LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI Incipit Comoedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus. La Divina Commedia di Dante Alighieri INFERNO Inferno: Canto I Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che' la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era e` cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant'e` amara che poco e` piu` morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, diro` de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. Io non so ben ridir com'i' v'intrai, tant'era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch'i' fui al pie` d'un colle giunto, la` dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto, guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite gia` de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta. E come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago a la riva si volge a l'acqua perigliosa e guata, cosi` l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lascio` gia` mai persona viva. Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, si` che 'l pie` fermo sempre era 'l piu` basso. Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar piu` volte volto. Temp'era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n su` con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino mosse di prima quelle cose belle; si` ch'a bene sperar m'era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non si` che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone. Questi parea che contra me venisse con la test'alta e con rabbiosa fame, si` che parea che l'aere ne tremesse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fe' gia` viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza. E qual e` quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva la` dove 'l sol tace. Mentre ch'i' rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, <>, gridai a lui, <>. Rispuosemi: <>. <>, rispuos'io lui con vergognosa fronte. <>. <>, rispuose poi che lagrimar mi vide, <>. E io a lui: <>. Allor si mosse, e io li tenni dietro. Inferno: Canto II Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno m'apparecchiava a sostener la guerra si` del cammino e si` de la pietate, che ritrarra` la mente che non erra. O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; o mente che scrivesti cio` ch'io vidi, qui si parra` la tua nobilitate. Io cominciai: <>. E qual e` quei che disvuol cio` che volle e per novi pensier cangia proposta, si` che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec'io 'n quella oscura costa, perche', pensando, consumai la 'mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta. <>, rispuose del magnanimo quell'ombra; <>. Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec'io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch'i' cominciai come persona franca: <>. Cosi` li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro. Inferno: Canto III Per me si va ne la citta` dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate". Queste parole di colore oscuro vid'io scritte al sommo d'una porta; per ch'io: <>. Ed elli a me, come persona accorta: <>. E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose. Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle, per ch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira. E io ch'avea d'error la testa cinta, dissi: <>. Ed elli a me: <>. E io: <>. Rispuose: <>. E io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta, che d'ogne posa mi parea indegna; e dietro le venia si` lunga tratta di gente, ch'i' non averei creduto che morte tanta n'avesse disfatta. Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d'i cattivi, a Dio spiacenti e a' nemici sui. Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch'eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a' lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto. E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, vidi genti a la riva d'un gran fiume; per ch'io dissi: <>. Ed elli a me: <>. Allor con li occhi vergognosi e bassi, temendo no 'l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi. Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: <>. Ma poi che vide ch'io non mi partiva, disse: <>. E 'l duca lui: <>. Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier de la livida palude, che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude, cangiar colore e dibattero i denti, ratto che 'nteser le parole crude. Bestemmiavano Dio e lor parenti, l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti. Poi si ritrasser tutte quante insieme, forte piangendo, a la riva malvagia ch'attende ciascun uom che Dio non teme. Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s'adagia. Come d'autunno si levan le foglie l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similemente il mal seme d'Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo. Cosi` sen vanno su per l'onda bruna, e avanti che sien di la` discese, anche di qua nuova schiera s'auna. <>, disse 'l maestro cortese, <>. Finito questo, la buia campagna tremo` si` forte, che de lo spavento la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento, che baleno` una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l'uom cui sonno piglia. Inferno: Canto IV Ruppemi l'alto sonno ne la testa un greve truono, si` ch'io mi riscossi come persona ch'e` per forza desta; e l'occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dov'io fossi. Vero e` che 'n su la proda mi trovai de la valle d'abisso dolorosa che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa. <>, comincio` il poeta tutto smorto. <>. E io, che del color mi fui accorto, dissi: <>. Ed elli a me: <>. Cosi` si mise e cosi` mi fe' intrare nel primo cerchio che l'abisso cigne. Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri, che l'aura etterna facevan tremare; cio` avvenia di duol sanza martiri ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, d'infanti e di femmine e di viri. Lo buon maestro a me: <>. Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, pero` che gente di molto valore conobbi che 'n quel limbo eran sospesi. <>, comincia' io per voler esser certo di quella fede che vince ogne errore: <>. E quei che 'ntese il mio parlar coverto, rispuose: <>. Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi, ma passavam la selva tuttavia, la selva, dico, di spiriti spessi. Non era lunga ancor la nostra via di qua dal sonno, quand'io vidi un foco ch'emisperio di tenebre vincia. Di lungi n'eravamo ancora un poco, ma non si` ch'io non discernessi in parte ch'orrevol gente possedea quel loco. <>. E quelli a me: <>. Intanto voce fu per me udita: <>. Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand'ombre a noi venire: sembianz'avevan ne' trista ne' lieta. Lo buon maestro comincio` a dire: <>. Cosi` vid'i' adunar la bella scola di quel segnor de l'altissimo canto che sovra li altri com'aquila vola. Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, e 'l mio maestro sorrise di tanto; e piu` d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' si` mi fecer de la loro schiera, si` ch'io fui sesto tra cotanto senno. Cosi` andammo infino a la lumera, parlando cose che 'l tacere e` bello, si` com'era 'l parlar cola` dov'era. Venimmo al pie` d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura, difeso intorno d'un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi, di grande autorita` ne' lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci cosi` da l'un de' canti, in loco aperto, luminoso e alto, si` che veder si potien tutti quanti. Cola` diritto, sovra 'l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso m'essalto. I' vidi Eletra con molti compagni, tra ' quai conobbi Ettor ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni. Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l'altra parte, vidi 'l re Latino che con Lavina sua figlia sedea. Vidi quel Bruto che caccio` Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; e solo, in parte, vidi 'l Saladino. Poi ch'innalzai un poco piu` le ciglia, vidi 'l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia. Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid'io Socrate e Platone, che 'nnanzi a li altri piu` presso li stanno; Democrito, che 'l mondo a caso pone, Diogenes, Anassagora e Tale, Empedocles, Eraclito e Zenone; e vidi il buono accoglitor del quale, Diascoride dico; e vidi Orfeo, Tulio e Lino e Seneca morale; Euclide geometra e Tolomeo, Ipocrate, Avicenna e Galieno, Averois, che 'l gran comento feo. Io non posso ritrar di tutti a pieno, pero` che si` mi caccia il lungo tema, che molte volte al fatto il dir vien meno. La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l'aura che trema. E vegno in parte ove non e` che luca. Inferno: Canto V Cosi` discesi del cerchio primaio giu` nel secondo, che men loco cinghia, e tanto piu` dolor, che punge a guaio. Stavvi Minos orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno e` da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giu` sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giu` volte. <>, disse Minos a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, <>. E 'l duca mio a lui: <>. Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto la` dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti e` combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtu` divina. Intesi ch'a cosi` fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, cosi` quel fiato li spiriti mali di qua, di la`, di giu`, di su` li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di se' lunga riga, cosi` vid'io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: <>. <>, mi disse quelli allotta, <>; e piu` di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, pieta` mi giunse, e fui quasi smarrito. I' cominciai: <>. Ed elli a me: <>. Si` tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: <>. Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov'e` Dido, a noi venendo per l'aere maligno, si` forte fu l'affettuoso grido. <>. Queste parole da lor ci fuor porte. Quand'io intesi quell'anime offense, china' il viso e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: <>. Quando rispuosi, cominciai: <>. Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: <>. E quella a me: <>. Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangea; si` che di pietade io venni men cosi` com'io morisse. E caddi come corpo morto cade. Inferno: Canto VI Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pieta` d'i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch'io mi mova e ch'io mi volga, e come che io guati. Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualita` mai non l'e` nova. Grandine grossa, acqua tinta e neve per l'aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve. Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi e` sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e 'l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra. Urlar li fa la pioggia come cani; de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani. Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gitto` dentro a le bramose canne. Qual e` quel cane ch'abbaiando agogna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, che' solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime si`, ch'esser vorrebber sorde. Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanita` che par persona. Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si levo`, ratto ch'ella ci vide passarsi davante. <>, mi disse, <>. E io a lui: <>. Ed elli a me: <>. E piu` non fe' parola. Io li rispuosi: <>. E quelli a me: <>. Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: <>. E quelli: <>. Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco, e poi chino` la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. E 'l duca disse a me: <>. Si` trapassammo per sozza mistura de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura; per ch'io dissi: <>. Ed elli a me: <>. Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando piu` assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada: quivi trovammo Pluto, il gran nemico. Inferno: Canto VII <>, comincio` Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: <>. Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: <>. Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele. Cosi` scendemmo ne la quarta lacca pigliando piu` de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant'io viddi? e perche' nostra colpa si` ne scipa? Come fa l'onda la` sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, cosi` convien che qui la gente riddi. Qui vid'i' gente piu` ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand'urli, voltando pesi per forza di poppa. Percoteansi 'ncontro; e poscia pur li` si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: <> e <>. Cosi` tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand'era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto, dissi: <>. Ed elli a me: <>. E io: <>. Ed elli a me: <>. <>, diss'io, <>. E quelli a me: <>. Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr'una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva. L'acqua era buia assai piu` che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giu` per una via diversa. In la palude va c'ha nome Stige questo tristo ruscel, quand'e` disceso al pie` de le maligne piagge grige. E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: <>. Cosi` girammo de la lorda pozza grand'arco tra la ripa secca e 'l mezzo, con li occhi volti a chi del fango ingozza. Venimmo al pie` d'una torre al da sezzo. Inferno: Canto VIII Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al pie` de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre e un'altra da lungi render cenno tanto ch'a pena il potea l'occhio torre. E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: <>. Ed elli a me: <>. Corda non pinse mai da se' saetta che si` corresse via per l'aere snella, com'io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto, che gridava: <>. <>, disse lo mio segnore <>. Qual e` colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegias ne l'ira accolta. Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand'io fui dentro parve carca. Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora de l'acqua piu` che non suol con altrui. Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: <>. E io a lui: <>. Rispuose: <>. E io a lui: <>. Allor distese al legno ambo le mani; per che 'l maestro accorto lo sospinse, dicendo: <>. Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi 'l volto, e disse: <>. E io: <>. Ed elli a me: <>. Dopo cio` poco vid'io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: <>; e 'l fiorentino spirito bizzarro in se' medesmo si volvea co' denti. Quivi il lasciammo, che piu` non ne narro; ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, per ch'io avante l'occhio intento sbarro. Lo buon maestro disse: <>. E io: <>. Ed ei mi disse: <>. Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte <>, grido`: <>. Io vidi piu` di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: <>. E 'l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno, e disser: <>. Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, che' non credetti ritornarci mai. <>, diss'io, <>. E quel segnor che li` m'avea menato, mi disse: <>. Cosi` sen va, e quivi m'abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che si` e no nel capo mi tenciona. Udir non potti quello ch'a lor porse; ma ei non stette la` con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase, e rivolsesi a me con passi rari. Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: <>. E a me disse: <>. Inferno: Canto IX Quel color che vilta` di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, piu` tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermo` com'uom ch'ascolta; che' l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta. <>, comincio` el, <>. I' vidi ben si` com'ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perch'io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. <>. Questa question fec'io; e quei <>, mi rispuose, <>. E altro disse, ma non l'ho a mente; pero` che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, <>, mi disse, <>; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme, e gridavan si` alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto. <>, dicevan tutte riguardando in giuso; <>. <>. Cosi` disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani. E gia` venia su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetuoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz'alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. Gli occhi mi sciolse e disse: <>. Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid'io piu` di mille anime distrutte fuggir cosi` dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell'aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell'angoscia parea lasso. Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fe' segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta, e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno. <>, comincio` elli in su l'orribil soglia, <>. Poi si rivolse per la strada lorda, e non fe' motto a noi, ma fe' sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li e` davante; e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante. Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com'io fui dentro, l'occhio intorno invio; e veggio ad ogne man grande campagna piena di duolo e di tormento rio. Si` come ad Arli, ove Rodano stagna, si` com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt'il loco varo, cosi` facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era piu` amaro; che' tra gli avelli fiamme erano sparte, per le quali eran si` del tutto accesi, che ferro piu` non chiede verun'arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan si` duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi. E io: <>. Ed elli a me: <>. E poi ch'a la man destra si fu volto, passammo tra i martiri e li alti spaldi. Inferno: Canto X Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martiri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. <>, cominciai, <>. E quelli a me: <>. E io: <>. <>. Subitamente questo suono uscio d'una de l'arche; pero` m'accostai, temendo, un poco piu` al duca mio. Ed el mi disse: <>. Io avea gia` il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: <>. Com'io al pie` de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimando`: <>. Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; ond'ei levo` le ciglia un poco in suso; poi disse: <>. <>, rispuos'io lui, <>. Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guardo`, come talento avesse di veder s'altri era meco; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: <>. E io a lui: <>. Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui gia` letto il nome; pero` fu la risposta cosi` piena. Di subito drizzato grido`: <>. Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e piu` non parve fora. Ma quell'altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non muto` aspetto, ne' mosse collo, ne' piego` sua costa: e se' continuando al primo detto, <>, disse, <>. Ond'io a lui: <>. Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, <>, disse, <>. <>, prega' io lui, <>. <>, disse, <>. Allor, come di mia colpa compunto, dissi: <>. E gia` 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto piu` avaccio che mi dicesse chi con lu' istava. Dissemi: <>. Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, cosi` andando, mi disse: <>. E io li sodisfeci al suo dimando. <>, mi comando` quel saggio. <>, e drizzo` 'l dito: <>. Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin la` su` facea spiacer suo lezzo. Inferno: Canto XI In su l'estremita` d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio venimmo sopra piu` crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta che dicea: "Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta". <>. Cosi` 'l maestro; e io <>, dissi lui, <>. Ed elli: <>. <>, comincio` poi a dir, <>. E io: <>. Ed elli a me <>, disse <>. <>, diss'io, <>. <>, mi disse, <>. Inferno: Canto XII Era lo loco ov'a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva. Qual e` quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano e` si` la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi su` fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamia di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, se' stesso morse, si` come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui grido`: <>. Qual e` quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto gia` 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e la` saltella, vid'io lo Minotauro far cotale; e quello accorto grido`: <>. Cosi` prendemmo via giu` per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: <>. Oh cieca cupidigia e ira folle, che si` ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi si` mal c'immolle! Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l pie` de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l'un grido` da lungi: <>. Lo mio maestro disse: <>. Poi mi tento`, e disse: <>. Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chiron prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: <>. E 'l mio buon duca, che gia` li er'al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: <>. Chiron si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: <>. Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: <>. Allor mi volsi al poeta, e quei disse: <>. Poco piu` oltre il centauro s'affisse sovr'una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: <>. Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb'io. Cosi` a piu` a piu` si facea basso quel sangue, si` che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. <>, disse 'l centauro, <>. Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo. Inferno: Canto XIII Non era ancor di la` Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tosco: non han si` aspri sterpi ne' si` folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi colti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, pie` con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E 'l buon maestro <>, mi comincio` a dire, <>. Io sentia d'ogne parte trarre guai, e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai. Cred'io ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi da gente che per noi si nascondesse. Pero` disse 'l maestro: <>. Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo grido`: <>. Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricomincio` a dir: <>. Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de'capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, si` de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme. <>, rispuose 'l savio mio, <>. E 'l tronco: <>. Un poco attese, e poi <>, disse 'l poeta a me, <>. Ond'io a lui: <>. Percio` ricomincio`: <>. Allor soffio` il tronco forte, e poi si converti` quel vento in cotal voce: <>. Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo si` forte, che de la selva rompieno ogni rosta. Quel dinanzi: <>. E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: <>. E poi che forse li fallia la lena, di se' e d'un cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiatto` miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea, per le rotture sanguinenti in vano. <>, dicea, <>. Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse <>. Ed elli a noi: <>. Inferno: Canto XIV Poi che la carita` del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte, e rende'le a colui, ch'era gia` fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. La dolorosa selva l'e` ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei che fu da' pie` di Caton gia` soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge cio` che fu manifesto a li occhi miei! D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente. Quella che giva intorno era piu` molta, e quella men che giacea al tormento, ma piu` al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d'India vide sopra 'l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, accio` che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da se' l'arsura fresca. I' cominciai: <>. E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, grido`: <>. Allora il duca mio parlo` di forza tanto, ch'i' non l'avea si` forte udito: <>. Poi si rivolse a me con miglior labbia dicendo: <>. Tacendo divenimmo la` 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giu` sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. <>. Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avea il disio. <>, diss'elli allora, <>. E io a lui: <>. Ed elli a me: <>. E io ancor: <>. <>, rispuose; <>. Poi disse: <>. Inferno: Canto XV Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, si` che dal foco salva l'acqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa, fanno lo schermo perche' 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che ne' si` alti ne' si` grossi, qual che si fosse, lo maestro felli. Gia` eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, perch'io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venian lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e si` ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. Cosi` adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e grido`: <>. E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, si` che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza sua al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: <>. E quelli: <>. I' dissi lui: <>. <>, disse, <>. I' non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada. El comincio`: <>. <>, rispuos'io lui, <>. Ed elli a me: <>. <>, rispuos'io lui, <>. Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: <>. Ne' per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni piu` noti e piu` sommi. Ed elli a me: <>. Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. Inferno: Canto XVI Gia` era in loco onde s'udia 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro. Venian ver noi, e ciascuna gridava: <>. Ahime`, che piaghe vidi ne' lor membri ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver me, e: <>, disse <>. Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di se' tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, cosi` rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, si` che 'n contraro il collo faceva ai pie` continuo viaggio. E <>, comincio` l'uno <>. S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avria sofferto; ma perch'io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: <>. <>, rispuose quelli ancora, <>. <>. Cosi` gridai con la faccia levata; e i tre, che cio` inteser per risposta, guardar l'un l'altro com'al ver si guata. <>, rispuoser tutti <>. Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria potuto dirsi tosto cosi` com'e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era si` vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giu` nel basso letto, e a Forli` di quel nome e` vacante, rimbomba la` sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; cosi`, giu` d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell'acqua tinta, si` che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, si` come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ond'ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gitto` giuso in quell'alto burrato. 'E' pur convien che novita` risponda' dicea fra me medesmo 'al novo cenno che 'l maestro con l'occhio si` seconda'. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: <>. Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, pero` che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedia, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vote, ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, si` come torna colui che va giuso talora a solver l'ancora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare e` chiuso, che 'n su` si stende, e da pie` si rattrappa. Inferno: Canto XVII <>. Si` comincio` lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivo` la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con piu` color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari ne' Turchi, ne' fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come la` tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, cosi` la fiera pessima si stava su l'orlo ch'e` di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in su` la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: <>. Pero` scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco piu` oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro <>, mi disse, <>. Cosi` ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; e` di qua, di la` soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col pie`, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca piu` che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: <>. Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l piu` star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito gia` su la groppa del fiero animale, e disse a me: <>. Qual e` colui che si` presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha gia` l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fe' le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; si` volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: <>. Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, si` quindi si tolse; e poi ch'al tutto si senti` a gioco, la` 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a se' raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandono` li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; ne' quando Icaro misero le reni senti` spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui <>, che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia gia` da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giu` la testa sporgo. Allor fu' io piu` timido a lo stoscio, pero` ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, che' nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'e` stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere <>, discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; cosi` ne puose al fondo Gerione al pie` al pie` de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguo` come da corda cocca. Inferno: Canto XVIII Luogo e` in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicero` l'ordigno. Quel cinghio che rimane adunque e` tondo tra 'l pozzo e 'l pie` de l'alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura piu` e piu` fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli, cosi` da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. In questo luogo, de la schiena scossi di Gerion, trovammoci; e 'l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, di la` con noi, ma con passi maggiori, come i Roman per l'essercito molto, l'anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l'un lato tutti hanno la fronte verso 'l castello e vanno a Santo Pietro; da l'altra sponda vanno verso 'l monte. Di qua, di la`, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro. Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! gia` nessuno le seconde aspettava ne' le terze. Mentr'io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io si` tosto dissi: <>. Per ch'io a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette, e assentio ch'alquanto in dietro gissi. E quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse, ch'io dissi: <>. Ed elli a me: <>. Cosi` parlando il percosse un demonio de la sua scuriada, e disse: <>. I' mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo la` 'v'uno scoglio de la ripa uscia. Assai leggeramente quel salimmo; e volti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo. Quando noi fummo la` dov'el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: <>. Del vecchio ponte guardavam la traccia che venia verso noi da l'altra banda, e che la ferza similmente scaccia. E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: <>. Gia` eravam la` 've lo stretto calle con l'argine secondo s'incrocicchia, e fa di quello ad un altr'arco spalle. Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, e se' medesma con le palme picchia. Le ripe eran grommate d'una muffa, per l'alito di giu` che vi s'appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa. Lo fondo e` cupo si`, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l'arco, ove lo scoglio piu` sovrasta. Quivi venimmo; e quindi giu` nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso. E mentre ch'io la` giu` con l'occhio cerco, vidi un col capo si` di merda lordo, che non parea s'era laico o cherco. Quei mi sgrido`: <>. E io a lui: <>. Ed elli allor, battendosi la zucca: <>. Appresso cio` lo duca <>, mi disse <>. Inferno: Canto XIX O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, pero` che ne la terza bolgia state. Gia` eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. O somma sapienza, quanta e` l'arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtu` comparte! Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fori, d'un largo tutti e ciascun era tondo. Non mi parean men ampi ne' maggiori che que' che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori; l'un de li quali, ancor non e` molt'anni, rupp'io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni. Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d'un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l'altro dentro stava. Le piante erano a tutti accese intrambe; per che si` forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe. Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era li` dai calcagni a le punte. <>, diss'io, <>. Ed elli a me: <>. E io: <>. Allor venimmo in su l'argine quarto: volgemmo e discendemmo a mano stanca la` giu` nel fondo foracchiato e arto. Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, si` mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca. <>, comincia' io a dir, <>. Io stava come 'l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch'e` fitto, richiama lui, per che la morte cessa. Ed el grido`: <>. Tal mi fec'io, quai son color che stanno, per non intender cio` ch'e` lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. Allor Virgilio disse: <>; e io rispuosi come a me fu imposto. Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: <>. Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: <>. E mentr'io li cantava cotai note, o ira o coscienza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote. I' credo ben ch'al mio duca piacesse, con si` contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. Pero` con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, rimonto` per la via onde discese. Ne' si stanco` d'avermi a se' distretto, si` men porto` sovra 'l colmo de l'arco che dal quarto al quinto argine e` tragetto. Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco. Indi un altro vallon mi fu scoperto. Inferno: Canto XX Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon ch'e` d'i sommersi. Io era gia` disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo, che si bagnava d'angoscioso pianto; e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo. Come 'l viso mi scese in lor piu` basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso; che' da le reni era tornato 'l volto, e in dietro venir li convenia, perche' 'l veder dinanzi era lor tolto. Forse per forza gia` di parlasia si travolse cosi` alcun del tutto; ma io nol vidi, ne' credo che sia. Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com'io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra imagine di presso vidi si` torta, che 'l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso. Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi del duro scoglio, si` che la mia scorta mi disse: <>. E io: <>. Allor mi disse: <>. Si` mi parlava, e andavamo introcque. Inferno: Canto XXI Cosi` di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedia cantar non cura, venimmo; e tenavamo il colmo, quando restammo per veder l'altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura. Quale ne l'arzana` de' Viniziani bolle l'inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani, che' navicar non ponno - in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che piu` viaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -; tal, non per foco, ma per divin'arte, bollia la` giuso una pegola spessa, che 'nviscava la ripa d'ogne parte. I' vedea lei, ma non vedea in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa. Mentr'io la` giu` fisamente mirava, lo duca mio, dicendo <>, mi trasse a se' del loco dov'io stava. Allor mi volsi come l'uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura subita sgagliarda, che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire. Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero! e quanto mi parea ne l'atto acerbo, con l'ali aperte e sovra i pie` leggero! L'omero suo, ch'era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' pie` ghermito 'l nerbo. Del nostro ponte disse: <>. La` giu` 'l butto`, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo. Quel s'attuffo`, e torno` su` convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: <>. Poi l'addentar con piu` di cento raffi, disser: <>. Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perche' non galli. Lo buon maestro <>, mi disse, <>. Poscia passo` di la` dal co del ponte; e com'el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte. Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello che di subito chiede ove s'arresta, usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt'i runcigli; ma el grido`: <>. Tutti gridaron: <>; per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -, e venne a lui dicendo: <>. <>, disse 'l mio maestro, <>. Allor li fu l'orgoglio si` caduto, ch'e' si lascio` cascar l'uncino a' piedi, e disse a li altri: <>. E 'l duca mio a me: <>. Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, si` ch'io temetti ch'ei tenesser patto; cosi` vid'io gia` temer li fanti ch'uscivan patteggiati di Caprona, veggendo se' tra nemici cotanti. I' m'accostai con tutta la persona lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch'era non buona. Ei chinavan li raffi e <>, diceva l'un con l'altro, <>. E rispondien: <>. Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto, e disse: <>. Poi disse a noi: <>. <>, comincio` elli a dire, <>. <>, diss'io, <>. Ed elli a me: <>. Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. Inferno: Canto XXII Io vidi gia` cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane; ne' gia` con si` diversa cennamella cavalier vidi muover ne' pedoni, ne' nave a segno di terra o di stella. Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni. Pur a la pegola era la mia 'ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch'entro v'era incesa. Come i dalfini, quando fanno segno a' marinar con l'arco de la schiena, che s'argomentin di campar lor legno, talor cosi`, ad alleggiar la pena, mostrav'alcun de' peccatori il dosso e nascondea in men che non balena. E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, si` che celano i piedi e l'altro grosso, si` stavan d'ogne parte i peccatori; ma come s'appressava Barbariccia, cosi` si ritraen sotto i bollori. I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, uno aspettar cosi`, com'elli 'ncontra ch'una rana rimane e l'altra spiccia; e Graffiacan, che li era piu` di contra, li arrunciglio` le 'mpegolate chiome e trassel su`, che mi parve una lontra. I' sapea gia` di tutti quanti 'l nome, si` li notai quando fuorono eletti, e poi ch'e' si chiamaro, attesi come. <>, gridavan tutti insieme i maladetti. E io: <>. Lo duca mio li s'accosto` allato; domandollo ond'ei fosse, e quei rispuose: <>. E Ciriatto, a cui di bocca uscia d'ogne parte una sanna come a porco, li fe' sentir come l'una sdruscia. Tra male gatte era venuto 'l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia, e disse: <>. E al maestro mio volse la faccia: <>, disse, <>. Lo duca dunque: <>. E quelli: <>. E Libicocco <>, disse; e preseli 'l braccio col runciglio, si` che, stracciando, ne porto` un lacerto. Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde 'l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio. Quand'elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch'ancor mirava sua ferita, domando` 'l duca mio sanza dimoro: <>. Ed ei rispuose: <>. E 'l gran proposto, volto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: <>. <>, ricomincio` lo spaurato appresso <>. Cagnazzo a cotal motto levo` 'l muso, crollando 'l capo, e disse: <>. Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: <>. Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: <>. O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l'altra costa li occhi volse; quel prima, ch'a cio` fare era piu` crudo. Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermo` le piante a terra, e in un punto salto` e dal proposto lor si sciolse. Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei piu` che cagion fu del difetto; pero` si mosse e grido`: <>. Ma poco i valse: che' l'ali al sospetto non potero avanzar: quelli ando` sotto, e quei drizzo` volando suso il petto: non altrimenti l'anitra di botto, quando 'l falcon s'appressa, giu` s'attuffa, ed ei ritorna su` crucciato e rotto. Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; e come 'l barattier fu disparito, cosi` volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito. Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno. Lo caldo sghermitor subito fue; ma pero` di levarsi era neente, si` avieno inviscate l'ali sue. Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fe' volar da l'altra costa con tutt'i raffi, e assai prestamente di qua, di la` discesero a la posta; porser li uncini verso li 'mpaniati, ch'eran gia` cotti dentro da la crosta; e noi lasciammo lor cosi` 'mpacciati. Inferno: Canto XXIII Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via. Volt'era in su la favola d'Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov'el parlo` de la rana e del topo; che' piu` non si pareggia 'mo' e 'issa' che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia principio e fine con la mente fissa. E come l'un pensier de l'altro scoppia, cosi` nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fe' doppia. Io pensava cosi`: 'Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa si` fatta, ch'assai credo che lor noi. Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro piu` crudeli che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa'. Gia` mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand'io dissi: <>. E quei: <>. Gia` non compie' di tal consiglio rendere, ch'io li vidi venir con l'ali tese non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di subito mi prese, come la madre ch'al romore e` desta e vede presso a se' le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s'arresta, avendo piu` di lui che di se' cura, tanto che solo una camiscia vesta; e giu` dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l'un de' lati a l'altra bolgia tura. Non corse mai si` tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand'ella piu` verso le pale approccia, come 'l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra 'l suo petto, come suo figlio, non come compagno. A pena fuoro i pie` suoi giunti al letto del fondo giu`, ch'e' furon in sul colle sovresso noi; ma non li` era sospetto; che' l'alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs'indi a tutti tolle. La` giu` trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugni` per li monaci fassi. Di fuor dorate son, si` ch'elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia. Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca venia si` pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d'anca. Per ch'io al duca mio: <>. E un che 'ntese la parola tosca, di retro a noi grido`: <>. Onde 'l duca si volse e disse: <>. Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l'animo, col viso, d'esser meco; ma tardavali 'l carco e la via stretta. Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in se', e dicean seco: <>. Poi disser me: <>. E io a loro: <>. E l'un rispuose a me: <>. Io cominciai: <>; ma piu` non dissi, ch'a l'occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali. Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e 'l frate Catalan, ch'a cio` s'accorse, mi disse: <>. Allor vid'io maravigliar Virgilio sovra colui ch'era disteso in croce tanto vilmente ne l'etterno essilio. Poscia drizzo` al frate cotal voce: <>. Rispuose adunque: <>. Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: <>. E 'l frate: <>. Appresso il duca a gran passi sen gi`, turbato un poco d'ira nel sembiante; ond'io da li 'ncarcati mi parti' dietro a le poste de le care piante. Inferno: Canto XXIV In quella parte del giovanetto anno che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e gia` le notti al mezzo di` sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e la` si lagna, come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro, e fuor le pecorelle a pascer caccia. Cosi` mi fece sbigottir lo mastro quand'io li vidi si` turbar la fronte, e cosi` tosto al mal giunse lo 'mpiastro; che', come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a pie` del monte. Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio. E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, cosi`, levando me su` ver la cima d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: <>. Non era via da vestito di cappa, che' noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam su` montar di chiappa in chiappa. E se non fosse che da quel precinto piu` che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto. Ma perche' Malebolge inver' la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende. La lena m'era del polmon si` munta quand'io fui su`, ch'i' non potea piu` oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta. <>, disse 'l maestro; <>. Leva'mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia; e dissi: <>. Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto piu` assai che quel di pria. Parlando andava per non parer fievole; onde una voce usci` de l'altro fosso, a parole formar disconvenevole. Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco gia` che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso. Io era volto in giu`, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: <>. <>, disse, <>. Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di si` diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa. Piu` non si vanti Libia con sua rena; che' se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, ne' tante pestilenzie ne' si` ree mostro` gia` mai con tutta l'Etiopia ne' con cio` che di sopra al Mar Rosso ee. Tra questa cruda e tristissima copia correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avvento` un serpente che 'l trafisse la` dove 'l collo a le spalle s'annoda. Ne' O si` tosto mai ne' I si scrisse, com'el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra si` distrutto, la polver si raccolse per se' stessa, e 'n quel medesmo ritorno` di butto. Cosi` per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba ne' biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce. E qual e` quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira, o d'altra oppilazion che lega l'omo, quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era il peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant'e` severa, che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domando` poi chi ello era; per ch'ei rispuose: <>. E io al duca: <>. E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzo` verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse; poi disse: <>. Inferno: Canto XXV Al fine de le sue parole il ladro le mani alzo` con amendue le fiche, gridando: <>. Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch'una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che piu` diche'; e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo se' stessa si` dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, che' non stanzi d'incenerarti si` che piu` non duri, poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giu` da' muri. El si fuggi` che non parlo` piu` verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: <>. Maremma non cred'io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia. Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa. Lo mio maestro disse: <>. Mentre che si` parlava, ed el trascorse e tre spiriti venner sotto noi, de' quali ne' io ne' 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: <>; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi. Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette, dicendo: <>; per ch'io, accio` che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso. Se tu se' or, lettore, a creder lento cio` ch'io diro`, non sara` maraviglia, che' io che 'l vidi, a pena il mi consento. Com'io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei pie` si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia. Co' pie` di mezzo li avvinse la pancia, e con li anterior le braccia prese; poi li addento` e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue, e dietro per le ren su` la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber si`, come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchio` le sue. Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, ne' l'un ne' l'altro gia` parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non e` nero ancora e 'l bianco more. Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: <>. Gia` eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov'eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei di` canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, si` pareva, venendo verso l'epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima e` preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto 'l miro`, ma nulla disse; anzi, co' pie` fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse. Elli 'l serpente, e quei lui riguardava; l'un per la piaga, e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava. Taccia Lucano ormai la` dove tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca. Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio; che' se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio; che' due nature mai a fronte a fronte non trasmuto` si` ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, e il feruto ristrinse insieme l'orme. Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar si`, che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva la`, e la sua pelle si facea molle, e quella di la` dura. Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due pie` de la fiera, ch'eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li pie` di retro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela, e 'l misero del suo n'avea due porti. Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si levo` e l'altro cadde giuso, non torcendo pero` le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in la` venne uscir li orecchi de le gote scempie; cio` che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fe' naso a la faccia e le labbra ingrosso` quanto convenne. Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch'avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l'altro: <>. Cosi` vid'io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novita` se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni. Inferno: Canto XXVI Godi, Fiorenza, poi che se' si` grande, che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna. E se gia` fosse, non saria per tempo. Cosi` foss'ei, da che pur esser dee! che' piu` mi gravera`, com'piu` m'attempo. Noi ci partimmo, e su per le scalee che n'avea fatto iborni a scender pria, rimonto` 'l duca mio e trasse mee; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo pie` sanza la man non si spedia. Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a cio` ch'io vidi, e piu` lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perche' non corra che virtu` nol guidi; si` che, se stella bona o miglior cosa m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede alla zanzara, vede lucciole giu` per la vallea, forse cola` dov'e' vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, si` com'io m'accorsi tosto che fui la` 've 'l fondo parea. E qual colui che si vengio` con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea si` con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, si` come nuvoletta, in su` salire: tal si move ciascuna per la gola del fosso, che' nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. Io stava sovra 'l ponte a veder surto, si` che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giu` sanz'esser urto. E 'l duca che mi vide tanto atteso, disse: <>. <>, rispuos'io, <>. Rispuose a me: <>. <>, diss'io, <>. Ed elli a me: <>. Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: <>. Lo maggior corno de la fiamma antica comincio` a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e la` menando, come fosse la lingua che parlasse, gitto` voce di fuori, e disse: <>. Inferno: Canto XXVII Gia` era dritta in su` la fiamma e queta per non dir piu`, e gia` da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, quand'un'altra, che dietro a lei venia, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia. Come 'l bue cicilian che mugghio` prima col pianto di colui, e cio` fu dritto, che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, si` che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; cosi`, per non aver via ne' forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertian le parole grame. Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: <>. Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tento` di costa, dicendo: <>. E io, ch'avea gia` pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: <>. Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse di qua, di la`, e poi die` cotal fiato: <>. Quand'elli ebbe 'l suo dir cosi` compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo 'l corno aguto. Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr'arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco. Inferno: Canto XXVIII Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar piu` volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c'hanno a tanto comprender poco seno. S'el s'aunasse ancor tutta la gente che gia` in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l'anella fe' si` alte spoglie, come Livio scrive, che non erra, con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie a Ceperan, la` dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e la` da Tagliacozzo, dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo. Gia` veggia, per mezzul perdere o lulla, com'io vidi un, cosi` non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi, e con le man s'aperse il petto, dicendo: <>. <>, rispuose 'l mio maestro <>. Piu` fuor di cento che, quando l'udiro, s'arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia obliando il martiro. <>. Poi che l'un pie` per girsene sospese, Maometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese. Un altro, che forata avea la gola e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch'una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri apri` la canna, ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia, e disse: <>. E io a lui: <>. Allor puose la mano a la mascella d'un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: <>. Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curio, ch'a dir fu cosi` ardito! E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca, si` che 'l sangue facea la faccia sozza, grido`: <>. E io li aggiunsi: <>; per ch'elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta. Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa, ch'io avrei paura, sanza piu` prova, di contarla solo; se non che coscienza m'assicura, la buona compagnia che l'uom francheggia sotto l'asbergo del sentirsi pura. Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, un busto sanza capo andar si` come andavan li altri de la trista greggia; e 'l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna; e quel mirava noi e dicea: <>. Di se' facea a se' stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due: com'esser puo`, quei sa che si` governa. Quando diritto al pie` del ponte fue, levo` 'l braccio alto con tutta la testa, per appressarne le parole sue, che fuoro: <>. Inferno: Canto XXIX La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie si` inebriate, che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: <>. <>, rispuos'io appresso, <>. Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, gia` faccendo la risposta, e soggiugnendo: <>. Allor disse 'l maestro: <>. <>, diss'io, <>. Cosi` parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se piu` lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, si` che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di pieta` ferrati avean li strali; ond'io li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali, di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista piu` viva giu` ver lo fondo, la 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere si` pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. Io vidi due sedere a se' poggiati, com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al pie` di schianze macolati; e non vidi gia` mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, ne' a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra se' per la gran rabbia del pizzicor, che non ha piu` soccorso; e si` traevan giu` l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d'altro pesce che piu` larghe l'abbia. <>, comincio` 'l duca mio a l'un di loro, <>. <>, rispuose l'un piangendo; <>. E 'l duca disse: <>. Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: <>; e io incominciai, poscia ch'ei volse: <>. <>, rispuose l'un, <>. E io dissi al poeta: <>. Onde l'altro lebbroso, che m'intese, rispuose al detto mio: <>. Inferno: Canto XXX Nel tempo che Iunone era crucciata per Semele` contra 'l sangue tebano, come mostro` una e altra fiata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, grido`: <>; e poi distese i dispietati artigli, prendendo l'un ch'avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s'annego` con l'altro carco. E quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva, si` che 'nsieme col regno il re fu casso, Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latro` si` come cane; tanto il dolor le fe' la mente torta. Ma ne' di Tebe furie ne' troiane si vider mai in alcun tanto crude, non punger bestie, nonche' membra umane, quant'io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che 'l porco quando del porcil si schiude. L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l'assanno`, si` che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo. E l'Aretin che rimase, tremando mi disse: <>. <>, diss'io lui, <>. Ed elli a me: <>. E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati. Io vidi un, fatto a guisa di leuto, pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto. La grave idropesi`, che si` dispaia le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia, facea lui tener le labbra aperte come l'etico fa, che per la sete l'un verso 'l mento e l'altro in su` rinverte. <>, diss'elli a noi, <>. E io a lui: <>. <>, rispuose, <>. E l'un di lor, che si reco` a noia forse d'esser nomato si` oscuro, col pugno li percosse l'epa croia. Quella sono` come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: <>. Ond'ei rispuose: <>. E l'idropico: <>. <>, disse Sinon; <>. <>, rispuose quel ch'avea infiata l'epa; <>. <>, disse 'l Greco, <>. Allora il monetier: <>. Ad ascoltarli er'io del tutto fisso, quando 'l maestro mi disse: <>. Quand'io 'l senti' a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch'ancor per la memoria mi si gira. Qual e` colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, si` che quel ch'e`, come non fosse, agogna, tal mi fec'io, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. <>, disse 'l maestro, <>. Inferno: Canto XXXI Una medesma lingua pria mi morse, si` che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; cosi` od'io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. Quiv'era men che notte e men che giorno, si` che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra se' la sua via seguitando, dirizzo` li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perde' la santa gesta, non sono` si` terribilmente Orlando. Poco portai in la` volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond'io: <>. Ed elli a me: <>. Poi caramente mi prese per mano, e disse: <>. Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura cio` che cela 'l vapor che l'aere stipa, cosi` forando l'aura grossa e scura, piu` e piu` appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura; pero` che come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, cosi` la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona. E io scorgeva gia` d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giu` ambo le braccia. Natura certo, quando lascio` l'arte di si` fatti animali, assai fe' bene per torre tali essecutori a Marte. E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, piu` giusta e piu` discreta la ne tene; che' dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi puo` far la gente. La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa; si` che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in giu`, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison s'averien dato mal vanto; pero` ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in giu` dov'omo affibbia 'l manto. <>, comincio` a gridar la fiera bocca, cui non si convenia piu` dolci salmi. E 'l duca mio ver lui: <>. Poi disse a me: <>. Facemmo adunque piu` lungo viaggio, volti a sinistra; e al trar d'un balestro, trovammo l'altro assai piu` fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in giu`, si` che 'n su lo scoperto si ravvolgea infino al giro quinto. <>, disse 'l mio duca, <>. E io a lui: <>. Ond'ei rispuose: <>. Non fu tremoto gia` tanto rubesto, che scotesse una torre cosi` forte, come Fialte a scuotersi fu presto. Allor temett'io piu` che mai la morte, e non v'era mestier piu` che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo piu` avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta. <>. Cosi` disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond'Ercule senti` gia` grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: <>; poi fece si` ch'un fascio era elli e io. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa si`, ched ella incontro penda; tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposo`; ne' si` chinato, li` fece dimora, e come albero in nave si levo`. Inferno: Canto XXXII S'io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco piu` pienamente; ma perch'io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; che' non e` impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, ne' da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe, si` che dal fatto il dir non sia diverso. Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare e` duro, mei foste state qui pecore o zebe! Come noi fummo giu` nel pozzo scuro sotto i pie` del gigante assai piu` bassi, e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi'mi: <>. Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante. Non fece al corso suo si` grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, ne' Tanai la` sotto 'l freddo cielo, com'era quivi; che se Tambernicchi vi fosse su` caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi. E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana; livide, insin la` dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna. Ognuna in giu` tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia. Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a' piedi, e vidi due si` stretti, che 'l pel del capo avieno insieme misto. <>, diss'io, <>. E quei piegaro i colli; e poi ch'ebber li visi a me eretti, li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli. Con legno legno spranga mai non cinse forte cosi`; ond'ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse. E un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giue, disse: <>. Poscia vid'io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verra` sempre, de' gelati guazzi. E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l'etterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi 'l pie` nel viso ad una. Piangendo mi sgrido`: <>. E io: <>. Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: <>. <>, rispuose, <>. <>, fu mia risposta, <>. Ed elli a me: <>. Allor lo presi per la cuticagna, e dissi: <>. Ond'elli a me: <>. Io avea gia` i capelli in mano avvolti, e tratto glien'avea piu` d'una ciocca, latrando lui con li occhi in giu` raccolti, quando un altro grido`: <>. <>, diss'io, <>. <>, rispuose, <>. Noi eravam partiti gia` da ello, ch'io vidi due ghiacciati in una buca, si` che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, cosi` 'l sovran li denti a l'altro pose la` 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose. <>, diss'io, <>. Inferno: Canto XXXIII La bocca sollevo` dal fiero pasto quel peccator, forbendola a'capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi comincio`: <>. Quand'ebbe detto cio`, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co'denti, che furo a l'osso, come d'un can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese la` dove 'l si` suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, si` ch'elli annieghi in te ogne persona! Che' se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'eta` novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella. Noi passammo oltre, la` 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia, non volta in giu`, ma tutta riversata. Lo pianto stesso li` pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia; che' le lagrime prime fanno groppo, e si` come visiere di cristallo, riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. E avvegna che, si` come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, gia` mi parea sentire alquanto vento: per ch'io: <>. Ond'elli a me: <>. E un de' tristi de la fredda crosta grido` a noi: <>. Per ch'io a lui: <>. Rispuose adunque: <>. <>, diss'io lui, <>. Ed elli a me: <>. <>, diss'io lui, <>. <>, diss'el, <>. E io non gliel'apersi; e cortesia fu lui esser villano. Ahi Genovesi, uomini diversi d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perche' non siete voi del mondo spersi? Che' col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito gia` si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra. Inferno: Canto XXXIV <>, disse 'l maestro mio <>. Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; che' non li` era altra grotta. Gia` era, e con paura il metto in metro, la` dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' pie` rinverte. Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, d'innanzi mi si tolse e fe' restarmi, <>, dicendo, <>. Com'io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, pero` ch'ogne parlar sarebbe poco. Io non mori' e non rimasi vivo: pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo. Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; e piu` con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a cosi` fatta parte si confaccia. S'el fu si` bel com'elli e` ora brutto, e contra 'l suo fattore alzo` le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto. Oh quanto parve a me gran maraviglia quand'io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e se' giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di la` onde 'l Nilo s'avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, si` che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, si` che tre ne facea cosi` dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. <>, disse 'l maestro, <>. Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai, appiglio` se' a le vellute coste; di vello in vello giu` discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste. Quando noi fummo la` dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov'elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com'om che sale, si` che 'n inferno i' credea tornar anche. <>, disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, <>. Poi usci` fuor per lo foro d'un sasso, e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in su` tenere; e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual e` quel punto ch'io avea passato. <>, disse 'l maestro, <>. Non era camminata di palagio la` 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio. <>, diss'io quando fui dritto, <>. Ed elli a me: <>. Luogo e` la` giu` da Belzebu` remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono e` noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo su`, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. La Divina Commedia di Dante Alighieri (e-text courtesy Progetto Manuzio) PURGATORIO Purgatorio: Canto I Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a se' mar si` crudele; e cantero` di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. Ma qui la morta poesi` resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Caliope` alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. Dolce color d'oriental zaffiro, che s'accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricomincio` diletto, tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta che m'avea contristati li occhi e 'l petto. Lo bel pianeto che d'amar conforta faceva tutto rider l'oriente, velando i Pesci ch'erano in sua scorta. I' mi volsi a man destra, e puosi mente a l'altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch'a la prima gente. Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato se' di mirar quelle! Com'io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l 'altro polo, la` onde il Carro gia` era sparito, vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che piu` non dee a padre alcun figliuolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a' suoi capelli simigliante, de' quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi de le quattro luci sante fregiavan si` la sua faccia di lume, ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante. <>, diss'el, movendo quelle oneste piume. <>. Lo duca mio allor mi die` di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fe' le gambe e 'l ciglio. Poscia rispuose lui: <>. <>, diss'elli allora, <>. Cosi` spari`; e io su` mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El comincio`: <>. L'alba vinceva l'ora mattutina che fuggia innanzi, si` che di lontano conobbi il tremolar de la marina. Noi andavam per lo solingo piano com'om che torna a la perduta strada, che 'nfino ad essa li pare ire in vano. Quando noi fummo la` 've la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada, ambo le mani in su l'erbetta sparte soavemente 'l mio maestro pose: ond'io, che fui accorto di sua arte, porsi ver' lui le guance lagrimose: ivi mi fece tutto discoverto quel color che l'inferno mi nascose. Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. Quivi mi cinse si` com'altrui piacque: oh maraviglia! che' qual elli scelse l'umile pianta, cotal si rinacque subitamente la` onde l'avelse. Purgatorio: Canto II Gia` era 'l sole a l'orizzonte giunto lo cui meridian cerchio coverchia Ierusalem col suo piu` alto punto; e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance, che le caggion di man quando soverchia; si` che le bianche e le vermiglie guance, la` dov'i' era, de la bella Aurora per troppa etate divenivan rance. Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora. Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giu` nel ponente sovra 'l suol marino, cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir si` ratto, che 'l muover suo nessun volar pareggia. Dal qual com'io un poco ebbi ritratto l'occhio per domandar lo duca mio, rividil piu` lucente e maggior fatto. Poi d'ogne lato ad esso m'appario un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscio. Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto, grido`: <>. Poi, come piu` e piu` verso noi venne l'uccel divino, piu` chiaro appariva: per che l'occhio da presso nol sostenne, ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggero, tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva. Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che faria beato pur descripto; e piu` di cento spirti entro sediero. 'In exitu Israel de Aegypto' cantavan tutti insieme ad una voce con quanto di quel salmo e` poscia scripto. Poi fece il segno lor di santa croce; ond'ei si gittar tutti in su la piaggia; ed el sen gi`, come venne, veloce. La turba che rimase li`, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia. Da tutte parti saettava il giorno lo sol, ch'avea con le saette conte di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno, quando la nova gente alzo` la fronte ver' noi, dicendo a noi: <>. E Virgilio rispuose: <>. L'anime, che si fuor di me accorte, per lo spirare, ch'i' era ancor vivo, maravigliando diventaro smorte. E come a messagger che porta ulivo tragge la gente per udir novelle, e di calcar nessun si mostra schivo, cosi` al viso mio s'affisar quelle anime fortunate tutte quante, quasi obliando d'ire a farsi belle. Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi con si` grande affetto, che mosse me a far lo somigliante. Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto. Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l'ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. Soavemente disse ch'io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s'arrestasse. Rispuosemi: <>. <>, diss'io; <>. Ed elli a me: <>. E io: <>. 'Amor che ne la mente mi ragiona' comincio` elli allor si` dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui parevan si` contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: <>. Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l'usato orgoglio, se cosa appare ond'elli abbian paura, subitamente lasciano star l'esca, perch'assaliti son da maggior cura; cosi` vid'io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa, com'om che va, ne' sa dove riesca: ne' la nostra partita fu men tosta. Purgatorio: Canto III Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, i' mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare' io sanza lui corso? chi m'avria tratto su per la montagna? El mi parea da se' stesso rimorso: o dignitosa coscienza e netta, come t'e` picciol fallo amaro morso! Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l'onestade ad ogn'atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, lo 'ntento rallargo`, si` come vaga, e diedi 'l viso mio incontr'al poggio che 'nverso 'l ciel piu` alto si dislaga. Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m'era dinanzi a la figura, ch'avea in me de' suoi raggi l'appoggio. Io mi volsi dallato con paura d'essere abbandonato, quand'io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; e 'l mio conforto: <>, a dir mi comincio` tutto rivolto; <>; e qui chino` la fronte, e piu` non disse, e rimase turbato. Noi divenimmo intanto a pie` del monte; quivi trovammo la roccia si` erta, che 'ndarno vi sarien le gambe pronte. Tra Lerice e Turbia la piu` diserta, la piu` rotta ruina e` una scala, verso di quella, agevole e aperta. <>, disse 'l maestro mio fermando 'l passo, <>. E mentre ch'e' tenendo 'l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, da man sinistra m'appari` una gente d'anime, che movieno i pie` ver' noi, e non pareva, si` venian lente. <>, diss'io, <>. Guardo` allora, e con libero piglio rispuose: <>. Ancora era quel popol di lontano, i' dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, quando si strinser tutti ai duri massi de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti com'a guardar, chi va dubbiando, stassi. <>, Virgilio incomincio`, <>. Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l'altre stanno timidette atterrando l'occhio e 'l muso; e cio` che fa la prima, e l'altre fanno, addossandosi a lei, s'ella s'arresta, semplici e quete, e lo 'mperche' non sanno; si` vid'io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l'andare onesta. Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, si` che l'ombra era da me a la grotta, restaro, e trasser se' in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo 'l perche', fenno altrettanto. <>. Cosi` 'l maestro; e quella gente degna <>, disse, <>, coi dossi de le man faccendo insegna. E un di loro incomincio`: <>. Io mi volsi ver lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso. Quand'io mi fui umilmente disdetto d'averlo visto mai, el disse: <>; e mostrommi una piaga a sommo 'l petto. Poi sorridendo disse: <>. Purgatorio: Canto IV Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtu` nostra comprenda l'anima bene ad essa si raccoglie, par ch'a nulla potenza piu` intenda; e questo e` contra quello error che crede ch'un'anima sovr'altra in noi s'accenda. E pero`, quando s'ode cosa o vede che tegna forte a se' l'anima volta, vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede; ch'altra potenza e` quella che l'ascolta, e altra e` quella c'ha l'anima intera: questa e` quasi legata, e quella e` sciolta. Di cio` ebb'io esperienza vera, udendo quello spirto e ammirando; che' ben cinquanta gradi salito era lo sole, e io non m'era accorto, quando venimmo ove quell'anime ad una gridaro a noi: <>. Maggiore aperta molte volte impruna con una forcatella di sue spine l'uom de la villa quando l'uva imbruna, che non era la calla onde saline lo duca mio, e io appresso, soli, come da noi la schiera si partine. Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova 'n Cacume con esso i pie`; ma qui convien ch'om voli; dico con l'ale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto che speranza mi dava e facea lume. Noi salavam per entro 'l sasso rotto, e d'ogne lato ne stringea lo stremo, e piedi e man volea il suol di sotto. Poi che noi fummo in su l'orlo suppremo de l'alta ripa, a la scoperta piaggia, <>, diss'io, <>. Ed elli a me: <>. Lo sommo er'alto che vincea la vista, e la costa superba piu` assai che da mezzo quadrante a centro lista. Io era lasso, quando cominciai: <>. <>, disse, <>, additandomi un balzo poco in sue che da quel lato il poggio tutto gira. Si` mi spronaron le parole sue, ch'i' mi sforzai carpando appresso lui, tanto che 'l cinghio sotto i pie` mi fue. A seder ci ponemmo ivi ambedui volti a levante ond'eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui. Li occhi prima drizzai ai bassi liti; poscia li alzai al sole, e ammirava che da sinistra n'eravam feriti. Ben s'avvide il poeta ch'io stava stupido tutto al carro de la luce, ove tra noi e Aquilone intrava. Ond'elli a me: <>. <> diss'io, <>. Ed elli a me: <>. E com'elli ebbe sua parola detta, una voce di presso sono`: <>. Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone, del qual ne' io ne' ei prima s'accorse. La` ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l'ombra dietro al sasso come l'uom per negghienza a star si pone. E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo 'l viso giu` tra esse basso. <>, diss'io, <>. Allor si volse a noi e puose mente, movendo 'l viso pur su per la coscia, e disse: <>. Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m'avacciava un poco ancor la lena, non m'impedi` l'andare a lui; e poscia ch'a lui fu' giunto, alzo` la testa a pena, dicendo: <>. Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: <>. Ed elli: <>. E gia` il poeta innanzi mi saliva, e dicea: <>. Purgatorio: Canto V Io era gia` da quell'ombre partito, e seguitava l'orme del mio duca, quando di retro a me, drizzando 'l dito, una grido`: <>. Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto. <>, disse 'l maestro, <>. Che potea io ridir, se non <>? Dissilo, alquanto del color consperso che fa l'uom di perdon talvolta degno. E 'ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando 'Miserere' a verso a verso. Quando s'accorser ch'i' non dava loco per lo mio corpo al trapassar d'i raggi, mutar lor canto in un <> lungo e roco; e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr'a noi e dimandarne: <>. E 'l mio maestro: <>. Vapori accesi non vid'io si` tosto di prima notte mai fender sereno, ne', sol calando, nuvole d'agosto, che color non tornasser suso in meno; e, giunti la`, con li altri a noi dier volta come schiera che scorre sanza freno. <>, disse 'l poeta: <>. <>, venian gridando, <>. E io: <>. E uno incomincio`: <>. Poi disse un altro: <>. E io a lui: <>. <>, rispuos'elli, <>. <>, seguito` 'l terzo spirito al secondo, <>. Purgatorio: Canto VI Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente; el non s'arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, piu` non fa pressa; e cosi` da la calca si difende. Tal era io in quella turba spessa, volgendo a loro, e qua e la`, la faccia, e promettendo mi sciogliea da essa. Quiv'era l'Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, e l'altro ch'annego` correndo in caccia. Quivi pregava con le mani sporte Federigo Novello, e quel da Pisa che fe' parer lo buon Marzucco forte. Vidi conte Orso e l'anima divisa dal corpo suo per astio e per inveggia, com'e' dicea, non per colpa commisa; Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentr'e` di qua, la donna di Brabante, si` che pero` non sia di peggior greggia. Come libero fui da tutte quante quell'ombre che pregar pur ch'altri prieghi, si` che s'avacci lor divenir sante, io cominciai: <>. Ed elli a me: <>. E io: <>. <>, rispuose, <>. Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dicea alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa. Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita; e quella non rispuose al suo dimando, ma di nostro paese e de la vita ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava <>, e l'ombra, tutta in se' romita, surse ver' lui del loco ove pria stava, dicendo: <>; e l'un l'altro abbracciava. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Quell'anima gentil fu cosi` presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode di quei ch'un muro e una fossa serra. Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s'alcuna parte in te di pace gode. Che val perche' ti racconciasse il freno Iustiniano, se la sella e` vota? Sanz'esso fora la vergogna meno. Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, se bene intendi cio` che Dio ti nota, guarda come esta fiera e` fatta fella per non esser corretta da li sproni, poi che ponesti mano a la predella. O Alberto tedesco ch'abbandoni costei ch'e` fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni, giusto giudicio da le stelle caggia sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che 'l tuo successor temenza n'aggia! Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto, per cupidigia di costa` distretti, che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto. Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color gia` tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d'i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com'e` oscura! Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e di` e notte chiama: <>. Vieni a veder la gente quanto s'ama! e se nulla di noi pieta` ti move, a vergognar ti vien de la tua fama. E se licito m'e`, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? O e` preparazion che ne l'abisso del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de l'accorger nostro scisso? Che' le citta` d'Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene. Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca, merce' del popol tuo che si argomenta. Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l'arco; ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca. Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo solicito risponde sanza chiamare, e grida: <>. Or ti fa lieta, che' tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace, e tu con senno! S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde. Atene e Lacedemona, che fenno l'antiche leggi e furon si` civili, fecero al viver bene un picciol cenno verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch'a mezzo novembre non giugne quel che tu d'ottobre fili. Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume hai tu mutato e rinovate membre! E se ben ti ricordi e vedi lume, vedrai te somigliante a quella inferma che non puo` trovar posa in su le piume, ma con dar volta suo dolore scherma. Purgatorio: Canto VII Poscia che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, Sordel si trasse, e disse: <>. <>. Cosi` rispuose allora il duca mio. Qual e` colui che cosa innanzi se' subita vede ond'e' si maraviglia, che crede e non, dicendo <>, tal parve quelli; e poi chino` le ciglia, e umilmente ritorno` ver' lui, e abbracciol la` 've 'l minor s'appiglia. <>, disse, <>. <>, rispuose lui, <>. Rispuose: <>. <>, fu risposto. <>. E 'l buon Sordello in terra frego` 'l dito, dicendo: <>. Allora il mio segnor, quasi ammirando, <>, disse, <>. Poco allungati c'eravam di lici, quand'io m'accorsi che 'l monte era scemo, a guisa che i vallon li sceman quici. <>, disse quell'ombra, <>. Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca, la` dove piu` ch'a mezzo muore il lembo. Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido e sereno, fresco smeraldo in l'ora che si fiacca, da l'erba e da li fior, dentr'a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, come dal suo maggiore e` vinto il meno. Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavita` di mille odori vi facea uno incognito e indistinto. 'Salve, Regina' in sul verde e 'n su' fiori quindi seder cantando anime vidi, che per la valle non parean di fuori. <>, comincio` 'l Mantoan che ci avea volti, <>. Purgatorio: Canto VIII Era gia` l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core lo di` c'han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; quand'io incominciai a render vano l'udire e a mirare una de l'alme surta, che l'ascoltar chiedea con mano. Ella giunse e levo` ambo le palme, ficcando li occhi verso l'oriente, come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'. 'Te lucis ante' si` devotamente le uscio di bocca e con si` dolci note, che fece me a me uscir di mente; e l'altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l'inno intero, avendo li occhi a le superne rote. Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, che' 'l velo e` ora ben tanto sottile, certo che 'l trapassar dentro e` leggero. Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in sue quasi aspettando, palido e umile; e vidi uscir de l'alto e scender giue due angeli con due spade affocate, tronche e private de le punte sue. Verdi come fogliette pur mo nate erano in veste, che da verdi penne percosse traean dietro e ventilate. L'un poco sovra noi a star si venne, e l'altro scese in l'opposita sponda, si` che la gente in mezzo si contenne. Ben discernea in lor la testa bionda; ma ne la faccia l'occhio si smarria, come virtu` ch'a troppo si confonda. <>, disse Sordello, <>. Ond'io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto m'accostai, tutto gelato, a le fidate spalle. E Sordello anco: <>. Solo tre passi credo ch'i' scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava pur me, come conoscer mi volesse. Temp'era gia` che l'aere s'annerava, ma non si` che tra li occhi suoi e ' miei non dichiarisse cio` che pria serrava. Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque quando ti vidi non esser tra ' rei! Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimando`: <>. <>, diss'io lui, <>. E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di subito smarrita. L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse che sedea li`, gridando: <>. Poi, volto a me: <>. Cosi` dicea, segnato de la stampa, nel suo aspetto, di quel dritto zelo che misuratamente in core avvampa. Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur la` dove le stelle son piu` tarde, si` come rota piu` presso a lo stelo. E 'l duca mio: <>. E io a lui: <>. Ond'elli a me: <>. Com'ei parlava, e Sordello a se' il trasse dicendo: <>; e drizzo` il dito perche' 'n la` guardasse. Da quella parte onde non ha riparo la picciola vallea, era una biscia, forse qual diede ad Eva il cibo amaro. Tra l'erba e ' fior venia la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso leccando come bestia che si liscia. Io non vidi, e pero` dicer non posso, come mosser li astor celestiali; ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso. Sentendo fender l'aere a le verdi ali, fuggi` 'l serpente, e li angeli dier volta, suso a le poste rivolando iguali. L'ombra che s'era al giudice raccolta quando chiamo`, per tutto quello assalto punto non fu da me guardare sciolta. <>, comincio` ella, <>. <>, diss'io lui, <>. Ed elli: <>. Purgatorio: Canto IX La concubina di Titone antico gia` s'imbiancava al balco d'oriente, fuor de le braccia del suo dolce amico; di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale che con la coda percuote la gente; e la notte, de' passi con che sale, fatti avea due nel loco ov'eravamo, e 'l terzo gia` chinava in giuso l'ale; quand'io, che meco avea di quel d'Adamo, vinto dal sonno, in su l'erba inchinai la` 've gia` tutti e cinque sedavamo. Ne l'ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de' suo' primi guai, e che la mente nostra, peregrina piu` da la carne e men da' pensier presa, a le sue vision quasi e` divina, in sogno mi parea veder sospesa un'aguglia nel ciel con penne d'oro, con l'ali aperte e a calare intesa; ed esser mi parea la` dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro. Fra me pensava: 'Forse questa fiede pur qui per uso, e forse d'altro loco disdegna di portarne suso in piede'. Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse, e me rapisse suso infino al foco. Ivi parea che ella e io ardesse; e si` lo 'ncendio imaginato cosse, che convenne che 'l sonno si rompesse. Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo la` dove si fosse, quando la madre da Chiron a Schiro trafuggo` lui dormendo in le sue braccia, la` onde poi li Greci il dipartiro; che mi scoss'io, si` come da la faccia mi fuggi` 'l sonno, e diventa' ismorto, come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia. Dallato m'era solo il mio conforto, e 'l sole er'alto gia` piu` che due ore, e 'l viso m'era a la marina torto. <>, disse il mio segnore; <>. A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, poi che la verita` li e` discoperta, mi cambia' io; e come sanza cura vide me 'l duca mio, su per lo balzo si mosse, e io di rietro inver' l'altura. Lettor, tu vedi ben com'io innalzo la mia matera, e pero` con piu` arte non ti maravigliar s'io la rincalzo. Noi ci appressammo, ed eravamo in parte, che la` dove pareami prima rotto, pur come un fesso che muro diparte, vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa, di color diversi, e un portier ch'ancor non facea motto. E come l'occhio piu` e piu` v'apersi, vidil seder sovra 'l grado sovrano, tal ne la faccia ch'io non lo soffersi; e una spada nuda avea in mano, che reflettea i raggi si` ver' noi, ch'io drizzava spesso il viso in vano. <>, comincio` elli a dire, <>. <>, rispuose 'l mio maestro a lui, <>. <>, ricomincio` il cortese portinaio: <>. La` ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era si` pulito e terso, ch'io mi specchiai in esso qual io paio. Era il secondo tinto piu` che perso, d'una petrina ruvida e arsiccia, crepata per lo lungo e per traverso. Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, porfido mi parea, si` fiammeggiante, come sangue che fuor di vena spiccia. Sovra questo tenea ambo le piante l'angel di Dio, sedendo in su la soglia, che mi sembiava pietra di diamante. Per li tre gradi su` di buona voglia mi trasse il duca mio, dicendo: <>. Divoto mi gittai a' santi piedi; misericordia chiesi e ch'el m'aprisse, ma tre volte nel petto pria mi diedi. Sette P ne la fronte mi descrisse col punton de la spada, e <>, disse. Cenere, o terra che secca si cavi, d'un color fora col suo vestimento; e di sotto da quel trasse due chiavi. L'una era d'oro e l'altra era d'argento; pria con la bianca e poscia con la gialla fece a la porta si`, ch'i' fu' contento. <>, diss'elli a noi, <>. Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, dicendo: <>. E quando fuor ne' cardini distorti li spigoli di quella regge sacra, che di metallo son sonanti e forti, non rugghio` si` ne' si mostro` si` acra Tarpea, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra. Io mi rivolsi attento al primo tuono, e 'Te Deum laudamus' mi parea udire in voce mista al dolce suono. Tale imagine a punto mi rendea cio` ch'io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea; ch'or si` or no s'intendon le parole. Purgatorio: Canto X Poi fummo dentro al soglio de la porta che 'l mal amor de l'anime disusa, perche' fa parer dritta la via torta, sonando la senti' esser richiusa; e s'io avesse li occhi volti ad essa, qual fora stata al fallo degna scusa? Noi salavam per una pietra fessa, che si moveva e d'una e d'altra parte, si` come l'onda che fugge e s'appressa. <>, comincio` 'l duca mio, <>. E questo fece i nostri passi scarsi, tanto che pria lo scemo de la luna rigiunse al letto suo per ricorcarsi, che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti su` dove il monte in dietro si rauna, io stancato e amendue incerti di nostra via, restammo in su un piano solingo piu` che strade per diserti. Da la sua sponda, ove confina il vano, al pie` de l'alta ripa che pur sale, misurrebbe in tre volte un corpo umano; e quanto l'occhio mio potea trar d'ale, or dal sinistro e or dal destro fianco, questa cornice mi parea cotale. La` su` non eran mossi i pie` nostri anco, quand'io conobbi quella ripa intorno che dritto di salita aveva manco, esser di marmo candido e addorno d'intagli si`, che non pur Policleto, ma la natura li` avrebbe scorno. L'angel che venne in terra col decreto de la molt'anni lagrimata pace, ch'aperse il ciel del suo lungo divieto, dinanzi a noi pareva si` verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagine che tace. Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!'; perche' iv'era imaginata quella ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella 'Ecce ancilla Dei', propriamente come figura in cera si suggella. <>, disse 'l dolce maestro, che m'avea da quella parte onde 'l cuore ha la gente. Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa onde m'era colui che mi movea, un'altra storia ne la roccia imposta; per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso, accio` che fosse a li occhi miei disposta. Era intagliato li` nel marmo stesso lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa, per che si teme officio non commesso. Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a' due mie' sensi faceva dir l'un <>, l'altro <>. Similemente al fummo de li 'ncensi che v'era imaginato, li occhi e 'l naso e al si` e al no discordi fensi. Li` precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l'umile salmista, e piu` e men che re era in quel caso. Di contra, effigiata ad una vista d'un gran palazzo, Micol ammirava si` come donna dispettosa e trista. I' mossi i pie` del loco dov'io stava, per avvisar da presso un'altra istoria, che di dietro a Micol mi biancheggiava. Quiv'era storiata l'alta gloria del roman principato, il cui valore mosse Gregorio a la sua gran vittoria; i' dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore. Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro sovr'essi in vista al vento si movieno. La miserella intra tutti costoro pareva dir: <>; ed elli a lei rispondere: <>; e quella: <>, come persona in cui dolor s'affretta, <>; ed ei: <>; ed ella: <>; ond'elli: <>. Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perche' qui non si trova. Mentr'io mi dilettava di guardare l'imagini di tante umilitadi, e per lo fabbro loro a veder care, <>, mormorava il poeta, <>. Li occhi miei ch'a mirare eran contenti per veder novitadi ond'e' son vaghi, volgendosi ver' lui non furon lenti. Non vo' pero`, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire come Dio vuol che 'l debito si paghi. Non attender la forma del martire: pensa la succession; pensa ch'al peggio, oltre la gran sentenza non puo` ire. Io cominciai: <>. Ed elli a me: <>. O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne' retrosi passi, non v'accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi? Di che l'animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, si` come vermo in cui formazion falla? Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura si vede giugner le ginocchia al petto, la qual fa del non ver vera rancura nascere 'n chi la vede; cosi` fatti vid'io color, quando puosi ben cura. Vero e` che piu` e meno eran contratti secondo ch'avien piu` e meno a dosso; e qual piu` pazienza avea ne li atti, piangendo parea dicer: 'Piu` non posso'. Purgatorio: Canto XI <>. Cosi` a se' e noi buona ramogna quell'ombre orando, andavan sotto 'l pondo, simile a quel che tal volta si sogna, disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, purgando la caligine del mondo. Se di la` sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei ch'hanno al voler buona radice? Ben si de' loro atar lavar le note che portar quinci, si` che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote. <>. Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu' io seguiva, non fur da cui venisser manifeste; ma fu detto: <>. Ascoltando chinai in giu` la faccia; e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li 'mpaccia, e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi a me che tutto chin con loro andava. <>, diss'io lui, <>. <>, diss'elli, <>. E io a lui: <>. <>, rispuose, <>. E io: <>. <>, disse, <>. Purgatorio: Canto XII Di pari, come buoi che vanno a giogo, m'andava io con quell'anima carca, fin che 'l sofferse il dolce pedagogo. Ma quando disse: <>; dritto si` come andar vuolsi rife'mi con la persona, avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi. Io m'era mosso, e seguia volontieri del mio maestro i passi, e amendue gia` mostravam com'eravam leggeri; ed el mi disse: <>. Come, perche' di lor memoria sia, sovra i sepolti le tombe terragne portan segnato quel ch'elli eran pria, onde li` molte volte si ripiagne per la puntura de la rimembranza, che solo a' pii da` de le calcagne; si` vid'io li`, ma di miglior sembianza secondo l'artificio, figurato quanto per via di fuor del monte avanza. Vedea colui che fu nobil creato piu` ch'altra creatura, giu` dal cielo folgoreggiando scender, da l'un lato. Vedea Briareo, fitto dal telo celestial giacer, da l'altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo. Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d'i Giganti sparte. Vedea Nembrot a pie` del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti che 'n Sennaar con lui superbi fuoro. O Niobe`, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! O Saul, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboe`, che poi non senti` pioggia ne' rugiada! O folle Aragne, si` vedea io te gia` mezza ragna, trista in su li stracci de l'opera che mal per te si fe'. O Roboam, gia` non par che minacci quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci. Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre fe' caro parer lo sventurato addornamento. Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherib dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro. Mostrava la ruina e 'l crudo scempio che fe' Tamiri, quando disse a Ciro: <>. Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro. Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Ilion, come te basso e vile mostrava il segno che li` si discerne! Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi mirar farieno uno ingegno sottile? Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, quant'io calcai, fin che chinato givi. Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d'Eva, e non chinate il volto si` che veggiate il vostro mal sentero! Piu` era gia` per noi del monte volto e del cammin del sole assai piu` speso che non stimava l'animo non sciolto, quando colui che sempre innanzi atteso andava, comincio`: <>. Io era ben del suo ammonir uso pur di non perder tempo, si` che 'n quella materia non potea parlarmi chiuso. A noi venia la creatura bella, biancovestito e ne la faccia quale par tremolando mattutina stella. Le braccia aperse, e indi aperse l'ale; disse: <>. Menocci ove la roccia era tagliata; quivi mi batte' l'ali per la fronte; poi mi promise sicura l'andata. Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga la ben guidata sopra Rubaconte, si rompe del montar l'ardita foga per le scalee che si fero ad etade ch'era sicuro il quaderno e la doga; cosi` s'allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l'altro girone; ma quinci e quindi l'alta pietra rade. Noi volgendo ivi le nostre persone, 'Beati pauperes spiritu!' voci cantaron si`, che nol diria sermone. Ahi quanto son diverse quelle foci da l'infernali! che' quivi per canti s'entra, e la` giu` per lamenti feroci. Gia` montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo piu` lieve che per lo pian non mi parea davanti. Ond'io: <>. Rispuose: <>. Allor fec'io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ' cenni altrui sospecciar fanno; per che la mano ad accertar s'aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si puo` fornir per la veduta; e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che 'ncise quel da le chiavi a me sovra le tempie: a che guardando, il mio duca sorrise. Purgatorio: Canto XIII Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondamente si risega lo monte che salendo altrui dismala. Ivi cosi` una cornice lega dintorno il poggio, come la primaia; se non che l'arco suo piu` tosto piega. Ombra non li` e` ne' segno che si paia: parsi la ripa e parsi la via schietta col livido color de la petraia. <>, ragionava il poeta, <>. Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro, e la sinistra parte di se' torse. <>, dicea, <>. Quanto di qua per un migliaio si conta, tanto di la` eravam noi gia` iti, con poco tempo, per la voglia pronta; e verso noi volar furon sentiti, non pero` visti, spiriti parlando a la mensa d'amor cortesi inviti. La prima voce che passo` volando 'Vinum non habent' altamente disse, e dietro a noi l'ando` reiterando. E prima che del tutto non si udisse per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste' passo` gridando, e anco non s'affisse. <>, diss'io, <>. E com'io domandai, ecco la terza dicendo: 'Amate da cui male aveste'. E 'l buon maestro: <>. Allora piu` che prima li occhi apersi; guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti al color de la pietra non diversi. E poi che fummo un poco piu` avanti, udia gridar: 'Maria, ora per noi': gridar 'Michele' e 'Pietro', e 'Tutti santi'. Non credo che per terra vada ancoi omo si` duro, che non fosse punto per compassion di quel ch'i' vidi poi; che', quando fui si` presso di lor giunto, che li atti loro a me venivan certi, per li occhi fui di grave dolor munto. Di vil ciliccio mi parean coperti, e l'un sofferia l'altro con la spalla, e tutti da la ripa eran sofferti. Cosi` li ciechi a cui la roba falla stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, e l'uno il capo sopra l'altro avvalla, perche' 'n altrui pieta` tosto si pogna, non pur per lo sonar de le parole, ma per la vista che non meno agogna. E come a li orbi non approda il sole, cosi` a l'ombre quivi, ond'io parlo ora, luce del ciel di se' largir non vole; che' a tutti un fil di ferro i cigli fora e cusce si`, come a sparvier selvaggio si fa pero` che queto non dimora. A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto: per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio. Ben sapev'ei che volea dir lo muto; e pero` non attese mia dimanda, ma disse: <>. Virgilio mi venia da quella banda de la cornice onde cader si puote, perche' da nulla sponda s'inghirlanda; da l'altra parte m'eran le divote ombre, che per l'orribile costura premevan si`, che bagnavan le gote. Volsimi a loro e <>, incominciai, <>. <>. Questo mi parve per risposta udire piu` innanzi alquanto che la` dov'io stava, ond'io mi feci ancor piu` la` sentire. Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava in vista; e se volesse alcun dir 'Come?', lo mento a guisa d'orbo in su` levava. <>, diss'io, <>. <>, rispuose, <>. <
  • >, diss'io, <>. Ed ella a me: <>. E io: <>. <>, rispuose, <>. Purgatorio: Canto XIV <>. <>. Cosi` due spirti, l'uno a l'altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini; e disse l'uno: <>. E io: <>. <>, allora mi rispuose quei che diceva pria, <>. E l'altro disse lui: <>. E l'ombra che di cio` domandata era, si sdebito` cosi`: <>. Com'a l'annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch'ascolta, da qual che parte il periglio l'assanni, cosi` vid'io l'altr'anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, poi ch'ebbe la parola a se' raccolta. Lo dir de l'una e de l'altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, e dimanda ne fei con prieghi mista; per che lo spirto che di pria parlomi ricomincio`: <>. Noi sapavam che quell'anime care ci sentivano andar; pero`, tacendo, facean noi del cammin confidare. Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l'aere fende, voce che giunse di contra dicendo: 'Anciderammi qualunque m'apprende'; e fuggi` come tuon che si dilegua, se subito la nuvola scoscende. Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, ed ecco l'altra con si` gran fracasso, che somiglio` tonar che tosto segua: <>; e allor, per ristrignermi al poeta, in destro feci e non innanzi il passo. Gia` era l'aura d'ogne parte queta; ed el mi disse: <>. Purgatorio: Canto XV Quanto tra l'ultimar de l'ora terza e 'l principio del di` par de la spera che sempre a guisa di fanciullo scherza, tanto pareva gia` inver' la sera essere al sol del suo corso rimaso; vespero la`, e qui mezza notte era. E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, perche' per noi girato era si` 'l monte, che gia` dritti andavamo inver' l'occaso, quand'io senti' a me gravar la fronte a lo splendore assai piu` che di prima, e stupor m'eran le cose non conte; ond'io levai le mani inver' la cima de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio, che del soverchio visibile lima. Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, si` come mostra esperienza e arte; cosi` mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso; per che a fuggir la mia vista fu ratta. <>, diss'io, <>. <>, a me rispuose: <>. Poi giunti fummo a l'angel benedetto, con lieta voce disse: <>. Noi montavam, gia` partiti di linci, e 'Beati misericordes!' fue cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'. Lo mio maestro e io soli amendue suso andavamo; e io pensai, andando, prode acquistar ne le parole sue; e dirizza'mi a lui si` dimandando: <>. Per ch'elli a me: <>. <>, diss'io, <>. Ed elli a me: <>. Com'io voleva dicer 'Tu m'appaghe', vidimi giunto in su l'altro girone, si` che tacer mi fer le luci vaghe. Ivi mi parve in una visione estatica di subito esser tratto, e vedere in un tempio piu` persone; e una donna, in su l'entrar, con atto dolce di madre dicer: <>. E come qui si tacque, cio` che pareva prima, dispario. Indi m'apparve un'altra con quell'acque giu` per le gote che 'l dolor distilla quando di gran dispetto in altrui nacque, e dir: <>. E 'l segnor mi parea, benigno e mite, risponder lei con viso temperato: <>, Poi vidi genti accese in foco d'ira con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a se' pur: <>. E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava gia`, inver' la terra, ma de li occhi facea sempre al ciel porte, orando a l'alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a' suoi persecutori, con quello aspetto che pieta` diserra. Quando l'anima mia torno` di fori a le cose che son fuor di lei vere, io riconobbi i miei non falsi errori. Lo duca mio, che mi potea vedere far si` com'om che dal sonno si slega, disse: <>. <>, diss'io, <>. Ed ei: <>. Noi andavam per lo vespero, attenti oltre quanto potean li occhi allungarsi contra i raggi serotini e lucenti. Ed ecco a poco a poco un fummo farsi verso di noi come la notte oscuro; ne' da quello era loco da cansarsi. Questo ne tolse li occhi e l'aere puro. Purgatorio: Canto XVI Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant'esser puo` di nuvol tenebrata, non fece al viso mio si` grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, ne' a sentir di cosi` aspro pelo, che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accosto` e l'omero m'offerse. Si` come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida, m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: <>. Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l'Agnel di Dio che le peccata leva. Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, si` che parea tra esse ogne concordia. <>, diss'io. Ed elli a me: <>. <>. Cosi` per una voce detto fue; onde 'l maestro mio disse: <>. E io: <>. <>, rispuose; <>. Allora incominciai: <>. <>. Cosi` rispuose, e soggiunse: <>. E io a lui: <>. Alto sospir, che duolo strinse in <>, mise fuor prima; e poi comincio`: <>. <>, diss'io, <>. <>, rispuose a me; <>. Cosi` torno`, e piu` non volle udirmi. Purgatorio: Canto XVII Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera del sol debilemente entra per essi; e fia la tua imagine leggera in giugnere a veder com'io rividi lo sole in pria, che gia` nel corcar era. Si`, pareggiando i miei co' passi fidi del mio maestro, usci' fuor di tal nube ai raggi morti gia` ne' bassi lidi. O imaginativa che ne rube talvolta si` di fuor, ch'om non s'accorge perche' dintorno suonin mille tube, chi move te, se 'l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s'informa, per se' o per voler che giu` lo scorge. De l'empiezza di lei che muto` forma ne l'uccel ch'a cantar piu` si diletta, ne l'imagine mia apparve l'orma; e qui fu la mia mente si` ristretta dentro da se', che di fuor non venia cosa che fosse allor da lei ricetta. Poi piovve dentro a l'alta fantasia un crucifisso dispettoso e fero ne la sua vista, e cotal si moria; intorno ad esso era il grande Assuero, Ester sua sposa e 'l giusto Mardoceo, che fu al dire e al far cosi` intero. E come questa imagine rompeo se' per se' stessa, a guisa d'una bulla cui manca l'acqua sotto qual si feo, surse in mia visione una fanciulla piangendo forte, e dicea: <>. Come si frange il sonno ove di butto nova luce percuote il viso chiuso, che fratto guizza pria che muoia tutto; cosi` l'imaginar mio cadde giuso tosto che lume il volto mi percosse, maggior assai che quel ch'e` in nostro uso. I' mi volgea per veder ov'io fosse, quando una voce disse <>, che da ogne altro intento mi rimosse; e fece la mia voglia tanto pronta di riguardar chi era che parlava, che mai non posa, se non si raffronta. Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela, cosi` la mia virtu` quivi mancava. <>. Cosi` disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala; e tosto ch'io al primo grado fui, senti'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: 'Beati pacifici, che son sanz'ira mala!'. Gia` eran sovra noi tanto levati li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da piu` lati. 'O virtu` mia, perche' si` ti dilegue?', fra me stesso dicea, che' mi sentiva la possa de le gambe posta in triegue. Noi eravam dove piu` non saliva la scala su`, ed eravamo affissi, pur come nave ch'a la piaggia arriva. E io attesi un poco, s'io udissi alcuna cosa nel novo girone; poi mi volsi al maestro mio, e dissi: <>. Ed elli a me: <>. <>, comincio` el, <>. Purgatorio: Canto XVIII Posto avea fine al suo ragionamento l'alto dottore, e attento guardava ne la mia vista s'io parea contento; e io, cui nova sete ancor frugava, di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse lo troppo dimandar ch'io fo li grava'. Ma quel padre verace, che s'accorse del timido voler che non s'apriva, parlando, di parlare ardir mi porse. Ond'io: <>. <>, disse, <>. <>, rispuos'io lui, <>. Ed elli a me: <>. La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer piu` rade, fatta com'un secchion che tuttor arda; e correa contro 'l ciel per quelle strade che 'l sole infiamma allor che quel da Roma tra Sardi e ' Corsi il vede quando cade. E quell'ombra gentil per cui si noma Pietola piu` che villa mantoana, del mio carcar diposta avea la soma; per ch'io, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta, stava com'om che sonnolento vana. Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo le nostre spalle a noi era gia` volta. E quale Ismeno gia` vide e Asopo lungo di se` di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo, cotal per quel giron suo passo falca, per quel ch'io vidi di color, venendo, cui buon volere e giusto amor cavalca. Tosto fur sovr'a noi, perche' correndo si movea tutta quella turba magna; e due dinanzi gridavan piangendo: <>. <>, gridavan li altri appresso, <>. <>. Parole furon queste del mio duca; e un di quelli spirti disse: <>. Io non so se piu` disse o s'ei si tacque, tant'era gia` di la` da noi trascorso; ma questo intesi, e ritener mi piacque. E quei che m'era ad ogne uopo soccorso disse: <>. Di retro a tutti dicean: <>. Poi quando fuor da noi tanto divise quell'ombre, che veder piu` non potiersi, novo pensiero dentro a me si mise, del qual piu` altri nacquero e diversi; e tanto d'uno in altro vaneggiai, che li occhi per vaghezza ricopersi, e 'l pensamento in sogno trasmutai. Purgatorio: Canto XIX Ne l'ora che non puo` 'l calor diurno intepidar piu` 'l freddo de la luna, vinto da terra, e talor da Saturno - quando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in oriiente, innanzi a l'alba, surger per via che poco le sta bruna -, mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i pie` distorta, con le man monche, e di colore scialba. Io la mirava; e come 'l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, cosi` lo sguardo mio le facea scorta la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d'ora, e lo smarrito volto, com' amor vuol, cosi` le colorava. Poi ch'ell' avea 'l parlar cosi` disciolto, cominciava a cantar si`, che con pena da lei avrei mio intento rivolto. <>, cantava, <>. Ancor non era sua bocca richiusa, quand' una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa. <>, fieramente dicea; ed el venia con li occhi fitti pur in quella onesta. L'altra prendea, e dinanzi l'apria fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; quel mi sveglio` col puzzo che n'uscia. Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: <>, dicea, <>. Su` mi levai, e tutti eran gia` pieni de l'alto di` i giron del sacro monte, e andavam col sol novo a le reni. Seguendo lui, portava la mia fronte come colui che l'ha di pensier carca, che fa di se' un mezzo arco di ponte; quand' io udi' <> parlare in modo soave e benigno, qual non si sente in questa mortal marca. Con l'ali aperte, che parean di cigno, volseci in su` colui che si` parlonne tra due pareti del duro macigno. Mosse le penne poi e ventilonne, 'Qui lugent' affermando esser beati, ch'avran di consolar l'anime donne. <>, la guida mia incomincio` a dirmi, poco amendue da l'angel sormontati. E io: <>. <>, disse, <>. Quale 'l falcon, che prima a' pie' si mira, indi si volge al grido e si protende per lo disio del pasto che la` il tira, tal mi fec' io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso, n'andai infin dove 'l cerchiar si prende. Com'io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in giuso. 'Adhaesit pavimento anima mea' sentia dir lor con si` alti sospiri, che la parola a pena s'intendea. <>. <>. Cosi` prego` 'l poeta, e si` risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io nel parlare avvisai l'altro nascosto, e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assenti` con lieto cenno cio` che chiedea la vista del disio. Poi ch'io potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura le cui parole pria notar mi fenno, dicendo: <>. Ed elli a me: <>. Io m'era inginocchiato e volea dire; ma com' io cominciai ed el s'accorse, solo ascoltando, del mio reverire, <>, disse, <>. E io a lui: <>. <>, rispuose; <>. Purgatorio: Canto XX Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra 'l piacer mio, per piacerli, trassi de l'acqua non sazia la spugna. Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia, come si va per muro stretto a' merli; che' la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, da l'altra parte in fuor troppo s'approccia. Maladetta sie tu, antica lupa, che piu` che tutte l'altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa! O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di qua giu` trasmutarsi, quando verra` per cui questa disceda? Noi andavam con passi lenti e scarsi, e io attento a l'ombre, ch'i' sentia pietosamente piangere e lagnarsi; e per ventura udi' <> dinanzi a noi chiamar cosi` nel pianto come fa donna che in parturir sia; e seguitar: <>. Seguentemente intesi: <>. Queste parole m'eran si` piaciute, ch'io mi trassi oltre per aver contezza di quello spirto onde parean venute. Esso parlava ancor de la larghezza che fece Niccolo` a le pulcelle, per condurre ad onor lor giovinezza. <>, dissi, <>. Ed elli: <>. Noi eravam partiti gia` da esso, e brigavam di soverchiar la strada tanto quanto al poder n'era permesso, quand'io senti', come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch'a morte vada. Certo non si scoteo si` forte Delo, pria che Latona in lei facesse 'l nido a parturir li due occhi del cielo. Poi comincio` da tutte parti un grido tal, che 'l maestro inverso me si feo, dicendo: <>. 