stare indarno, redissi al frutto de l'italica erba, nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l'ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno. Quando a colui ch'a tanto ben sortillo piacque di trarlo suso a la mercede ch'el merit nel suo farsi pusillo, a' frati suoi, s com' a giuste rede, raccomand la donna sua pi cara, e comand che l'amassero a fede; e del suo grembo l'anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara. Pensa oramai qual fu colui che degno collega fu a mantener la barca di Pietro in alto mar per dritto segno; e questo fu il nostro patrarca; per che qual segue lui, com' el comanda, discerner puoi che buone merce carca. Ma 'l suo pecuglio di nova vivanda fatto ghiotto, s ch'esser non puote che per diversi salti non si spanda; e quanto le sue pecore remote e vagabunde pi da esso vanno, pi tornano a l'ovil di latte vte. Ben son di quelle che temono 'l danno e stringonsi al pastor; ma son s poche, che le cappe fornisce poco panno. Or, se le mie parole non son fioche, se la tua audenza stata attenta, se ci ch' detto a la mente revoche, in parte fia la tua voglia contenta, perch vedrai la pianta onde si scheggia, e vedra' il corrgger che argomenta "U' ben s'impingua, se non si vaneggia". CANTO XII [Canto XII, nel quale frate Bonaventura da Bagnoregio in gloria di santo Dominico parla e brevemente la sua vita narra.] S tosto come l'ultima parola la benedetta fiamma per dir tolse, a rotar cominci la santa mola; e nel suo giro tutta non si volse prima ch'un'altra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto colse; canto che tanto vince nostre muse, nostre serene in quelle dolci tube, quanto primo splendor quel ch'e' refuse. Come si volgon per tenera nube due archi paralelli e concolori, quando Iunone a sua ancella iube, nascendo di quel d'entro quel di fori, a guisa del parlar di quella vaga ch'amor consunse come sol vapori, e fanno qui la gente esser presaga, per lo patto che Dio con No puose, del mondo che gi mai pi non s'allaga: cos di quelle sempiterne rose volgiensi circa noi le due ghirlande, e s l'estrema a l'intima rispuose. Poi che 'l tripudio e l'altra festa grande, s del cantare e s del fiammeggiarsi luce con luce gaudose e blande, insieme a punto e a voler quetarsi, pur come li occhi ch'al piacer che i move conviene insieme chiudere e levarsi; del cor de l'una de le luci nove si mosse voce, che l'ago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove; e cominci: L'amor che mi fa bella mi tragge a ragionar de l'altro duca per cui del mio s ben ci si favella. Degno che, dov' l'un, l'altro s'induca: s che, com' elli ad una militaro, cos la gloria loro insieme luca. L'essercito di Cristo, che s caro cost a rarmar, dietro a la 'nsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, quando lo 'mperador che sempre regna provide a la milizia, ch'era in forse, per sola grazia, non per esser degna; e, come detto, a sua sposa soccorse con due campioni, al cui fare, al cui dire lo popol disvato si raccorse. In quella parte ove surge ad aprire Zefiro dolce le novelle fronde di che si vede Europa rivestire, non molto lungi al percuoter de l'onde dietro a le quali, per la lunga foga, lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, siede la fortunata Calaroga sotto la protezion del grande scudo in che soggiace il leone e soggioga: dentro vi nacque l'amoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno a' suoi e a' nemici crudo; e come fu creata, fu repleta s la sua mente di viva vertute, che, ne la madre, lei fece profeta. Poi che le sponsalizie fuor compiute al sacro fonte intra lui e la Fede, u' si dotar di muta salute, la donna che per lui l'assenso diede, vide nel sonno il mirabile frutto ch'uscir dovea di lui e de le rede; e perch fosse qual era in costrutto, quinci si mosse spirito a nomarlo del possessivo di cui era tutto. Domenico fu detto; e io ne parlo s come de l'agricola che Cristo elesse a l'orto suo per aiutarlo. Ben parve messo e famigliar di Cristo: ch 'l primo amor che 'n lui fu manifesto, fu al primo consiglio che di Cristo. Spesse fate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice, come dicesse: 'Io son venuto a questo'. Oh padre suo veramente Felice! oh madre sua veramente Giovanna, se, interpretata, val come si dice! Non per lo mondo, per cui mo s'affanna di retro ad Ostense e a Taddeo, ma per amor de la verace manna in picciol tempo gran dottor si feo; tal che si mise a circir la vigna che tosto imbianca, se 'l vignaio reo. E a la sedia che fu gi benigna pi a' poveri giusti, non per lei, ma per colui che siede, che traligna, non dispensare o due o tre per sei, non la fortuna di prima vacante, non decimas, quae sunt pauperum Dei, addimand, ma contro al mondo errante licenza di combatter per lo seme del qual ti fascian ventiquattro piante. Poi, con dottrina e con volere insieme, con l'officio appostolico si mosse quasi torrente ch'alta vena preme; e ne li sterpi eretici percosse l'impeto suo, pi vivamente quivi dove le resistenze eran pi grosse. Di lui si fecer poi diversi rivi onde l'orto catolico si riga, s che i suoi arbuscelli stan pi vivi. Se tal fu l'una rota de la biga in che la Santa Chiesa si difese e vinse in campo la sua civil briga, ben ti dovrebbe assai esser palese l'eccellenza de l'altra, di cui Tomma dinanzi al mio venir fu s cortese. Ma l'orbita che f la parte somma di sua circunferenza, derelitta, s ch' la muffa dov' era la gromma. La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi a le sue orme, tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta; e tosto si vedr de la ricolta de la mala coltura, quando il loglio si lagner che l'arca li sia tolta. Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta u' leggerebbe "I' mi son quel ch'i' soglio"; ma non fia da Casal n d'Acquasparta, l onde vegnon tali a la scrittura, ch'uno la fugge e altro la coarta. Io son la vita di Bonaventura da Bagnoregio, che ne' grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura. Illuminato e Augustin son quici, che fuor de' primi scalzi poverelli che nel capestro a Dio si fero amici. Ugo da San Vittore qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, lo qual gi luce in dodici libelli; Natn profeta e 'l metropolitano Crisostomo e Anselmo e quel Donato ch'a la prim' arte degn porre mano. Rabano qui, e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato. Ad inveggiar cotanto paladino mi mosse l'infiammata cortesia di fra Tommaso e 'l discreto latino; e mosse meco questa compagnia. CANTO XIII [Canto XIII, nel quale san Tommaso d'Aquino, de l'ordine d'i frati predicatori solve una questione toccata di sopra da Salamone.] Imagini, chi bene intender cupe quel ch'i' or vidi e ritegna l'image, mentre ch'io dico, come ferma rupe , quindici stelle che 'n diverse plage lo ciel avvivan di tanto sereno che soperchia de l'aere ogne compage; imagini quel carro a cu' il seno basta del nostro cielo e notte e giorno, s ch'al volger del temo non vien meno; imagini la bocca di quel corno che si comincia in punta de lo stelo a cui la prima rota va dintorno, aver fatto di s due segni in cielo, qual fece la figliuola di Minoi allora che sent di morte il gelo; e l'un ne l'altro aver li raggi suoi, e amendue girarsi per maniera che l'uno andasse al primo e l'altro al poi; e avr quasi l'ombra de la vera costellazione e de la doppia danza che circulava il punto dov' io era: poi ch' tanto di l da nostra usanza, quanto di l dal mover de la Chiana si move il ciel che tutti li altri avanza. L si cant non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, e in una persona essa e l'umana. Compi 'l cantare e 'l volger sua misura; e attesersi a noi quei santi lumi, felicitando s di cura in cura. Ruppe il silenzio ne' concordi numi poscia la luce in che mirabil vita del poverel di Dio narrata fumi, e disse: Quando l'una paglia trita, quando la sua semenza gi riposta, a batter l'altra dolce amor m'invita. Tu credi che nel petto onde la costa si trasse per formar la bella guancia il cui palato a tutto 'l mondo costa, e in quel che, forato da la lancia, e prima e poscia tanto sodisfece, che d'ogne colpa vince la bilancia, quantunque a la natura umana lece aver di lume, tutto fosse infuso da quel valor che l'uno e l'altro fece; e per miri a ci ch'io dissi suso, quando narrai che non ebbe 'l secondo lo ben che ne la quinta luce chiuso. Or apri li occhi a quel ch'io ti rispondo, e vedri il tuo credere e 'l mio dire nel vero farsi come centro in tondo. Ci che non more e ci che pu morire non se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire; ch quella viva luce che s mea dal suo lucente, che non si disuna da lui n da l'amor ch'a lor s'intrea, per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una. Quindi discende a l'ultime potenze gi d'atto in atto, tanto divenendo, che pi non fa che brevi contingenze; e queste contingenze essere intendo le cose generate, che produce con seme e sanza seme il ciel movendo. La cera di costoro e chi la duce non sta d'un modo; e per sotto 'l segno idale poi pi e men traluce. Ond' elli avvien ch'un medesimo legno, secondo specie, meglio e peggio frutta; e voi nascete con diverso ingegno. Se fosse a punto la cera dedutta e fosse il cielo in sua virt supprema, la luce del suggel parrebbe tutta; ma la natura la d sempre scema, similemente operando a l'artista ch'a l'abito de l'arte ha man che trema. Per se 'l caldo amor la chiara vista de la prima virt dispone e segna, tutta la perfezion quivi s'acquista. Cos fu fatta gi la terra degna di tutta l'animal perfezone; cos fu fatta la Vergine pregna; s ch'io commendo tua oppinone, che l'umana natura mai non fue n fia qual fu in quelle due persone. Or s'i' non procedesse avanti pie, 'Dunque, come costui fu sanza pare?' comincerebber le parole tue. Ma perch paia ben ci che non pare, pensa chi era, e la cagion che 'l mosse, quando fu detto "Chiedi", a dimandare. Non ho parlato s, che tu non posse ben veder ch'el fu re, che chiese senno acci che re sufficente fosse; non per sapere il numero in che enno li motor di qua s, o se necesse con contingente mai necesse fenno; non si est dare primum motum esse, o se del mezzo cerchio far si puote trangol s ch'un retto non avesse. Onde, se ci ch'io dissi e questo note, regal prudenza quel vedere impari in che lo stral di mia intenzion percuote; e se al "surse" drizzi li occhi chiari, vedrai aver solamente respetto ai regi, che son molti, e ' buon son rari. Con questa distinzion prendi 'l mio detto; e cos puote star con quel che credi del primo padre e del nostro Diletto. E questo ti sia sempre piombo a' piedi, per farti mover lento com' uom lasso e al s e al no che tu non vedi: ch quelli tra li stolti bene a basso, che sanza distinzione afferma e nega ne l'un cos come ne l'altro passo; perch' elli 'ncontra che pi volte piega l'oppinon corrente in falsa parte, e poi l'affetto l'intelletto lega. Vie pi che 'ndarno da riva si parte, perch non torna tal qual e' si move, chi pesca per lo vero e non ha l'arte. E di ci sono al mondo aperte prove Parmenide, Melisso e Brisso e molti, li quali andaro e non sapan dove; s f Sabellio e Arrio e quelli stolti che furon come spade a le Scritture in render torti li diritti volti. Non sien le genti, ancor, troppo sicure a giudicar, s come quei che stima le biade in campo pria che sien mature; ch'i' ho veduto tutto 'l verno prima lo prun mostrarsi rigido e feroce, poscia portar la rosa in su la cima; e legno vidi gi dritto e veloce correr lo mar per tutto suo cammino, perire al fine a l'intrar de la foce. Non creda donna Berta e ser Martino, per vedere un furare, altro offerere, vederli dentro al consiglio divino; ch quel pu surgere, e quel pu cadere. CANTO XIV [Canto XIV, nel quale Salamone solve alcuna cosa dubitata; e montasi ne la stella di Marte. La quinta parte comincia qui.] Dal centro al cerchio, e s dal cerchio al centro movesi l'acqua in un ritondo vaso, secondo ch' percosso fuori o dentro: ne la mia mente f sbito caso questo ch'io dico, s come si tacque la glorosa vita di Tommaso, per la similitudine che nacque del suo parlare e di quel di Beatrice, a cui s cominciar, dopo lui, piacque: A costui fa mestieri, e nol vi dice n con la voce n pensando ancora, d'un altro vero andare a la radice. Diteli se la luce onde s'infiora vostra sustanza, rimarr con voi etternalmente s com' ell' ora; e se rimane, dite come, poi che sarete visibili rifatti, esser por ch'al veder non vi ni. Come, da pi letizia pinti e tratti, a la fata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, cos, a l'orazion pronta e divota, li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota. Qual si lamenta perch qui si moia per viver col s, non vide quive lo refrigerio de l'etterna ploia. Quell' uno e due e tre che sempre vive e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive, tre volte era cantato da ciascuno di quelli spirti con tal melodia, ch'ad ogne merto saria giusto muno. E io udi' ne la luce pi dia del minor cerchio una voce modesta, forse qual fu da l'angelo a Maria, risponder: Quanto fia lunga la festa di paradiso, tanto il nostro amore si ragger dintorno cotal vesta. La sua chiarezza sguita l'ardore; l'ardor la visone, e quella tanta, quant' ha di grazia sovra suo valore. Come la carne glorosa e santa fia rivestita, la nostra persona pi grata fia per esser tutta quanta; per che s'accrescer ci che ne dona di gratito lume il sommo bene, lume ch'a lui veder ne condiziona; onde la vison crescer convene, crescer l'ardor che di quella s'accende, crescer lo raggio che da esso vene. Ma s come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, s che la sua parvenza si difende; cos questo folgr che gi ne cerchia fia vinto in apparenza da la carne che tutto d la terra ricoperchia; n potr tanta luce affaticarne: ch li organi del corpo saran forti a tutto ci che potr dilettarne. Tanto mi parver sbiti e accorti e l'uno e l'altro coro a dicer Amme!, che ben mostrar disio d'i corpi morti: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme. Ed ecco intorno, di chiarezza pari, nascere un lustro sopra quel che v'era, per guisa d'orizzonte che rischiari. E s come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, s che la vista pare e non par vera, parvemi l novelle sussistenze cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da l'altre due circunferenze. Oh vero sfavillar del Santo Spiro! come si fece sbito e candente a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! Ma Batrice s bella e ridente mi si mostr, che tra quelle vedute si vuol lasciar che non seguir la mente. Quindi ripreser li occhi miei virtute a rilevarsi; e vidimi translato sol con mia donna in pi alta salute. Ben m'accors' io ch'io era pi levato, per l'affocato riso de la stella, che mi parea pi roggio che l'usato. Con tutto 'l core e con quella favella ch' una in tutti, a Dio feci olocausto, qual conveniesi a la grazia novella. E non er' anco del mio petto essausto l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi esso litare stato accetto e fausto; ch con tanto lucore e tanto robbi m'apparvero splendor dentro a due raggi, ch'io dissi: O Els che s li addobbi!. Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra ' poli del mondo Galassia s, che fa dubbiar ben saggi; s costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo. Qui vince la memoria mia lo 'ngegno; ch quella croce lampeggiava Cristo, s ch'io non so trovare essempro degno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, ancor mi scuser di quel ch'io lasso, vedendo in quell' albor balenar Cristo. Di corno in corno e tra la cima e 'l basso si movien lumi, scintillando forte nel congiugnersi insieme e nel trapasso: cos si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie d'i corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista talvolta l'ombra che, per sua difesa, la gente con ingegno e arte acquista. E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non intesa, cos da' lumi che l m'apparinno s'accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l'inno. Ben m'accors' io ch'elli era d'alte lode, per ch'a me vena Resurgi e Vinci come a colui che non intende e ode. o m'innamorava tanto quinci, che 'nfino a l non fu alcuna cosa che mi legasse con s dolci vinci. Forse la mia parola par troppo osa, posponendo il piacer de li occhi belli, ne' quai mirando mio disio ha posa; ma chi s'avvede che i vivi suggelli d'ogne bellezza pi fanno pi suso, e ch'io non m'era l rivolto a quelli, escusar puommi di quel ch'io m'accuso per escusarmi, e vedermi dir vero: ch 'l piacer santo non qui dischiuso, perch si fa, montando, pi sincero. CANTO XV [Canto XV, nel quale messere Cacciaguida fiorentino parla laudando l'antico costume di Fiorenza, in vituperio del presente vivere d'essa cittade di Fiorenza.] Benigna volontade in che si liqua sempre l'amor che drittamente spira, come cupidit fa ne la iniqua, silenzio puose a quella dolce lira, e fece quetar le sante corde che la destra del cielo allenta e tira. Come saranno a' giusti preghi sorde quelle sustanze che, per darmi voglia ch'io le pregassi, a tacer fur concorde? Bene che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri etternalmente, quello amor si spoglia. Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or sbito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond' e' s'accende nulla sen perde, ed esso dura poco: tale dal corno che 'n destro si stende a pi di quella croce corse un astro de la costellazion che l resplende; n si part la gemma dal suo nastro, ma per la lista radal trascorse, che parve foco dietro ad alabastro. S pa l'ombra d'Anchise si porse, se fede merta nostra maggior musa, quando in Eliso del figlio s'accorse. O sanguis meus, o superinfusa grata De, sicut tibi cui bis unquam celi iana reclusa?. Cos quel lume: ond' io m'attesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui; ch dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. Indi, a udire e a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, ch'io non lo 'ntesi, s parl profondo; n per elezon mi si nascose, ma per necessit, ch 'l suo concetto al segno d'i mortal si soprapuose. E quando l'arco de l'ardente affetto fu s sfogato, che 'l parlar discese inver' lo segno del nostro intelletto, la prima cosa che per me s'intese, Benedetto sia tu, fu, trino e uno, che nel mio seme se' tanto cortese!. E segu: Grato e lontano digiuno, tratto leggendo del magno volume du' non si muta mai bianco n bruno, solvuto hai, figlio, dentro a questo lume in ch'io ti parlo, merc di colei ch'a l'alto volo ti vest le piume. Tu credi che a me tuo pensier mei da quel ch' primo, cos come raia da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei; e per ch'io mi sia e perch' io paia pi gaudoso a te, non mi domandi, che alcun altro in questa turba gaia. Tu credi 'l vero; ch i minori e ' grandi di questa vita miran ne lo speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi; ma perch 'l sacro amore in che io veglio con perpeta vista e che m'asseta di dolce disar, s'adempia meglio, la voce tua sicura, balda e lieta suoni la volont, suoni 'l disio, a che la mia risposta gi decreta!. Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno che fece crescer l'ali al voler mio. Poi cominciai cos: L'affetto e 'l senno, come la prima equalit v'apparse, d'un peso per ciascun di voi si fenno, per che 'l sol che v'allum e arse, col caldo e con la luce s iguali, che tutte simiglianze sono scarse. Ma voglia e argomento ne' mortali, per la cagion ch'a voi manifesta, diversamente son pennuti in ali; ond' io, che son mortal, mi sento in questa disagguaglianza, e per non ringrazio se non col core a la paterna festa. Ben supplico io a te, vivo topazio che questa gioia prezosa ingemmi, perch mi facci del tuo nome sazio. O fronda mia in che io compiacemmi pur aspettando, io fui la tua radice: cotal principio, rispondendo, femmi. Poscia mi disse: Quel da cui si dice tua cognazione e che cent' anni e pie girato ha 'l monte in la prima cornice, mio figlio fu e tuo bisavol fue: ben si convien che la lunga fatica tu li raccorci con l'opere tue. Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond' ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder pi che la persona. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, ch 'l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia vte; non v'era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ci che 'n camera si puote. Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio, che, com' vinto nel montar s, cos sar nel calo. Bellincion Berti vid' io andar cinto di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza 'l viso dipinto; e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio. Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta. L'una vegghiava a studio de la culla, e, consolando, usava l'idoma che prima i padri e le madri trastulla; l'altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia d'i Troiani, di Fiesole e di Roma. Saria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Salterello, qual or saria Cincinnato e Corniglia. A cos riposato, a cos bello viver di cittadini, a cos fida cittadinanza, a cos dolce ostello, Maria mi di, chiamata in alte grida; e ne l'antico vostro Batisteo insieme fui cristiano e Cacciaguida. Moronto fu mio frate ed Eliseo; mia donna venne a me di val di Pado, e quindi il sopranome tuo si feo. Poi seguitai lo 'mperador Currado; ed el mi cinse de la sua milizia, tanto per bene ovrar li venni in grado. Dietro li andai incontro a la nequizia di quella legge il cui popolo usurpa, per colpa d'i pastor, vostra giustizia. Quivi fu' io da quella gente turpa disviluppato dal mondo fallace, lo cui amor molt' anime deturpa; e venni dal martiro a questa pace. CANTO XVI [Canto XVI, nel quale il sopradetto messer Cacciaguida racconta intorno di quaranta famiglie onorabili al suo tempo ne la cittade di Fiorenza, de le quali al presente non ricordo n fama.] O poca nostra nobilt di sangue, se glorar di te la gente fai qua gi dove l'affetto nostro langue, mirabil cosa non mi sar mai: ch l dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai. Ben se' tu manto che tosto raccorce: s che, se non s'appon di d in die, lo tempo va dintorno con le force. Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie, in che la sua famiglia men persevra, ricominciaron le parole mie; onde Beatrice, ch'era un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio al primo fallo scritto di Ginevra. Io cominciai: Voi siete il padre mio; voi mi date a parlar tutta baldezza; voi mi levate s, ch'i' son pi ch'io. Per tanti rivi s'empie d'allegrezza la mente mia, che di s fa letizia perch pu sostener che non si spezza. Ditemi dunque, cara mia primizia, quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni che si segnaro in vostra perizia; ditemi de l'ovil di San Giovanni quanto era allora, e chi eran le genti tra esso degne di pi alti scanni. Come s'avviva a lo spirar d'i venti carbone in fiamma, cos vid' io quella luce risplendere a' miei blandimenti; e come a li occhi miei si f pi bella, cos con voce pi dolce e soave, ma non con questa moderna favella, dissemi: Da quel d che fu detto 'Ave' al parto in che mia madre, ch' or santa, s'allev di me ond' era grave, al suo Leon cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a rinfiammarsi sotto la sua pianta. Li antichi miei e io nacqui nel loco dove si truova pria l'ultimo sesto da quei che corre il vostro annal gioco. Basti d'i miei maggiori udirne questo: chi ei si fosser e onde venner quivi, pi tacer che ragionare onesto. Tutti color ch'a quel tempo eran ivi da poter arme tra Marte e 'l Batista, eran il quinto di quei ch'or son vivi. Ma la cittadinanza, ch' or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne l'ultimo artista. Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo e a Trespiano aver vostro confine, che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d'Aguglion, di quel da Signa, che gi per barattare ha l'occhio aguzzo! Se la gente ch'al mondo pi traligna non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, tal fatto fiorentino e cambia e merca, che si sarebbe vlto a Simifonti, l dove andava l'avolo a la cerca; sariesi Montemurlo ancor de' Conti; sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone, e forse in Valdigrieve i Buondelmonti. Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade, come del vostro il cibo che s'appone; e cieco toro pi avaccio cade che cieco agnello; e molte volte taglia pi e meglio una che le cinque spade. Se tu riguardi Luni e Orbisaglia come sono ite, e come se ne vanno di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, udir come le schiatte si disfanno non ti parr nova cosa n forte, poscia che le cittadi termine hanno. Le vostre cose tutte hanno lor morte, s come voi; ma celasi in alcuna che dura molto, e le vite son corte. E come 'l volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa, cos fa di Fiorenza la Fortuna: per che non dee parer mirabil cosa ci ch'io dir de li alti Fiorentini onde la fama nel tempo nascosa. Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, gi nel calare, illustri cittadini; e vidi cos grandi come antichi, con quel de la Sannella, quel de l'Arca, e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi. Sovra la porta ch'al presente carca di nova fellonia di tanto peso che tosto fia iattura de la barca, erano i Ravignani, ond' disceso il conte Guido e qualunque del nome de l'alto Bellincione ha poscia preso. Quel de la Pressa sapeva gi come regger si vuole, e avea Galigaio dorata in casa sua gi l'elsa e 'l pome. Grand' era gi la colonna del Vaio, Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci e Galli e quei ch'arrossan per lo staio. Lo ceppo di che nacquero i Calfucci era gi grande, e gi eran tratti a le curule Sizii e Arrigucci. Oh quali io vidi quei che son disfatti per lor superbia! e le palle de l'oro fiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti. Cos facieno i padri di coloro che, sempre che la vostra chiesa vaca, si fanno grassi stando a consistoro. L'oltracotata schiatta che s'indraca dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente o ver la borsa, com' agnel si placa, gi vena s, ma di picciola gente; s che non piacque ad Ubertin Donato che po il suocero il f lor parente. Gi era 'l Caponsacco nel mercato disceso gi da Fiesole, e gi era buon cittadino Giuda e Infangato. Io dir cosa incredibile e vera: nel picciol cerchio s'entrava per porta che si nomava da quei de la Pera. Ciascun che de la bella insegna porta del gran barone il cui nome e 'l cui pregio la festa di Tommaso riconforta, da esso ebbe milizia e privilegio; avvegna che con popol si rauni oggi colui che la fascia col fregio. Gi eran Gualterotti e Importuni; e ancor saria Borgo pi queto, se di novi vicin fosser digiuni. La casa di che nacque il vostro fleto, per lo giusto disdegno che v'ha morti e puose fine al vostro viver lieto, era onorata, essa e suoi consorti: o Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze se per li altrui conforti! Molti sarebber lieti, che son tristi, se Dio t'avesse conceduto ad Ema la prima volta ch'a citt venisti. Ma conveniesi, a quella pietra scema che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse vittima ne la sua pace postrema. Con queste genti, e con altre con esse, vid' io Fiorenza in s fatto riposo, che non avea cagione onde piangesse. Con queste genti vid' io gloroso e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio non era ad asta mai posto a ritroso, n per divison fatto vermiglio. CANTO XVII [Canto XVII, nel quale il predetto messer Cacciaguida solve l'animo de l'auttore da una paura e confortalo a fare questa opera.] Qual venne a Climen, per accertarsi di ci ch'ava incontro a s udito, quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi; tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. Per che mia donna Manda fuor la vampa del tuo disio, mi disse, s ch'ella esca segnata bene de la interna stampa: non perch nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perch t'ausi a dir la sete, s che l'uom ti mesca. O cara piota mia che s t'insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trangol due ottusi, cos vedi le cose contingenti anzi che sieno in s, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; mentre ch'io era a Virgilio congiunto su per lo monte che l'anime cura e discendendo nel mondo defunto, dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna ch'io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura; per che la voglia mia saria contenta d'intender qual fortuna mi s'appressa: ch saetta previsa vien pi lenta. Cos diss' io a quella luce stessa che pria m'avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. N per ambage, in che la gente folle gi s'inviscava pria che fosse anciso l'Agnel di Dio che le peccata tolle, ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta dipinta nel cospetto etterno; necessit per quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente gi discende. Da indi, s come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti s'apparecchia. Qual si partio Ipolito d'Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene. Questo si vuole e questo gi si cerca, e tosto verr fatto a chi ci pensa l dove Cristo tutto d si merca. La colpa seguir la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa. Tu lascerai ogne cosa diletta pi caramente; e questo quello strale che l'arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai s come sa di sale lo pane altrui, e come duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. E quel che pi ti graver le spalle, sar la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si far contr' a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n'avr rossa la tempia. Di sua bestialitate il suo processo far la prova; s ch'a te fia bello averti fatta parte per te stesso. Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello sar la cortesia del gran Lombardo che 'n su la scala porta il santo uccello; ch'in te avr s benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri pi tardo. Con lui vedrai colui che 'mpresso fue, nascendo, s da questa stella forte, che notabili fier l'opere sue. Non se ne son le genti ancora accorte per la novella et, ch pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d'argento n d'affanni. Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, s che ' suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui t'aspetta e a' suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; e portera'ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai; e disse cose incredibili a quei che fier presente. Poi giunse: Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le 'nsidie che dietro a pochi giri son nascose. Non vo' per ch'a' tuoi vicini invidie, poscia che s'infutura la tua vita vie pi l che 'l punir di lor perfidie. Poi che, tacendo, si mostr spedita l'anima santa di metter la trama in quella tela ch'io le porsi ordita, io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: Ben veggio, padre mio, s come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch' pi grave a chi pi s'abbandona; per che di provedenza buon ch'io m'armi, s che, se loco m' tolto pi caro, io non perdessi li altri per miei carmi. Gi per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che s'io ridico, a molti fia sapor di forte agrume; e s'io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico. La luce in che rideva il mio tesoro ch'io trovai l, si f prima corusca, quale a raggio di sole specchio d'oro; indi rispuose: Coscenza fusca o de la propria o de l'altrui vergogna pur sentir la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vison fa manifesta; e lascia pur grattar dov' la rogna. Ch se la voce tua sar molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascer poi, quando sar digesta. Questo tuo grido far come vento, che le pi alte cime pi percuote; e ci non fa d'onor poco argomento. Per ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l'anime che son di fama note, che l'animo di quel ch'ode, non posa n ferma fede per essempro ch'aia la sua radice incognita e ascosa, n per altro argomento che non paia. CANTO XVIII [Canto XVIII, nel quale si monta ne la stella di Giove, e narrasi come li luminari spirituali figuravano mirabilmente.] Gi si godeva solo del suo verbo quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce l'acerbo; e quella donna ch'a Dio mi menava disse: Muta pensier; pensa ch'i' sono presso a colui ch'ogne torto disgrava. Io mi rivolsi a l'amoroso suono del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui l'abbandono: non perch' io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non pu redire sovra s tanto, s'altri non la guidi. Tanto poss' io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire, fin che 'l piacere etterno, che diretto raggiava in Batrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto. Vincendo me col lume d'un sorriso, ella mi disse: Volgiti e ascolta; ch non pur ne' miei occhi paradiso. Come si vede qui alcuna volta l'affetto ne la vista, s'elli tanto, che da lui sia tutta l'anima tolta, cos nel fiammeggiar del folgr santo, a ch'io mi volsi, conobbi la voglia in lui di ragionarmi ancora alquanto. El cominci: In questa quinta soglia de l'albero che vive de la cima e frutta sempre e mai non perde foglia, spiriti son beati, che gi, prima che venissero al ciel, fuor di gran voce, s ch'ogne musa ne sarebbe opima. Per mira ne' corni de la croce: quello ch'io nomer, l far l'atto che fa in nube il suo foco veloce. Io vidi per la croce un lume tratto dal nomar Iosu, com' el si feo; n mi fu noto il dir prima che 'l fatto. E al nome de l'alto Macabeo vidi moversi un altro roteando, e letizia era ferza del paleo. Cos per Carlo Magno e per Orlando due ne segu lo mio attento sguardo, com' occhio segue suo falcon volando. Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo e 'l duca Gottifredi la mia vista per quella croce, e Ruberto Guiscardo. Indi, tra l'altre luci mota e mista, mostrommi l'alma che m'avea parlato qual era tra i cantor del cielo artista. Io mi rivolsi dal mio destro lato per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato; e vidi le sue luci tanto mere, tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e l'ultimo solere. E come, per sentir pi dilettanza bene operando, l'uom di giorno in giorno s'accorge che la sua virtute avanza, s m'accors' io che 'l mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto l'arco, veggendo quel miracol pi addorno. E qual 'l trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando 'l volto suo si discarchi di vergogna il carco, tal fu ne li occhi miei, quando fui vlto, per lo candor de la temprata stella sesta, che dentro a s m'avea ricolto. Io vidi in quella gioval facella lo sfavillar de l'amor che l era segnare a li occhi miei nostra favella. E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di s or tonda or altra schiera, s dentro ai lumi sante creature volitando cantavano, e faciensi or D, or I, or L in sue figure. Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando l'un di questi segni, un poco s'arrestavano e taciensi. O diva Pegasa che li 'ngegni fai glorosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e ' regni, illustrami di te, s ch'io rilevi le lor figure com' io l'ho concette: paia tua possa in questi versi brevi! Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai le parti s, come mi parver dette. 'DILIGITE IUSTITIAM', primai fur verbo e nome di tutto 'l dipinto; 'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai. Poscia ne l'emme del vocabol quinto rimasero ordinate; s che Giove pareva argento l d'oro distinto. E vidi scendere altre luci dove era il colmo de l'emme, e l quetarsi cantando, credo, il ben ch'a s le move. Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi surgono innumerabili faville, onde li stolti sogliono agurarsi, resurger parver quindi pi di mille luci e salir, qual assai e qual poco, s come 'l sol che l'accende sortille; e quetata ciascuna in suo loco, la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi rappresentare a quel distinto foco. Quei che dipinge l, non ha chi 'l guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta quella virt ch' forma per li nidi. L'altra batitudo, che contenta pareva prima d'ingigliarsi a l'emme, con poco moto seguit la 'mprenta. O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme! Per ch'io prego la mente in che s'inizia tuo moto e tua virtute, che rimiri ond' esce il fummo che 'l tuo raggio vizia; s ch'un'altra fata omai s'adiri del comperare e vender dentro al templo che si mur di segni e di martri. O milizia del ciel cu' io contemplo, adora per color che sono in terra tutti svati dietro al malo essemplo! Gi si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che 'l po Padre a nessun serra. Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. Ben puoi tu dire: I' ho fermo 'l disiro s a colui che volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro, ch'io non conosco il pescator n Polo. CANTO XIX [Canto XIX, nel quale li spiriti ch'erano ne la stella di Iove insieme conglutinati in forma d'aguglia, ad una voce solvono uno grande dubbio, e abominano e infamano tutti li re cristiani che regnavano ne l'anno di Cristo MCCC.] Parea dinanzi a me con l'ali aperte la bella image che nel dolce frui liete facevan l'anime conserte; parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse s acceso, che ne' miei occhi rifrangesse lui. E quel che mi convien ritrar testeso, non port voce mai, n scrisse incostro, n fu per fantasia gi mai compreso; ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, e sonar ne la voce e io e mio, quand' era nel concetto e 'noi' e 'nostro'. E cominci: Per esser giusto e pio son io qui essaltato a quella gloria che non si lascia vincere a disio; e in terra lasciai la mia memoria s fatta, che le genti l malvage commendan lei, ma non seguon la storia. Cos un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. Ond' io appresso: O perpeti fiori de l'etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, solvetemi, spirando, il gran digiuno che lungamente m'ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. Ben so io che, se 'n cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio, che 'l vostro non l'apprende con velame. Sapete come attento io m'apparecchio ad ascoltar; sapete qual quello dubbio che m' digiun cotanto vecchio. Quasi falcone ch'esce del cappello, move la testa e con l'ali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, vid' io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto, con canti quai si sa chi l s gaude. Poi cominci: Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto, non pot suo valor s fare impresso in tutto l'universo, che 'l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso. E ci fa certo che 'l primo superbo, che fu la somma d'ogne creatura, per non aspettar lume, cadde acerbo; e quinci appar ch'ogne minor natura corto recettacolo a quel bene che non ha fine e s con s misura. Dunque vostra veduta, che convene esser alcun de' raggi de la mente di che tutte le cose son ripiene, non p da sua natura esser possente tanto, che suo principio non discerna molto di l da quel che l' parvente. Per ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, com' occhio per lo mare, entro s'interna; che, ben che da la proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno li, ma cela lui l'esser profondo. Lume non , se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi tenbra od ombra de la carne o suo veleno. Assai t' mo aperta la latebra che t'ascondeva la giustizia viva, di che facei question cotanto crebra; ch tu dicevi: "Un uom nasce a la riva de l'Indo, e quivi non chi ragioni di Cristo n chi legga n chi scriva; e tutti suoi voleri e atti buoni sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. Muore non battezzato e sanza fede: ov' questa giustizia che 'l condanna? ov' la colpa sua, se ei non crede?". Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d'una spanna? Certo a colui che meco s'assottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse, da dubitar sarebbe a maraviglia. Oh terreni animali! oh menti grosse! La prima volont, ch' da s buona, da s, ch' sommo ben, mai non si mosse. Cotanto giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a s la tira, ma essa, radando, lui cagiona. Quale sovresso il nido si rigira poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, e come quel ch' pasto la rimira; cotal si fece, e s levi i cigli, la benedetta imagine, che l'ali movea sospinte da tanti consigli. Roteando cantava, e dicea: Quali son le mie note a te, che non le 'ntendi, tal il giudicio etterno a voi mortali. Poi si quetaro quei lucenti incendi de lo Spirito Santo ancor nel segno che f i Romani al mondo reverendi, esso ricominci: A questo regno non sal mai chi non credette 'n Cristo, n pria n poi ch'el si chiavasse al legno. Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo; e tai Cristian danner l'Etpe, quando si partiranno i due collegi, l'uno in etterno ricco e l'altro inpe. Che poran dir li Perse a' vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? L si vedr, tra l'opere d'Alberto, quella che tosto mover la penna, per che 'l regno di Praga fia diserto. L si vedr il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morr di colpo di cotenna. L si vedr la superbia ch'asseta, che fa lo Scotto e l'Inghilese folle, s che non pu soffrir dentro a sua meta. Vedrassi la lussuria e 'l viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme, che mai valor non conobbe n volle. Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando 'l contrario segner un emme. Vedrassi l'avarizia e la viltate di quei che guarda l'isola del foco, ove Anchise fin la lunga etate; e a dare ad intender quanto poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. E parranno a ciascun l'opere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze. E quel di Portogallo e di Norvegia l si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia. Oh beata Ungheria, se non si lascia pi malmenare! e beata Navarra, se s'armasse del monte che la fascia! E creder de' ciascun che gi, per arra di questo, Niccosa e Famagosta per la lor bestia si lamenti e garra, che dal fianco de l'altre non si scosta. CANTO XX [Canto XX, nel quale ancora suonano nel becco de l'Aquila certe parole per le quali apprende di conoscere alcuni di quelli spirti de li quali quella Aquila composta.] Quando colui che tutto 'l mondo alluma de l'emisperio nostro s discende, che 'l giorno d'ogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima s'accende, subitamente si rif parvente per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente, come 'l segno del mondo e de' suoi duci nel benedetto rostro fu tacente; per che tutte quelle vive luci, vie pi lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. O dolce amor che di riso t'ammanti, quanto parevi ardente in que' flailli, ch'avieno spirto sol di pensier santi! Poscia che i cari e lucidi lapilli ond' io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli, udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro gi di pietra in pietra, mostrando l'ubert del suo cacume. E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e s com' al pertugio de la sampogna vento che pentra, cos, rimosso d'aspettare indugio, quel mormorar de l'aguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio. Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core ov' io le scrissi. La parte in me che vede e pate il sole ne l'aguglie mortali, incominciommi, or fisamente riguardar si vole, perch d'i fuochi ond' io figura fommi, quelli onde l'occhio in testa mi scintilla, e' di tutti lor gradi son li sommi. Colui che luce in mezzo per pupilla, fu il cantor de lo Spirito Santo, che l'arca traslat di villa in villa: ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar ch' altrettanto. Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che pi al becco mi s'accosta, la vedovella consol del figlio: ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l'esperenza di questa dolce vita e de l'opposta. E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l'arco superno, morte indugi per vera penitenza: ora conosce che 'l giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco fa crastino l gi de l'oderno. L'altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che f mal frutto, per cedere al pastor si fece greco: ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li nocivo, avvegna che sia 'l mondo indi distrutto. E quel che vedi ne l'arco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo: ora conosce come s'innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora. Chi crederebbe gi nel mondo errante che Rifo Troiano in questo tondo fosse la quinta de le luci sante? Ora conosce assai di quel che 'l mondo veder non pu de la divina grazia, ben che sua vista non discerna il fondo. Quale allodetta che 'n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l'ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembi l'imago de la 'mprenta de l'etterno piacere, al cui disio ciascuna cosa qual ell' diventa. E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio l quasi vetro a lo color ch'el veste, tempo aspettar tacendo non patio, ma de la bocca, Che cose son queste?, mi pinse con la forza del suo peso: per ch'io di coruscar vidi gran feste. Poi appresso, con l'occhio pi acceso, lo benedetto segno mi rispuose per non tenermi in ammirar sospeso: Io veggio che tu credi queste cose perch' io le dico, ma non vedi come; s che, se son credute, sono ascose. Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate veder non pu se altri non la prome. Regnum celorum volenza pate da caldo amore e da viva speranza, che vince la divina volontate: non a guisa che l'omo a l'om sobranza, ma vince lei perch vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza. La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perch ne vedi la regon de li angeli dipinta. D'i corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede quel d'i passuri e quel d'i passi piedi. Ch l'una de lo 'nferno, u' non si riede gi mai a buon voler, torn a l'ossa; e ci di viva spene fu mercede: di viva spene, che mise la possa ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla, s che potesse sua voglia esser mossa. L'anima glorosa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco, credette in lui che pota aiutarla; e credendo s'accese in tanto foco di vero amor, ch'a la morte seconda fu degna di venire a questo gioco. L'altra, per grazia che da s profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l'occhio infino a la prima onda, tutto suo amor l gi pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse l'occhio a la nostra redenzion futura; ond' ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo pi del paganesmo; e riprendiene le genti perverse. Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota, dinanzi al battezzar pi d'un millesmo. O predestinazion, quanto remota la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota! E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ch noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti; ed nne dolce cos fatto scemo, perch il ben nostro in questo ben s'affina, che quel che vole Iddio, e noi volemo. Cos da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina. E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che pi di piacer lo canto acquista, s, mentre ch'e' parl, s mi ricorda ch'io vidi le due luci benedette, pur come batter d'occhi si concorda, con le parole mover le fiammette. CANTO XXI [Canto XXI, nel quale si monta ne la stella di Saturno, che il settimo pianeto; e qui comincia la settima parte, e come Pietro Dammiano solve alcune questioni.] Gi eran li occhi miei rifissi al volto de la mia donna, e l'animo con essi, e da ogne altro intento s'era tolto. E quella non ridea; ma S'io ridessi, mi cominci, tu ti faresti quale fu Semel quando di cener fessi: ch la bellezza mia, che per le scale de l'etterno palazzo pi s'accende, com' hai veduto, quanto pi si sale, se non si temperasse, tanto splende, che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende. Noi sem levati al settimo splendore, che sotto 'l petto del Leone ardente raggia mo misto gi del suo valore. Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, e fa di quelli specchi a la figura che 'n questo specchio ti sar parvente. Qual savesse qual era la pastura del viso mio ne l'aspetto beato quand' io mi trasmutai ad altra cura, conoscerebbe quanto m'era a grato ubidire a la mia celeste scorta, contrapesando l'un con l'altro lato. Dentro al cristallo che 'l vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce sotto cui giacque ogne malizia morta, di color d'oro in che raggio traluce vid' io uno scaleo eretto in suso tanto, che nol seguiva la mia luce. Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso. E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon s onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; tal modo parve me che quivi fosse in quello sfavillar che 'nsieme venne, s come in certo grado si percosse. E quel che presso pi ci si ritenne, si f s chiaro, ch'io dicea pensando: 'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne. Ma quella ond' io aspetto il come e 'l quando del dire e del tacer, si sta; ond' io, contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'. Per ch'ella, che veda il tacer mio nel veder di colui che tutto vede, mi disse: Solvi il tuo caldo disio. E io incominciai: La mia mercede non mi fa degno de la tua risposta; ma per colei che 'l chieder mi concede, vita beata che ti stai nascosta dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che s presso mi t'ha posta; e d perch si tace in questa rota la dolce sinfonia di paradiso, che gi per l'altre suona s divota. Tu hai l'udir mortal s come il viso, rispuose a me; onde qui non si canta per quel che Batrice non ha riso. Gi per li gradi de la scala santa discesi tanto sol per farti festa col dire e con la luce che mi ammanta; n pi amor mi fece esser pi presta, ch pi e tanto amor quinci s ferve, s come il fiammeggiar ti manifesta. Ma l'alta carit, che ci fa serve pronte al consiglio che 'l mondo governa, sorteggia qui s come tu osserve. Io veggio ben, diss' io, sacra lucerna, come libero amore in questa corte basta a seguir la provedenza etterna; ma questo quel ch'a cerner mi par forte, perch predestinata fosti sola a questo officio tra le tue consorte. N venni prima a l'ultima parola, che del suo mezzo fece il lume centro, girando s come veloce mola; poi rispuose l'amor che v'era dentro: Luce divina sopra me s'appunta, penetrando per questa in ch'io m'inventro, la cui virt, col mio veder congiunta, mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio la somma essenza de la quale munta. Quinci vien l'allegrezza ond' io fiammeggio; per ch'a la vista mia, quant' ella chiara, la chiarit de la fiamma pareggio. Ma quell' alma nel ciel che pi si schiara, quel serafin che 'n Dio pi l'occhio ha fisso, a la dimanda tua non satisfara, per che s s'innoltra ne lo abisso de l'etterno statuto quel che chiedi, che da ogne creata vista scisso. E al mondo mortal, quando tu riedi, questo rapporta, s che non presumma a tanto segno pi mover li piedi. La mente, che qui luce, in terra fumma; onde riguarda come pu l gie quel che non pote perch 'l ciel l'assumma. S mi prescrisser le parole sue, ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue. Tra ' due liti d'Italia surgon sassi, e non molto distanti a la tua patria, tanto che ' troni assai suonan pi bassi, e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latria. Cos ricominciommi il terzo sermo; e poi, continando, disse: Quivi al servigio di Dio mi fe' s fermo, che pur con cibi di liquor d'ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne' pensier contemplativi. Render solea quel chiostro a questi cieli fertilemente; e ora fatto vano, s che tosto convien che si riveli. In quel loco fu' io Pietro Damiano, e Pietro Peccator fu' ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano. Poca vita mortal m'era rimasa, quando fui chiesto e tratto a quel cappello, che pur di male in peggio si travasa. Venne Cefs e venne il gran vasello de lo Spirito Santo, magri e scalzi, prendendo il cibo da qualunque ostello. Or voglion quinci e quindi chi rincalzi li moderni pastori e chi li meni, tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. Cuopron d'i manti loro i palafreni, s che due bestie van sott' una pelle: oh pazenza che tanto sostieni!. A questa voce vid' io pi fiammelle di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea pi belle. Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di s alto suono, che non potrebbe qui assomigliarsi; n io lo 'ntesi, s mi vinse il tuono. CANTO XXII [Canto XXII, nel quale si tratta di quelli medesimi che nel precedente capitolo, qui sotto il titolo di Santo Maccario e di Santo Romoaldo; e infine dispitta il mondo e la sua picciolezza e le cose mondane, ripetendo e mostrando tutti li pianeti per li quali intrato; ed entra con Beatrice nel segno d'i Gemini; e qui prende l'ottava parte di questa terza cantica.] Oppresso di stupore, a la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre col dove pi si confida; e quella, come madre che soccorre sbito al figlio palido e anelo con la sua voce, che 'l suol ben disporre, mi disse: Non sai tu che tu se' in cielo? e non sai tu che 'l cielo tutto santo, e ci che ci si fa vien da buon zelo? Come t'avrebbe trasmutato il canto, e io ridendo, mo pensar lo puoi, poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, gi ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoi. La spada di qua s non taglia in fretta n tardo, ma' ch'al parer di colui che disando o temendo l'aspetta. Ma rivolgiti omai inverso altrui; ch'assai illustri spiriti vedrai, se com' io dico l'aspetto redui. Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che 'nsieme pi s'abbellivan con muti rai. Io stava come quei che 'n s repreme la punta del disio, e non s'attenta di domandar, s del troppo si teme; e la maggiore e la pi luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di s la mia voglia contenta. Poi dentro a lei udi': Se tu vedessi com' io la carit che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi. Ma perch tu, aspettando, non tarde a l'alto fine, io ti far risposta pur al pensier, da che s ti riguarde. Quel monte a cui Cassino ne la costa fu frequentato gi in su la cima da la gente ingannata e mal disposta; e quel son io che s vi portai prima lo nome di colui che 'n terra addusse la verit che tanto ci soblima; e tanta grazia sopra me relusse, ch'io ritrassi le ville circunstanti da l'empio clto che 'l mondo sedusse. Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e ' frutti santi. Qui Maccario, qui Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo. E io a lui: L'affetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri, cos m'ha dilatata mia fidanza, come 'l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant' ell' ha di possanza. Per ti priego, e tu, padre, m'accerta s'io posso prender tanta grazia, ch'io ti veggia con imagine scoverta. Ond' elli: Frate, il tuo alto disio s'adempier in su l'ultima spera, ove s'adempion tutti li altri e 'l mio. Ivi perfetta, matura e intera ciascuna disanza; in quella sola ogne parte l ove sempr' era, perch non in loco e non s'impola; e nostra scala infino ad essa varca, onde cos dal viso ti s'invola. Infin l s la vide il patriarca Iacobbe porger la superna parte, quando li apparve d'angeli s carca. Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi, e la regola mia rimasa per danno de le carte. Le mura che solieno esser badia fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria. Ma grave usura tanto non si tolle contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor de' monaci s folle; ch quantunque la Chiesa guarda, tutto de la gente che per Dio dimanda; non di parenti n d'altro pi brutto. La carne d'i mortali tanto blanda, che gi non basta buon cominciamento dal nascer de la quercia al far la ghianda. Pier cominci sanz' oro e sanz' argento, e io con orazione e con digiuno, e Francesco umilmente il suo convento; e se guardi 'l principio di ciascuno, poscia riguardi l dov' trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno. Veramente Iordan vlto retrorso pi fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui 'l soccorso. Cos mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e 'l collegio si strinse; poi, come turbo, in s tutto s'avvolse. La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, s sua virt la mia natura vinse; n mai qua gi dove si monta e cala naturalmente, fu s ratto moto ch'agguagliar si potesse a la mia ala. S'io torni mai, lettore, a quel divoto trunfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e 'l petto mi percuoto, tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant' io vidi 'l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. O glorose stelle, o lume pregno di gran virt, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s'ascondeva vosco quelli ch' padre d'ogne mortal vita, quand' io senti' di prima l'aere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita d'entrar ne l'alta rota che vi gira, la vostra regon mi fu sortita. A voi divotamente ora sospira l'anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a s la tira. Tu se' s presso a l'ultima salute, cominci Batrice, che tu dei aver le luci tue chiare e acute; e per, prima che tu pi t'inlei, rimira in gi, e vedi quanto mondo sotto li piedi gi esser ti fei; s che 'l tuo cor, quantunque pu, giocondo s'appresenti a la turba trunfante che lieta vien per questo etera tondo. Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante; e quel consiglio per migliore approbo che l'ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell' ombra che mi fu cagione per che gi la credetti rara e densa. L'aspetto del tuo nato, Iperone, quivi sostenni, e vidi com' si move circa e vicino a lui Maia e Done. Quindi m'apparve il temperar di Giove tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro il varar che fanno di lor dove; e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. L'aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom' io con li etterni Gemelli, tutta m'apparve da' colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. CANTO XXIII [Canto XXIII, dove si tratta come l'auttore vide la Beata Virgine Maria e li abitatori de la celestiale corte, de la quale mirabilemente favella in questo canto; e qui si prende la nona parte di questa terza cantica.] Come l'augello, intra l'amate fronde, posato al nido de' suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti disati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l'alba nasca; cos la donna ma stava eretta e attenta, rivolta inver' la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: s che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual quei che disando altro vorria, e sperando s'appaga. Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir pi e pi rischiarando; e Batrice disse: Ecco le schiere del trunfo di Cristo e tutto 'l frutto ricolto del girar di queste spere!. Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia s pieni, che passarmen convien sanza costrutto. Quale ne' pleniluni sereni Triva ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid' i' sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l'accendea, come fa 'l nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. Oh Batrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: Quel che ti sobranza virt da cui nulla si ripara. Quivi la sapenza e la possanza ch'apr le strade tra 'l cielo e la terra, onde fu gi s lunga disanza. Come foco di nube si diserra per dilatarsi s che non vi cape, e fuor di sua natura in gi s'atterra, la mente mia cos, tra quelle dape fatta pi grande, di s stessa usco, e che si fesse rimembrar non sape. Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente se' fatto a sostener lo riso mio. Io era come quei che si risente di visone oblita e che s'ingegna indarno di ridurlasi a la mente, quand' io udi' questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che 'l preterito rassegna. Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimna con le suore fero del latte lor dolcissimo pi pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e cos, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e l'omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott' esso trema: non pareggio da picciola barca quel che fendendo va l'ardita prora, n da nocchier ch'a s medesmo parca. Perch la faccia mia s t'innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s'infiora? Quivi la rosa in che 'l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino. Cos Beatrice; e io, che a' suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de' debili cigli. Come a raggio di sol, che puro mei per fratta nube, gi prato di fiori vider, coverti d'ombra, li occhi miei; vid' io cos pi turbe di splendori, folgorate di s da raggi ardenti, sanza veder principio di folgri. O benigna vert che s li 'mprenti, s t'essaltasti, per largirmi loco a li occhi l che non t'eran possenti. Il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l'animo ad avvisar lo maggior foco; e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che l s vince come qua gi vinse, per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. Qualunque melodia pi dolce suona qua gi e pi a s l'anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel pi chiaro s'inzaffira. Io sono amore angelico, che giro l'alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia pi la spera supprema perch l entre. Cos la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che pi ferve e pi s'avviva ne l'alito di Dio e nei costumi, avea sopra di noi l'interna riva tanto distante, che la sua parvenza, l dov' io era, ancor non appariva: per non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si lev appresso sua semenza. E come fantolin che 'nver' la mamma tende le braccia, poi che 'l latte prese, per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; ciascun di quei candori in s si stese con la sua cima, s che l'alto affetto ch'elli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser l nel mio cospetto, 'Regina celi' cantando s dolce, che mai da me non si part 'l diletto. Oh quanta l'ubert che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua gi buone bobolce! Quivi si vive e gode del tesoro che s'acquist piangendo ne lo essilio di Babilln, ove si lasci l'oro. Quivi trunfa, sotto l'alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l'antico e col novo concilio, colui che tien le chiavi di tal gloria. CANTO XXIV [Canto XXIV, dove si tratta de la nona e ultima parte di questa ultima cantica; ne la quale san Pietro Appostolo a priego di Beatrice essamina l'auttore sopra la fede cattolica.] O sodalizio eletto a la gran cena del benedetto Agnello, il qual vi ciba s, che la vostra voglia sempre piena, se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba, ponete mente a l'affezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa. Cos Beatrice; e quelle anime liete si fero spere sopra fissi poli, fiammando, volte, a guisa di comete. E come cerchi in tempra d'oruoli si giran s, che 'l primo a chi pon mente queto pare, e l'ultimo che voli; cos quelle carole, differente- mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. Di quella ch'io notai di pi carezza vid' o uscire un foco s felice, che nullo vi lasci di pi chiarezza; e tre fate intorno di Beatrice si volse con un canto tanto divo, che la mia fantasia nol mi ridice. Per salta la penna e non lo scrivo: ch l'imagine nostra a cotai pieghe, non che 'l parlare, troppo color vivo. O santa suora mia che s ne prieghe divota, per lo tuo ardente affetto da quella bella spera mi disleghe. Poscia fermato, il foco benedetto a la mia donna dirizz lo spiro, che favell cos com' i' ho detto. Ed ella: O luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasci le chiavi, ch'ei port gi, di questo gaudio miro, tenta costui di punti lievi e gravi, come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi. S'elli ama bene e bene spera e crede, non t' occulto, perch 'l viso hai quivi dov' ogne cosa dipinta si vede; ma perch questo regno ha fatto civi per la verace fede, a glorarla, di lei parlare ben ch'a lui arrivi. S come il baccialier s'arma e non parla fin che 'l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, cos m'armava io d'ogne ragione mentre ch'ella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione. D, buon Cristiano, fatti manifesto: fede che ?. Ond' io levai la fronte in quella luce onde spirava questo; poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perch' o spandessi l'acqua di fuor del mio interno fonte. La Grazia che mi d ch'io mi confessi, comincia' io, da l'alto primipilo, faccia li miei concetti bene espressi. E seguitai: Come 'l verace stilo ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo, fede sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi; e questa pare a me sua quiditate. Allora udi': Dirittamente senti, se bene intendi perch la ripuose tra le sustanze, e poi tra li argomenti. E io appresso: Le profonde cose che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di l gi son s ascose, che l'esser loro v' in sola credenza, sopra la qual si fonda l'alta spene; e per di sustanza prende intenza. E da questa credenza ci convene silogizzar, sanz' avere altra vista: per intenza d'argomento tene. Allora udi': Se quantunque s'acquista gi per dottrina, fosse cos 'nteso, non l avria loco ingegno di sofista. Cos spir di quello amore acceso; indi soggiunse: Assai bene trascorsa d'esta moneta gi la lega e 'l peso; ma dimmi se tu l'hai ne la tua borsa. Ond' io: S ho, s lucida e s tonda, che nel suo conio nulla mi s'inforsa. Appresso usc de la luce profonda che l splendeva: Questa cara gioia sopra la quale ogne virt si fonda, onde ti venne?. E io: La larga ploia de lo Spirito Santo, ch' diffusa in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia, silogismo che la m'ha conchiusa acutamente s, che 'nverso d'ella ogne dimostrazion mi pare ottusa. Io udi' poi: L'antica e la novella proposizion che cos ti conchiude, perch l'hai tu per divina favella?. E io: La prova che 'l ver mi dischiude, son l'opere seguite, a che natura non scalda ferro mai n batte incude. Risposto fummi: D, chi t'assicura che quell' opere fosser? Quel medesmo che vuol provarsi, non altri, il ti giura. Se 'l mondo si rivolse al cristianesmo, diss' io, sanza miracoli, quest' uno tal, che li altri non sono il centesmo: ch tu intrasti povero e digiuno in campo, a seminar la buona pianta che fu gi vite e ora fatta pruno. Finito questo, l'alta corte santa rison per le spere un 'Dio laudamo' ne la melode che l s si canta. E quel baron che s di ramo in ramo, essaminando, gi tratto m'avea, che a l'ultime fronde appressavamo, ricominci: La Grazia, che donnea con la tua mente, la bocca t'aperse infino a qui come aprir si dovea, s ch'io approvo ci che fuori emerse; ma or convien espremer quel che credi, e onde a la credenza tua s'offerse. O santo padre, e spirito che vedi ci che credesti s, che tu vincesti ver' lo sepulcro pi giovani piedi, comincia' io, tu vuo' ch'io manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. E io rispondo: Io credo in uno Dio solo ed etterno, che tutto 'l ciel move, non moto, con amore e con disio; e a tal creder non ho io pur prove fisice e metafisice, ma dalmi anche la verit che quinci piove per Mos, per profeti e per salmi, per l'Evangelio e per voi che scriveste poi che l'ardente Spirto vi f almi; e credo in tre persone etterne, e queste credo una essenza s una e s trina, che soffera congiunto 'sono' ed 'este'. De la profonda condizion divina ch'io tocco mo, la mente mi sigilla pi volte l'evangelica dottrina. Quest' 'l principio, quest' la favilla che si dilata in fiamma poi vivace, e come stella in cielo in me scintilla. Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando per la novella, tosto ch'el si tace; cos, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, s com' io tacqui, l'appostolico lume al cui comando io avea detto: s nel dir li piacqui! CANTO XXV [Canto XXV, che tratta come l'auttore parla con Beatrice e con santo Iacopo Maggiore sopra certe questioni de le quali santo Iacopo solve la prima.] Se mai continga che 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, s che m'ha fatto per molti anni macro, vinca la crudelt che fuor mi serra del bello ovile ov' io dormi' agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritorner poeta, e in sul fonte del mio battesmo prender 'l cappello; per che ne la fede, che fa conte l'anime a Dio, quivi intra' io, e poi Pietro per lei s mi gir la fronte. Indi si mosse un lume verso noi di quella spera ond' usc la primizia che lasci Cristo d'i vicari suoi; e la mia donna, piena di letizia, mi disse: Mira, mira: ecco il barone per cui l gi si vicita Galizia. S come quando il colombo si pone presso al compagno, l'uno a l'altro pande, girando e mormorando, l'affezione; cos vid' o l'un da l'altro grande principe gloroso essere accolto, laudando il cibo che l s li prande. Ma poi che 'l gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun s'affisse, ignito s che vinca 'l mio volto. Ridendo allora Batrice disse: Inclita vita per cui la larghezza de la nostra basilica si scrisse, fa risonar la spene in questa altezza: tu sai, che tante fiate la figuri, quante Ies ai tre f pi carezza. Leva la testa e fa che t'assicuri: ch ci che vien qua s del mortal mondo, convien ch'ai nostri raggi si maturi. Questo conforto del foco secondo mi venne; ond' io levi li occhi a' monti che li 'ncurvaron pria col troppo pondo. Poi che per grazia vuol che tu t'affronti lo nostro Imperadore, anzi la morte, ne l'aula pi secreta co' suoi conti, s che, veduto il ver di questa corte, la spene, che l gi bene innamora, in te e in altrui di ci conforte, d quel ch'ell' , d come se ne 'nfiora la mente tua, e d onde a te venne. Cos segu 'l secondo lume ancora. E quella pa che guid le penne de le mie ali a cos alto volo, a la risposta cos mi prevenne: La Chiesa militante alcun figliuolo non ha con pi speranza, com' scritto nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: per li conceduto che d'Egitto vegna in Ierusalemme per vedere, anzi che 'l militar li sia prescritto. Li altri due punti, che non per sapere son dimandati, ma perch' ei rapporti quanto questa virt t' in piacere, a lui lasc' io, ch non li saran forti n di iattanza; ed elli a ci risponda, e la grazia di Dio ci li comporti. Come discente ch'a dottor seconda pronto e libente in quel ch'elli esperto, perch la sua bont si disasconda, Spene, diss' io, Ǐ uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto. Da molte stelle mi vien questa luce; ma quei la distill nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce. 'Sperino in te', ne la sua todia dice, 'color che sanno il nome tuo': e chi nol sa, s'elli ha la fede mia? Tu mi stillasti, con lo stillar suo, ne la pistola poi; s ch'io son pieno, e in altrui vostra pioggia repluo. Mentr' io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo sbito e spesso a guisa di baleno. Indi spir: L'amore ond' o avvampo ancor ver' la virt che mi seguette infin la palma e a l'uscir del campo, vuol ch'io respiri a te che ti dilette di lei; ed emmi a grato che tu diche quello che la speranza ti 'mpromette. E io: Le nove e le scritture antiche pongon lo segno, ed esso lo mi addita, de l'anime che Dio s'ha fatte amiche. Dice Isaia che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta: e la sua terra questa dolce vita; e 'l tuo fratello assai vie pi digesta, l dove tratta de le bianche stole, questa revelazion ci manifesta. E prima, appresso al fin d'este parole, 'Sperent in te' di sopr' a noi s'ud; a che rispuoser tutte le carole. Poscia tra esse un lume si schiar s che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo, l'inverno avrebbe un mese d'un sol d. E come surge e va ed entra in ballo vergine lieta, sol per fare onore a la novizia, non per alcun fallo, cos vid' io lo schiarato splendore venire a' due che si volgieno a nota qual conveniesi al loro ardente amore. Misesi l nel canto e ne la rota; e la mia donna in lor tenea l'aspetto, pur come sposa tacita e immota. Questi colui che giacque sopra 'l petto del nostro pellicano, e questi fue di su la croce al grande officio eletto. La donna mia cos; n per pie mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue. Qual colui ch'adocchia e s'argomenta di vedere eclissar lo sole un poco, che, per veder, non vedente diventa; tal mi fec' o a quell' ultimo foco mentre che detto fu: Perch t'abbagli per veder cosa che qui non ha loco? In terra terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che 'l numero nostro con l'etterno proposito s'agguagli. Con le due stole nel beato chiostro son le due luci sole che saliro; e questo apporterai nel mondo vostro. A questa voce l'infiammato giro si quet con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro, s come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne l'acqua ripercossi, tutti si posano al sonar d'un fischio. Ahi quanto ne la mente mi commossi, quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, bench io fossi presso di lei, e nel mondo felice! CANTO XXVI [Canto XXVI, nel quale l'auttore ne conforta seguitare lo innefabile amore, e dove trova Adamo il nostro primo padre, dicente a lui il tempo de la sua felicitade e infelicitade.] Mentr' io dubbiava per lo viso spento, de la fulgida fiamma che lo spense usc un spiro che mi fece attento, dicendo: Intanto che tu ti risense de la vista che ha in me consunta, ben che ragionando la compense. Comincia dunque; e d ove s'appunta l'anima tua, e fa ragion che sia la vista in te smarrita e non defunta: perch la donna che per questa dia regon ti conduce, ha ne lo sguardo la virt ch'ebbe la man d'Anania. Io dissi: Al suo piacere e tosto e tardo vegna remedio a li occhi, che fuor porte quand' ella entr col foco ond' io sempr' ardo. Lo ben che fa contenta questa corte, Alfa e O di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte. Quella medesma voce che paura tolta m'avea del sbito abbarbaglio, di ragionare ancor mi mise in cura; e disse: Certo a pi angusto vaglio ti conviene schiarar: dicer convienti chi drizz l'arco tuo a tal berzaglio. E io: Per filosofici argomenti e per autorit che quinci scende cotale amor convien che in me si 'mprenti: ch 'l bene, in quanto ben, come s'intende, cos accende amore, e tanto maggio quanto pi di bontate in s comprende. Dunque a l'essenza ov' tanto avvantaggio, che ciascun ben che fuor di lei si trova altro non ch'un lume di suo raggio, pi che in altra convien che si mova la mente, amando, di ciascun che cerne il vero in che si fonda questa prova. Tal vero a l'intelletto mo sterne colui che mi dimostra il primo amore di tutte le sustanze sempiterne. Sternel la voce del verace autore, che dice a Mos, di s parlando: 'Io ti far vedere ogne valore'. Sternilmi tu ancora, incominciando l'alto preconio che grida l'arcano di qui l gi sovra ogne altro bando. E io udi': Per intelletto umano e per autoritadi a lui concorde d'i tuoi amori a Dio guarda il sovrano. Ma d ancor se tu senti altre corde tirarti verso lui, s che tu suone con quanti denti questo amor ti morde. Non fu latente la santa intenzione de l'aguglia di Cristo, anzi m'accorsi dove volea menar mia professione. Per ricominciai: Tutti quei morsi che posson far lo cor volgere a Dio, a la mia caritate son concorsi: ch l'essere del mondo e l'esser mio, la morte ch'el sostenne perch' io viva, e quel che spera ogne fedel com' io, con la predetta conoscenza viva, tratto m'hanno del mar de l'amor torto, e del diritto m'han posto a la riva. Le fronde onde s'infronda tutto l'orto de l'ortolano etterno, am' io cotanto quanto da lui a lor di bene porto. S com' io tacqui, un dolcissimo canto rison per lo cielo, e la mia donna dicea con li altri: Santo, santo, santo!. E come a lume acuto si disonna per lo spirto visivo che ricorre a lo splendor che va di gonna in gonna, e lo svegliato ci che vede aborre, s nesca la sbita vigilia fin che la stimativa non soccorre; cos de li occhi miei ogne quisquilia fug Beatrice col raggio d'i suoi, che rifulgea da pi di mille milia: onde mei che dinanzi vidi poi; e quasi stupefatto domandai d'un quarto lume ch'io vidi tra noi. E la mia donna: Dentro da quei rai vagheggia il suo fattor l'anima prima che la prima virt creasse mai. Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva per la propria virt che la soblima, fec' io in tanto in quant' ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ond' o ardeva. E cominciai: O pomo che maturo solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa figlia e nuro, divoto quanto posso a te supplco perch mi parli: tu vedi mia voglia, e per udirti tosto non la dico. Talvolta un animal coverto broglia, s che l'affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la 'nvoglia; e similmente l'anima primaia mi facea trasparer per la coverta quant' ella a compiacermi vena gaia. Indi spir: Sanz' essermi proferta da te, la voglia tua discerno meglio che tu qualunque cosa t' pi certa; perch' io la veggio nel verace speglio che fa di s pareglio a l'altre cose, e nulla face lui di s pareglio. Tu vuogli udir quant' che Dio mi puose ne l'eccelso giardino, ove costei a cos lunga scala ti dispuose, e quanto fu diletto a li occhi miei, e la propria cagion del gran disdegno, e l'idoma ch'usai e che fei. Or, figliuol mio, non il gustar del legno fu per s la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno. Quindi onde mosse tua donna Virgilio, quattromilia trecento e due volumi di sol desiderai questo concilio; e vidi lui tornare a tutt' i lumi de la sua strada novecento trenta fate, mentre ch'o in terra fu'mi. La lingua ch'io parlai fu tutta spenta innanzi che a l'ovra inconsummabile fosse la gente di Nembrt attenta: ch nullo effetto mai razonabile, per lo piacere uman che rinovella seguendo il cielo, sempre fu durabile. Opera naturale ch'uom favella; ma cos o cos, natura lascia poi fare a voi secondo che v'abbella. Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia, I s'appellava in terra il sommo bene onde vien la letizia che mi fascia; e El si chiam poi: e ci convene, ch l'uso d'i mortali come fronda in ramo, che sen va e altra vene. Nel monte che si leva pi da l'onda, fu' io, con vita pura e disonesta, da la prim' ora a quella che seconda, come 'l sol muta quadra, l'ora sesta. CANTO XXVII [Canto XXVII, dove tratta s come santo Pietro appostolo, proverbiando li suoi successori papi, adempie l'animo de l'auttore di questo libro.] 'Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo', cominci, 'gloria!', tutto 'l paradiso, s che m'inebrava il dolce canto. Ci ch'io vedeva mi sembiava un riso de l'universo; per che mia ebbrezza intrava per l'udire e per lo viso. Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! oh vita intgra d'amore e di pace! oh sanza brama sicura ricchezza! Dinanzi a li occhi miei le quattro face stavano accese, e quella che pria venne incominci a farsi pi vivace, e tal ne la sembianza sua divenne, qual diverrebbe Iove, s'elli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne. La provedenza, che quivi comparte vice e officio, nel beato coro silenzio posto avea da ogne parte, quand' o udi': Se io mi trascoloro, non ti maravigliar, ch, dicend' io, vedrai trascolorar tutti costoro. Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt' ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde 'l perverso che cadde di qua s, l gi si placa. Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane, vid' o allora tutto 'l ciel cosperso. E come donna onesta che permane di s sicura, e per l'altrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane, cos Beatrice trasmut sembianza; e tale eclissi credo che 'n ciel fue quando pat la supprema possanza. Poi procedetter le parole sue con voce tanto da s trasmutata, che la sembianza non si mut pie: Non fu la sposa di Cristo allevata del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, per essere ad acquisto d'oro usata; ma per acquisto d'esto viver lieto e Sisto e Po e Calisto e Urbano sparser lo sangue dopo molto fleto. Non fu nostra intenzion ch'a destra mano d'i nostri successor parte sedesse, parte da l'altra del popol cristiano; n che le chiavi che mi fuor concesse, divenisser signaculo in vessillo che contra battezzati combattesse; n ch'io fossi figura di sigillo a privilegi venduti e mendaci, ond' io sovente arrosso e disfavillo. In vesta di pastor lupi rapaci si veggion di qua s per tutti i paschi: o difesa di Dio, perch pur giaci? Del sangue nostro Caorsini e Guaschi s'apparecchian di bere: o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi! Ma l'alta provedenza, che con Scipio difese a Roma la gloria del mondo, soccorr tosto, s com' io concipio; e tu, figliuol, che per lo mortal pondo ancor gi tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch'io non ascondo. S come di vapor gelati fiocca in giuso l'aere nostro, quando 'l corno de la capra del ciel col sol si tocca, in s vid' io cos l'etera addorno farsi e fioccar di vapor trunfanti che fatto avien con noi quivi soggiorno. Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, e segu fin che 'l mezzo, per lo molto, li tolse il trapassar del pi avanti. Onde la donna, che mi vide assolto de l'attendere in s, mi disse: Adima il viso e guarda come tu se' vlto. Da l'ora ch'o avea guardato prima i' vidi mosso me per tutto l'arco che fa dal mezzo al fine il primo clima; s ch'io vedea di l da Gade il varco folle d'Ulisse, e di qua presso il lito nel qual si fece Europa dolce carco. E pi mi fora discoverto il sito di questa aiuola; ma 'l sol procedea sotto i mie' piedi un segno e pi partito. La mente innamorata, che donnea con la mia donna sempre, di ridure ad essa li occhi pi che mai ardea; e se natura o arte f pasture da pigliare occhi, per aver la mente, in carne umana o ne le sue pitture, tutte adunate, parrebber nente ver' lo piacer divin che mi refulse, quando mi volsi al suo viso ridente. E la virt che lo sguardo m'indulse, del bel nido di Leda mi divelse, e nel ciel velocissimo m'impulse. Le parti sue vivissime ed eccelse s uniforme son, ch'i' non so dire qual Batrice per loco mi scelse. Ma ella, che veda 'l mio disire, incominci, ridendo tanto lieta, che Dio parea nel suo volto gioire: La natura del mondo, che queta il mezzo e tutto l'altro intorno move, quinci comincia come da sua meta; e questo cielo non ha altro dove che la mente divina, in che s'accende l'amor che 'l volge e la virt ch'ei piove. Luce e amor d'un cerchio lui comprende, s come questo li altri; e quel precinto colui che 'l cinge solamente intende. Non suo moto per altro distinto, ma li altri son mensurati da questo, s come diece da mezzo e da quinto; e come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te pu esser manifesto. Oh cupidigia, che i mortali affonde s sotto te, che nessuno ha podere di trarre li occhi fuor de le tue onde! Ben fiorisce ne li uomini il volere; ma la pioggia contina converte in bozzacchioni le sosine vere. Fede e innocenza son reperte solo ne' parvoletti; poi ciascuna pria fugge che le guance sian coperte. Tale, balbuzendo ancor, digiuna, che poi divora, con la lingua sciolta, qualunque cibo per qualunque luna; e tal, balbuzendo, ama e ascolta la madre sua, che, con loquela intera, disa poi di vederla sepolta. Cos si fa la pelle bianca nera nel primo aspetto de la bella figlia di quel ch'apporta mane e lascia sera. Tu, perch non ti facci maraviglia, pensa che 'n terra non chi governi; onde s sva l'umana famiglia. Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma ch' l gi negletta, raggeran s questi cerchi superni, che la fortuna che tanto s'aspetta, le poppe volger u' son le prore, s che la classe correr diretta; e vero frutto verr dopo 'l fiore. CANTO XXVIII [Canto XXVIII, nel quale Beatrice distingue a l'auttore li nove ordini de li angeli gloriosi che sono nel nono cielo e il loro offizio.] Poscia che 'ncontro a la vita presente d'i miseri mortali aperse 'l vero quella che 'mparadisa la mia mente, come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se n'alluma retro, prima che l'abbia in vista o in pensiero, e s rivolge per veder se 'l vetro li dice il vero, e vede ch'el s'accorda con esso come nota con suo metro; cos la mia memoria si ricorda ch'io feci riguardando ne' belli occhi onde a pigliarmi fece Amor la corda. E com' io mi rivolsi e furon tocchi li miei da ci che pare in quel volume, quandunque nel suo giro ben s'adocchi, un punto vidi che raggiava lume acuto s, che 'l viso ch'elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume; e quale stella par quinci pi poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si collca. Forse cotanto quanto pare appresso alo cigner la luce che 'l dipigne quando 'l vapor che 'l porta pi spesso, distante intorno al punto un cerchio d'igne si girava s ratto, ch'avria vinto quel moto che pi tosto il mondo cigne; e questo era d'un altro circumcinto, e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto, dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. Sopra seguiva il settimo s sparto gi di larghezza, che 'l messo di Iuno intero a contenerlo sarebbe arto. Cos l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno pi tardo si movea, secondo ch'era in numero distante pi da l'uno; e quello avea la fiamma pi sincera cui men distava la favilla pura, credo, per che pi di lei s'invera. La donna mia, che mi veda in cura forte sospeso, disse: Da quel punto depende il cielo e tutta la natura. Mira quel cerchio che pi li congiunto; e sappi che 'l suo muovere s tosto per l'affocato amore ond' elli punto. E io a lei: Se 'l mondo fosse posto con l'ordine ch'io veggio in quelle rote, sazio m'avrebbe ci che m' proposto; ma nel mondo sensibile si puote veder le volte tanto pi divine, quant' elle son dal centro pi remote. Onde, se 'l mio disir dee aver fine in questo miro e angelico templo che solo amore e luce ha per confine, udir convienmi ancor come l'essemplo e l'essemplare non vanno d'un modo, ch io per me indarno a ci contemplo. Se li tuoi diti non sono a tal nodo sufficenti, non maraviglia: tanto, per non tentare, fatto sodo!. Cos la donna mia; poi disse: Piglia quel ch'io ti dicer, se vuo' saziarti; e intorno da esso t'assottiglia. Li cerchi corporai sono ampi e arti secondo il pi e 'l men de la virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bont vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, s'elli ha le parti igualmente compiute. Dunque costui che tutto quanto rape l'altro universo seco, corrisponde al cerchio che pi ama e che pi sape: per che, se tu a la virt circonde la tua misura, non a la parvenza de le sustanze che t'appaion tonde, tu vederai mirabil consequenza di maggio a pi e di minore a meno, in ciascun cielo, a sa intelligenza. Come rimane splendido e sereno l'emisperio de l'aere, quando soffia Borea da quella guancia ond' pi leno, per che si purga e risolve la roffia che pria turbava, s che 'l ciel ne ride con le bellezze d'ogne sua paroffia; cos fec'o, poi che mi provide la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide. E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla che bolle, come i cerchi sfavillaro. L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro pi che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. Io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene a li ubi, e terr sempre, ne' quai sempre fuoro. E quella che veda i pensier dubi ne la mia mente, disse: I cerchi primi t'hanno mostrato Serafi e Cherubi. Cos veloci seguono i suoi vimi, per somigliarsi al punto quanto ponno; e posson quanto a veder son soblimi. Quelli altri amori che 'ntorno li vonno, si chiaman Troni del divino aspetto, per che 'l primo ternaro terminonno; e dei saper che tutti hanno diletto quanto la sua veduta si profonda nel vero in che si queta ogne intelletto. Quinci si pu veder come si fonda l'esser beato ne l'atto che vede, non in quel ch'ama, che poscia seconda; e del vedere misura mercede, che grazia partorisce e buona voglia: cos di grado in grado si procede. L'altro ternaro, che cos germoglia in questa primavera sempiterna che notturno Arete non dispoglia, perpetalemente 'Osanna' sberna con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde s'interna. In essa gerarcia son l'altre dee: prima Dominazioni, e poi Virtudi; l'ordine terzo di Podestadi e. Poscia ne' due penultimi tripudi Principati e Arcangeli si girano; l'ultimo tutto d'Angelici ludi. Questi ordini di s tutti s'ammirano, e di gi vincon s, che verso Dio tutti tirati sono e tutti tirano. E Donisio con tanto disio a contemplar questi ordini si mise, che li nom e distinse com' io. Ma Gregorio da lui poi si divise; onde, s tosto come li occhi aperse in questo ciel, di s medesmo rise. E se tanto secreto ver proferse mortale in terra, non voglio ch'ammiri: ch chi 'l vide qua s gliel discoperse con altro assai del ver di questi giri. CANTO XXIX [Canto XXIX, ove si tratta de la superbia e cacciamento de li rei e malvagi angeli e de la dilezione e gloria de' buoni; e infine si riprende tutti coloro che predicando si partono dal santo Evangelio e dicono favole; e contiencisi in questo canto certe declaragioni di certe oscuritadi del celestiale regno.] Quando ambedue li figli di Latona, coperti del Montone e de la Libra, fanno de l'orizzonte insieme zona, quant' dal punto che 'l cent inlibra infin che l'uno e l'altro da quel cinto, cambiando l'emisperio, si dilibra, tanto, col volto di riso dipinto, si tacque Batrice, riguardando fiso nel punto che m'ava vinto. Poi cominci: Io dico, e non dimando, quel che tu vuoli udir, perch' io l'ho visto l 've s'appunta ogne ubi e ogne quando. Non per aver a s di bene acquisto, ch'esser non pu, ma perch suo splendore potesse, risplendendo, dir "Subsisto", in sua etternit di tempo fore, fuor d'ogne altro comprender, come i piacque, s'aperse in nuovi amor l'etterno amore. N prima quasi torpente si giacque; ch n prima n poscia procedette lo discorrer di Dio sovra quest' acque. Forma e materia, congiunte e purette, usciro ad esser che non avia fallo, come d'arco tricordo tre saette. E come in vetro, in ambra o in cristallo raggio resplende s, che dal venire a l'esser tutto non intervallo, cos 'l triforme effetto del suo sire ne l'esser suo raggi insieme tutto sanza distinzone in essordire. Concreato fu ordine e costrutto a le sustanze; e quelle furon cima nel mondo in che puro atto fu produtto; pura potenza tenne la parte ima; nel mezzo strinse potenza con atto tal vime, che gi mai non si divima. Ieronimo vi scrisse lungo tratto di secoli de li angeli creati anzi che l'altro mondo fosse fatto; ma questo vero scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo, e tu te n'avvedrai se bene agguati; e anche la ragione il vede alquanto, che non concederebbe che ' motori sanza sua perfezion fosser cotanto. Or sai tu dove e quando questi amori furon creati e come: s che spenti nel tuo diso gi son tre ardori. N giugneriesi, numerando, al venti s tosto, come de li angeli parte turb il suggetto d'i vostri alimenti. L'altra rimase, e cominci quest' arte che tu discerni, con tanto diletto, che mai da circir non si diparte. Principio del cader fu il maladetto superbir di colui che tu vedesti da tutti i pesi del mondo costretto. Quelli che vedi qui furon modesti a riconoscer s da la bontate che li avea fatti a tanto intender presti: per che le viste lor furo essaltate con grazia illuminante e con lor merto, s c'hanno ferma e piena volontate; e non voglio che dubbi, ma sia certo, che ricever la grazia meritorio secondo che l'affetto l' aperto. Omai dintorno a questo consistorio puoi contemplare assai, se le parole mie son ricolte, sanz' altro aiutorio. Ma perch 'n terra per le vostre scole si legge che l'angelica natura tal, che 'ntende e si ricorda e vole, ancor dir, perch tu veggi pura la verit che l gi si confonde, equivocando in s fatta lettura. Queste sustanze, poi che fur gioconde de la faccia di Dio, non volser viso da essa, da cui nulla si nasconde: per non hanno vedere interciso da novo obietto, e per non bisogna rememorar per concetto diviso; s che l gi, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero; ma ne l'uno pi colpa e pi vergogna. Voi non andate gi per un sentiero filosofando: tanto vi trasporta l'amor de l'apparenza e 'l suo pensiero! E ancor questo qua s si comporta con men disdegno che quando posposta la divina Scrittura o quando torta. Non vi si pensa quanto sangue costa seminarla nel mondo e quanto piace chi umilmente con essa s'accosta. Per apparer ciascun s'ingegna e face sue invenzioni; e quelle son trascorse da' predicanti e 'l Vangelio si tace. Un dice che la luna si ritorse ne la passion di Cristo e s'interpuose, per che 'l lume del sol gi non si porse; e mente, ch la luce si nascose da s: per a li Spani e a l'Indi come a' Giudei tale eclissi rispuose. Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi quante s fatte favole per anno in pergamo si gridan quinci e quindi: s che le pecorelle, che non sanno, tornan del pasco pasciute di vento, e non le scusa non veder lo danno. Non disse Cristo al suo primo convento: 'Andate, e predicate al mondo ciance'; ma diede lor verace fondamento; e quel tanto son ne le sue guance, s ch'a pugnar per accender la fede de l'Evangelio fero scudo e lance. Ora si va con motti e con iscede a predicare, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio e pi non si richiede. Ma tale uccel nel becchetto s'annida, che se 'l vulgo il vedesse, vederebbe la perdonanza di ch'el si confida: per cui tanta stoltezza in terra crebbe, che, sanza prova d'alcun testimonio, ad ogne promession si correrebbe. Di questo ingrassa il porco sant' Antonio, e altri assai che sono ancor pi porci, pagando di moneta sanza conio. Ma perch siam digressi assai, ritorci li occhi oramai verso la dritta strada, s che la via col tempo si raccorci. Questa natura s oltre s'ingrada in numero, che mai non fu loquela n concetto mortal che tanto vada; e se tu guardi quel che si revela per Danel, vedrai che 'n sue migliaia determinato numero si cela. La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe, quanti son li splendori a chi s'appaia. Onde, per che a l'atto che concepe segue l'affetto, d'amar la dolcezza diversamente in essa ferve e tepe. Vedi l'eccelso omai e la larghezza de l'etterno valor, poscia che tanti speculi fatti s'ha in che si spezza, uno manendo in s come davanti. CANTO XXX [Canto XXX, ove narra come l'auttore vidde per conducimento di Beatrice li splendori de la divinit e le seggie de l'anime de li uomini, tra le quali vide gi collocata quella de lo imperadore Arrigo di Lunzimborgo con la sua corona.] Forse semilia miglia di lontano ci ferve l'ora sesta, e questo mondo china gi l'ombra quasi al letto piano, quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch'alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol pi oltre, cos 'l ciel si chiude di vista in vista infino a la pi bella. Non altrimenti il trunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Batrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch'io vidi si trasmoda non pur di l da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo pi che gi mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: ch, come sole in viso che pi trema, cos lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m' il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista pi dietro a sua bellezza, poetando, come a l'ultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io la lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l'arda sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominci: Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch' pura luce: luce intellettal, piena d'amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai l'una e l'altra milizia di paradiso, e l'una in quelli aspetti che tu vedrai a l'ultima giustizia. Come sbito lampo che discetti li spiriti visivi, s che priva da l'atto l'occhio di pi forti obietti, cos mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m'appariva. Sempre l'amor che queta questo cielo accoglie in s con s fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo. Non fur pi tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch'io compresi me sormontar di sopr' a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d'ogne parte si mettien ne' fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebrate da li odori, riprofondavan s nel miro gurge, e s'una intrava, un'altra n'uscia fori. L'alto disio che mo t'infiamma e urge, d'aver notizia di ci che tu vei, tanto mi piace pi quanto pi turge; ma di quest' acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi: cos mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: Il fiume e li topazi ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da s sian queste cose acerbe; ma difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe. Non fantin che s sbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l'usanza sua, come fec' io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l'onda che si deriva perch vi s'immegli; e s come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, cos mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sa in che disparve, cos mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, s ch'io vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cu' io vidi l'alto trunfo del regno verace, dammi virt a dir com' o il vidi! Lume l s che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. E' si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando nel verde e ne' fioretti opimo, s, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in pi di mille soglie quanto di noi l s fatto ha ritorno. E se l'infimo grado in s raccoglie s grande lume, quanta la larghezza di questa rosa ne l'estreme foglie! La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e 'l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, l, n pon n leva: ch dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual colui che tace e dicer vole, mi trasse Batrice, e disse: Mira quanto 'l convento de le bianche stole! Vedi nostra citt quant' ella gira; vedi li nostri scanni s ripieni, che poca gente pi ci si disira. E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che gi v' s posta, prima che tu a queste nozze ceni, seder l'alma, che fia gi agosta, de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia verr in prima ch'ella sia disposta. La cieca cupidigia che v'ammalia simili fatti v'ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non ander con lui per un cammino. Ma poco poi sar da Dio sofferto nel santo officio; ch'el sar detruso l dove Simon mago per suo merto, e far quel d'Alagna intrar pi giuso. CANTO XXXI [Canto XXXI, il quale tratta come l'auttore fue lasciato da Beatrice e trov Santo Bernardo, per lo cui conducimento rivide Beatrice ne la sua gloria; poi pone una orazione che Dante fece a Beatrice che pregasse per lui lo nostro Segnore Iddio e la nostra Donna sua Madre; e come vide la Divina Maest.] In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma l'altra, che volando vede e canta la gloria di colui che la 'nnamora e la bont che la fece cotanta, s come schiera d'ape che s'infiora una fata e una si ritorna l dove suo laboro s'insapora, nel gran fior discendeva che s'addorna di tante foglie, e quindi risaliva l dove 'l so amor sempre soggiorna. Le facce tutte avean di fiamma viva e l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva. Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de l'ardore ch'elli acquistavan ventilando il fianco. N l'interporsi tra 'l disopra e 'l fiore di tanta moltitudine volante impediva la vista e lo splendore: ch la luce divina penetrante per l'universo secondo ch' degno, s che nulla le puote essere ostante. Questo sicuro e gaudoso regno, frequente in gente antica e in novella, viso e amore avea tutto ad un segno. Oh trina luce che 'n unica stella scintillando a lor vista, s li appaga! guarda qua giuso a la nostra procella! Se i barbari, venendo da tal plaga che ciascun giorno d'Elice si cuopra, rotante col suo figlio ond' ella vaga, veggendo Roma e l'arda sua opra, stupefaciensi, quando Laterano a le cose mortali and di sopra; o, che al divino da l'umano, a l'etterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano, di che stupor dovea esser compiuto! Certo tra esso e 'l gaudio mi facea libito non udire e starmi muto. E quasi peregrin che si ricrea nel tempio del suo voto riguardando, e spera gi ridir com' ello stea, su per la viva luce passeggiando, menava o li occhi per li gradi, mo s, mo gi e mo recirculando. Veda visi a carit sadi, d'altrui lume fregiati e di suo riso, e atti ornati di tutte onestadi. La forma general di paradiso gi tutta mo sguardo avea compresa, in nulla parte ancor fermato fiso; e volgeami con voglia raccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intenda, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti glorose. Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene. E Ov' ella?, sbito diss' io. Ond' elli: A terminar lo tuo disiro mosse Beatrice me del loco mio; e se riguardi s nel terzo giro dal sommo grado, tu la rivedrai nel trono che suoi merti le sortiro. Sanza risponder, li occhi s levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da s li etterni rai. Da quella regon che pi s tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare pi gi s'abbandona, quanto l da Beatrice la mia vista; ma nulla mi facea, ch sa effige non discenda a me per mezzo mista. O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant' i' ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. Tu m'hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt' i modi che di ci fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, s che l'anima mia, che fatt' hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi. Cos orai; e quella, s lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si torn a l'etterna fontana. E 'l santo sene: Acci che tu assommi perfettamente, disse, il tuo cammino, a che priego e amor santo mandommi, vola con li occhi per questo giardino; ch veder lui t'acconcer lo sguardo pi al montar per lo raggio divino. E la regina del cielo, ond' o ardo tutto d'amor, ne far ogne grazia, per ch'i' sono il suo fedel Bernardo. Qual colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l'antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: 'Segnor mio Ies Cristo, Dio verace, or fu s fatta la sembianza vostra?'; tal era io mirando la vivace carit di colui che 'n questo mondo, contemplando, gust di quella pace. Figliuol di grazia, quest' esser giocondo, cominci elli, non ti sar noto, tenendo li occhi pur qua gi al fondo; ma guarda i cerchi infino al pi remoto, tanto che veggi seder la regina cui questo regno suddito e devoto. Io levai li occhi; e come da mattina la parte orental de l'orizzonte soverchia quella dove 'l sol declina, cos, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta l'altra fronte. E come quivi ove s'aspetta il temo che mal guid Fetonte, pi s'infiamma, e quinci e quindi il lume si fa scemo, cos quella pacifica oriafiamma nel mezzo s'avvivava, e d'ogne parte per igual modo allentava la fiamma; e a quel mezzo, con le penne sparte, vid' io pi di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e d'arte. Vidi a lor giochi quivi e a lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi; e s'io avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia. Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei, che ' miei di rimirar f pi ardenti. CANTO XXXII [Canto XXXII, ove tratta come santo Bernardo mostr a Dante ordinatamente li luoghi de' beati del Vecchio e del Nuovo Testamento; e come a la voce de l'Arcangelo Gabriello laudavano nostra Madonna, cio la Virgine Maria.] Affetto al suo piacer, quel contemplante libero officio di dottore assunse, e cominci queste parole sante: La piaga che Maria richiuse e unse, quella ch' tanto bella da' suoi piedi colei che l'aperse e che la punse. Ne l'ordine che fanno i terzi sedi, siede Rachel di sotto da costei con Batrice, s come tu vedi. Sarra e Rebecca, Iudt e colei che fu bisava al cantor che per doglia del fallo disse 'Miserere mei', puoi tu veder cos di soglia in soglia gi digradar, com' io ch'a proprio nome vo per la rosa gi di foglia in foglia. E dal settimo grado in gi, s come infino ad esso, succedono Ebree, dirimendo del fior tutte le chiome; perch, secondo lo sguardo che fe la fede in Cristo, queste sono il muro a che si parton le sacre scalee. Da questa parte onde 'l fiore maturo di tutte le sue foglie, sono assisi quei che credettero in Cristo venturo; da l'altra parte onde sono intercisi di vti i semicirculi, si stanno quei ch'a Cristo venuto ebber li visi. E come quinci il gloroso scanno de la donna del cielo e li altri scanni di sotto lui cotanta cerna fanno, cos di contra quel del gran Giovanni, che sempre santo 'l diserto e 'l martiro sofferse, e poi l'inferno da due anni; e sotto lui cos cerner sortiro Francesco, Benedetto e Augustino e altri fin qua gi di giro in giro. Or mira l'alto proveder divino: ch l'uno e l'altro aspetto de la fede igualmente empier questo giardino. E sappi che dal grado in gi che fiede a mezzo il tratto le due discrezioni, per nullo proprio merito si siede, ma per l'altrui, con certe condizioni: ch tutti questi son spiriti asciolti prima ch'avesser vere elezoni. Ben te ne puoi accorger per li volti e anche per le voci perili, se tu li guardi bene e se li ascolti. Or dubbi tu e dubitando sili; ma io discioglier 'l forte legame in che ti stringon li pensier sottili. Dentro a l'ampiezza di questo reame casal punto non puote aver sito, se non come tristizia o sete o fame: ch per etterna legge stabilito quantunque vedi, s che giustamente ci si risponde da l'anello al dito; e per questa festinata gente a vera vita non sine causa intra s qui pi e meno eccellente. Lo rege per cui questo regno pausa in tanto amore e in tanto diletto, che nulla volont di pi ausa, le menti tutte nel suo lieto aspetto creando, a suo piacer di grazia dota diversamente; e qui basti l'effetto. E ci espresso e chiaro vi si nota ne la Scrittura santa in quei gemelli che ne la madre ebber l'ira commota. Per, secondo il color d'i capelli, di cotal grazia l'altissimo lume degnamente convien che s'incappelli. Dunque, sanza merc di lor costume, locati son per gradi differenti, sol differendo nel primiero acume. Bastavasi ne' secoli recenti con l'innocenza, per aver salute, solamente la fede d'i parenti; poi che le prime etadi fuor compiute, convenne ai maschi a l'innocenti penne per circuncidere acquistar virtute; ma poi che 'l tempo de la grazia venne, sanza battesmo perfetto di Cristo tale innocenza l gi si ritenne. Riguarda omai ne la faccia che a Cristo pi si somiglia, ch la sua chiarezza sola ti pu disporre a veder Cristo. Io vidi sopra lei tanta allegrezza piover, portata ne le menti sante create a trasvolar per quella altezza, che quantunque io avea visto davante, di tanta ammirazion non mi sospese, n mi mostr di Dio tanto sembiante; e quello amor che primo l discese, cantando 'Ave, Maria, grata plena', dinanzi a lei le sue ali distese. Rispuose a la divina cantilena da tutte parti la beata corte, s ch'ogne vista sen f pi serena. O santo padre, che per me comporte l'esser qua gi, lasciando il dolce loco nel qual tu siedi per etterna sorte, qual quell' angel che con tanto gioco guarda ne li occhi la nostra regina, innamorato s che par di foco?. Cos ricorsi ancora a la dottrina di colui ch'abbelliva di Maria, come del sole stella mattutina. Ed elli a me: Baldezza e leggiadria quant' esser puote in angelo e in alma, tutta in lui; e s volem che sia, perch' elli quelli che port la palma giuso a Maria, quando 'l Figliuol di Dio carcar si volse de la nostra salma. Ma vieni omai con li occhi s com' io andr parlando, e nota i gran patrici di questo imperio giustissimo e pio. Quei due che seggon l s pi felici per esser propinquissimi ad Agusta, son d'esta rosa quasi due radici: colui che da sinistra le s'aggiusta il padre per lo cui ardito gusto l'umana specie tanto amaro gusta; dal destro vedi quel padre vetusto di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi raccomand di questo fior venusto. E quei che vide tutti i tempi gravi, pria che morisse, de la bella sposa che s'acquist con la lancia e coi clavi, siede lungh' esso, e lungo l'altro posa quel duca sotto cui visse di manna la gente ingrata, mobile e retrosa. Di contr' a Pietro vedi sedere Anna, tanto contenta di mirar sua figlia, che non move occhio per cantare osanna; e contro al maggior padre di famiglia siede Lucia, che mosse la tua donna quando chinavi, a rovinar, le ciglia. Ma perch 'l tempo fugge che t'assonna, qui farem punto, come buon sartore che com' elli ha del panno fa la gonna; e drizzeremo li occhi al primo amore, s che, guardando verso lui, pentri quant' possibil per lo suo fulgore. Veramente, ne forse tu t'arretri movendo l'ali tue, credendo oltrarti, orando grazia conven che s'impetri grazia da quella che puote aiutarti; e tu mi seguirai con l'affezione, s che dal dicer mio lo cor non parti. E cominci questa santa orazione: CANTO XXXIII [Canto XXXIII, il quale l'ultimo de la terza cantica e ultima; nel quale canto santo Bernardo in figura de l'auttore fa una orazione a la Vergine Maria, pregandola che s e la Divina Maestade si lasci vedere visibilemente.] Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta pi che creatura, termine fisso d'etterno consiglio, tu se' colei che l'umana natura nobilitasti s, che 'l suo fattore non disdegn di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l'amore, per lo cui caldo ne l'etterna pace cos germinato questo fiore. Qui se' a noi meridana face di caritate, e giuso, intra ' mortali, se' di speranza fontana vivace. Donna, se' tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disanza vuol volar sanz' ali. La tua benignit non pur soccorre a chi domanda, ma molte fate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s'aduna quantunque in creatura di bontate. Or questi, che da l'infima lacuna de l'universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi pi alto verso l'ultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi pi ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perch tu ogne nube li disleghi di sua mortalit co' prieghi tuoi, s che 'l sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ci che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!. Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l'orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l'etterno lume s'addrizzaro, nel qual non si dee creder che s'invii per creatura l'occhio tanto chiaro. E io ch'al fine di tutt' i disii appropinquava, s com' io dovea, l'ardor del desiderio in me finii. Bernardo m'accennava, e sorridea, perch' io guardassi suso; ma io era gi per me stesso tal qual ei volea: ch la mia vista, venendo sincera, e pi e pi intrava per lo raggio de l'alta luce che da s vera. Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. Qual coli che sognando vede, che dopo 'l sogno la passione impressa rimane, e l'altro a la mente non riede, cotal son io, ch quasi tutta cessa mia visone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Cos la neve al sol si disigilla; cos al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti levi da' concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch'una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; ch, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, pi si conceper di tua vittoria. Io credo, per l'acume ch'io soffersi del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. E' mi ricorda ch'io fui pi ardito per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi l'aspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ond' io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s'interna, legato con amore in un volume, ci che per l'universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ci ch'i' dico un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo ch'i' vidi, perch pi di largo, dicendo questo, mi sento ch'i' godo. Un punto solo m' maggior letargo che venticinque secoli a la 'mpresa che f Nettuno ammirar l'ombra d'Argo. Cos la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto impossibil che mai si consenta; per che 'l ben, ch' del volere obietto, tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella defettivo ci ch' l perfetto. Omai sar pi corta mia favella, pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. Non perch pi ch'un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch'io mirava, che tal sempre qual s'era davante; ma per la vista che s'avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom' io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de l'alto lume parvermi tre giri di tre colori e d'una contenenza; e l'un da l'altro come iri da iri parea reflesso, e 'l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi, tanto, che non basta a dicer 'poco'. O luce etterna che sola in te sidi, sola t'intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che s concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da s, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che 'l mio viso in lei tutto era messo. Qual 'l geomtra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond' elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova; ma non eran da ci le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l'alta fantasia qui manc possa; ma gi volgeva il mio disio e 'l velle, s come rota ch'igualmente mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle. [Explicit Liber Comedie Dantis Alagherii de Florentia] INDIETRO