'Gloria in excelsis' tutti 'Deo' dicean, per quel ch'io da' vicin compresi, onde intender lo grido si poteo. No' istavamo immobili e sospesi come i pastor che prima udir quel canto, fin che 'l tremar cesso` ed el compiesi. Poi ripigliammo nostro cammin santo, guardando l'ombre che giacean per terra, tornate gia` in su l'usato pianto. Nulla ignoranza mai con tanta guerra mi fe' desideroso di sapere, se la memoria mia in cio` non erra, quanta pareami allor, pensando, avere; ne' per la fretta dimandare er'oso, ne' per me li` potea cosa vedere: cosi` m'andava timido e pensoso. Purgatorio: Canto XXI a sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domando` la grazia, mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, si` come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, gia` surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un'ombra, e dietro a noi venia, dal pie` guardando la turba che giace; ne' ci addemmo di lei, si` parlo` pria, dicendo; <>. Noi ci volgemmo subiti, e Virgilio rendeli 'l cenno ch'a cio` si conface. Poi comincio`: <>. <>, diss'elli, e parte andavam forte: <>. E 'l dottor mio: <>. Si` mi die`, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. Quei comincio`: <>. Cosi` ne disse; e pero` ch'el si gode tanto del ber quant'e` grande la sete. non saprei dir quant'el mi fece prode. E 'l savio duca: <>. <>, rispuose quello spirto, <>. Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non puo` tutto la virtu` che vuole; che' riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' piu` veraci. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante piu` si ficca; e <>, disse, <>. Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond'io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e <>, mi dice, <>. Ond'io: <>. Gia` s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: <>. Ed ei surgendo: <>. Purgatorio: Canto XXII Gia` era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea volti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso; e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci con 'sitiunt', sanz'altro, cio` forniro. E io piu` lieve che per l'altre foci m'andava, si` che sanz'alcun labore seguiva in su` li spiriti veloci; quando Virgilio incomincio`: <>. Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: <>. <>, disse 'l cantor de' buccolici carmi, <>. Ed elli a lui: <>. <>, rispuose il duca mio, <>. Tacevansi ambedue gia` li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti; e gia` le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in su` l'ardente corno, quando il mio duca: <>. Cosi` l'usanza fu li` nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l'assentir di quell'anima degna. Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch'a poetar mi davano intelletto. Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni; e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, cosi` quello in giuso, cred'io, perche' persona su` non vada. Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso. Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde grido`: <>. Poi disse: <>. Purgatorio: Canto XXIII Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava io si` come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde, lo piu` che padre mi dicea: <>. Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sie, che l'andar mi facean di nullo costo. Ed ecco piangere e cantar s'udie 'Labia mea, Domine' per modo tal, che diletto e doglia parturie. <>, comincia' io; ed elli: <>. Si` come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, cosi` di retro a noi, piu` tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema, che da l'ossa la pelle s'informava. Non credo che cosi` a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando piu` n'ebbe tema. Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perde' Ierusalemme, quando Maria nel figlio die` di becco!' Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo' ben avria quivi conosciuta l'emme. Chi crederebbe che l'odor d'un pomo si` governasse, generando brama, e quel d'un'acqua, non sappiendo como? Gia` era in ammirar che si` li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardo` fiso; poi grido` forte: <>. Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese cio` che l'aspetto in se' avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. <>, pregava, <>. <>, rispuos'io lui, <>. Ed elli a me: <>. E io a lui: <>. Ond'elli a me: <>. Per ch'io a lui: <>, e 'l sol mostrai; <>, e addita'lo; <>. Purgatorio: Canto XXIV Ne' 'l dir l'andar, ne' l'andar lui piu` lento facea, ma ragionando andavam forte, si` come nave pinta da buon vento; e l'ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte. E io, continuando al mio sermone, dissi: <>. <>. Si` disse prima; e poi: <>, e mostro` col dito, <>. Molti altri mi nomo` ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, si` ch'io pero` non vidi un atto bruno. Vidi per fame a voto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pasturo` col rocco molte genti. Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio gia` di bere a Forli` con men secchezza, e si` fu tal, che non si senti` sazio. Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza piu` d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, che piu` parea di me aver contezza. El mormorava; e non so che <> sentiv'io la`, ov'el sentia la piaga de la giustizia che si` li pilucca. <>, diss'io, <>. <>, comincio` el, <>. E io a lui: <>. <>, diss'elli, <>; e, quasi contentato, si tacette. Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan piu` a fretta e vanno in filo, cosi` tutta la gente che li` era, volgendo 'l viso, raffretto` suo passo, e per magrezza e per voler leggera. E come l'uom che di trottare e` lasso, lascia andar li compagni, e si` passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso, si` lascio` trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: <>. <>, rispuos'io lui, <>. <>, diss'el; <>, e drizzo` li ochi al ciel, <>. Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo, tal si parti` da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo si` gran marescalchi. E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue, parvermi i rami gravidi e vivaci d'un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora volto in laci. Vidi gente sott'esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani, che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde. Poi si parti` si` come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta. <>. Si` tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva. <>, dicea, <>. Si` accostati a l'un d'i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite gia` da miseri guadagni. Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e piu` ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola. <>. subita voce disse; ond'io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre. Drizzai la testa per veder chi fossi; e gia` mai non si videro in fornace vetri o metalli si` lucenti e rossi, com'io vidi un che dicea: <>. L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, com'om che va secondo ch'elli ascolta. E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che fe' sentir d'ambrosia l'orezza. E senti' dir: <>. Purgatorio: Canto XXV Ora era onde 'l salir non volea storpio; che' 'l sole avea il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: per che, come fa l'uom che non s'affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge, cosi` intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia. E quale il cicognin che leva l'ala per voglia di volare, e non s'attenta d'abbandonar lo nido, e giu` la cala; tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l'atto che fa colui ch'a dicer s'argomenta. Non lascio`, per l'andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: <>. Allor sicuramente apri' la bocca e cominciai: <>. <>, disse, <>. <>, rispuose Stazio, <>. Poi comincio`: <>. E gia` venuto a l'ultima tortura s'era per noi, e volto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura. Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra; ond'ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temea 'l foco quinci, e quindi temeva cader giuso. Lo duca mio dicea: <>. 'Summae Deus clementiae' nel seno al grande ardore allora udi' cantando, che di volger mi fe' caler non meno; e vidi spirti per la fiamma andando; per ch'io guardava a loro e a' miei passi compartendo la vista a quando a quando. Appresso il fine ch'a quell'inno fassi, gridavano alto: 'Virum non cognosco'; indi ricominciavan l'inno bassi. Finitolo, anco gridavano: <>. Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti come virtute e matrimonio imponne. E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti che la piaga da sezzo si ricuscia. Purgatorio: Canto XXVI Mentre che si` per l'orlo, uno innanzi altro, ce n'andavamo, e spesso il buon maestro diceami: <>; feriami il sole in su l'omero destro, che gia`, raggiando, tutto l'occidente mutava in bianco aspetto di cilestro; e io facea con l'ombra piu` rovente parer la fiamma; e pur a tanto indizio vidi molt'ombre, andando, poner mente. Questa fu la cagion che diede inizio loro a parlar di me; e cominciarsi a dir: <>; poi verso me, quanto potean farsi, certi si fero, sempre con riguardo di non uscir dove non fosser arsi. <>. Si` mi parlava un d'essi; e io mi fora gia` manifesto, s'io non fossi atteso ad altra novita` ch'apparve allora; che' per lo mezzo del cammino acceso venne gente col viso incontro a questa, la qual mi fece a rimirar sospeso. Li` veggio d'ogne parte farsi presta ciascun'ombra e basciarsi una con una sanza restar, contente a brieve festa; cosi` per entro loro schiera bruna s'ammusa l'una con l'altra formica, forse a spiar lor via e lor fortuna. Tosto che parton l'accoglienza amica, prima che 'l primo passo li` trascorra, sopragridar ciascuna s'affatica: la nova gente: <>; e l'altra: <>. Poi, come grue ch'a le montagne Rife volasser parte, e parte inver' l'arene, queste del gel, quelle del sole schife, l'una gente sen va, l'altra sen vene; e tornan, lagrimando, a' primi canti e al gridar che piu` lor si convene; e raccostansi a me, come davanti, essi medesmi che m'avean pregato, attenti ad ascoltar ne' lor sembianti. Io, che due volte avea visto lor grato, incominciai: <>. Non altrimenti stupido si turba lo montanaro, e rimirando ammuta, quando rozzo e salvatico s'inurba, che ciascun'ombra fece in sua paruta; ma poi che furon di stupore scarche, lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta, <>, ricomincio` colei che pria m'inchiese, <>. Quali ne la tristizia di Ligurgo si fer due figli a riveder la madre, tal mi fec'io, ma non a tanto insurgo, quand'io odo nomar se' stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre; e sanza udire e dir pensoso andai lunga fiata rimirando lui, ne', per lo foco, in la` piu` m'appressai. Poi che di riguardar pasciuto fui, tutto m'offersi pronto al suo servigio con l'affermar che fa credere altrui. Ed elli a me: <>. E io a lui: <
  • >. <>, disse, <>, e addito` un spirto innanzi, <>. Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo foco, come per l'acqua il pesce andando al fondo. Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi ch'al suo nome il mio disire apparecchiava grazioso loco. El comincio` liberamente a dire: <>. Poi s'ascose nel foco che li affina. Purgatorio: Canto XXVII Si` come quando i primi raggi vibra la` dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto l'alta Libra, e l'onde in Gange da nona riarse, si` stava il sole; onde 'l giorno sen giva, come l'angel di Dio lieto ci apparse. Fuor de la fiamma stava in su la riva, e cantava 'Beati mundo corde!'. in voce assai piu` che la nostra viva. Poscia <>, ci disse come noi li fummo presso; per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi, qual e` colui che ne la fossa e` messo. In su le man commesse mi protesi, guardando il foco e imaginando forte umani corpi gia` veduti accesi. Volsersi verso me le buone scorte; e Virgilio mi disse: <>. E io pur fermo e contra coscienza. Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: <>. Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che 'l gelso divento` vermiglio; cosi`, la mia durezza fatta solla, mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla. Ond'ei crollo` la fronte e disse: <>; indi sorrise come al fanciul si fa ch'e` vinto al pome. Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro, che pria per lunga strada ci divise. Si` com'fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi, tant'era ivi lo 'ncendio sanza metro. Lo dolce padre mio, per confortarmi, pur di Beatrice ragionando andava, dicendo: <
  • >. Guidavaci una voce che cantava di la`; e noi, attenti pur a lei, venimmo fuor la` ove si montava. 'Venite, benedicti Patris mei', sono` dentro a un lume che li` era, tal che mi vinse e guardar nol potei. <>, soggiunse, <>. Dritta salia la via per entro 'l sasso verso tal parte ch'io toglieva i raggi dinanzi a me del sol ch'era gia` basso. E di pochi scaglion levammo i saggi, che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense, sentimmo dietro e io e li miei saggi. E pria che 'n tutte le sue parti immense fosse orizzonte fatto d'uno aspetto, e notte avesse tutte sue dispense, ciascun di noi d'un grado fece letto; che' la natura del monte ci affranse la possa del salir piu` e 'l diletto. Quali si stanno ruminando manse le capre, state rapide e proterve sovra le cime avante che sien pranse, tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, guardate dal pastor, che 'n su la verga poggiato s'e` e lor di posa serve; e quale il mandrian che fori alberga, lungo il pecuglio suo queto pernotta, guardando perche' fiera non lo sperga; tali eravamo tutti e tre allotta, io come capra, ed ei come pastori, fasciati quinci e quindi d'alta grotta. Poco parer potea li` del di fori; ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e piu` chiare e maggiori. Si` ruminando e si` mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. Ne l'ora, credo, che de l'oriente, prima raggio` nel monte Citerea, che di foco d'amor par sempre ardente, giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea: <>. E gia` per li splendori antelucani, che tanto a' pellegrin surgon piu` grati, quanto, tornando, albergan men lontani, le tenebre fuggian da tutti lati, e 'l sonno mio con esse; ond'io leva'mi, veggendo i gran maestri gia` levati. <>. Virgilio inverso me queste cotali parole uso`; e mai non furo strenne che fosser di piacere a queste iguali. Tanto voler sopra voler mi venne de l'esser su`, ch'ad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne. Come la scala tutta sotto noi fu corsa e fummo in su 'l grado superno, in me ficco` Virgilio li occhi suoi, e disse: <>. Purgatorio: Canto XXVIII Vago gia` di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva, ch'a li occhi temperava il novo giorno, sanza piu` aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento su per lo suol che d'ogne parte auliva. Un'aura dolce, sanza mutamento avere in se', mi feria per la fronte non di piu` colpo che soave vento; per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u' la prim'ombra gitta il santo monte; non pero` dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d'operare ogne lor arte; ma con piena letizia l'ore prime, cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime, tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su 'l lito di Chiassi, quand'Eolo scilocco fuor discioglie. Gia` m'avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, ch'io non potea rivedere ond'io mi 'ntrassi; ed ecco piu` andar mi tolse un rio, che 'nver' sinistra con sue picciole onde piegava l'erba che 'n sua ripa uscio. Tutte l'acque che son di qua piu` monde, parrieno avere in se' mistura alcuna, verso di quella, che nulla nasconde, avvegna che si mova bruna bruna sotto l'ombra perpetua, che mai raggiar non lascia sole ivi ne' luna. Coi pie` ristretti e con li occhi passai di la` dal fiumicello, per mirare la gran variazion d'i freschi mai; e la` m'apparve, si` com'elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond'era pinta tutta la sua via. <>, diss'io a lei, <>. Come si volge, con le piante strette a terra e intra se', donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti che vergine che li occhi onesti avvalli; e fece i prieghi miei esser contenti, si` appressando se', che 'l dolce suono veniva a me co' suoi intendimenti. Tosto che fu la` dove l'erbe sono bagnate gia` da l'onde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio fuor di tutto suo costume. Ella ridea da l'altra riva dritta, trattando piu` color con le sue mani, che l'alta terra sanza seme gitta. Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, la` 've passo` Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, piu` odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch'allor non s'aperse. <>, comincio` ella, <>. <>, diss'io, <>. Ond'ella: <>. Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto a' miei poeti, e vidi che con riso udito avean l'ultimo costrutto; poi a la bella donna torna' il viso. Purgatorio: Canto XXIX Cantando come donna innamorata, continuo` col fin di sue parole: 'Beati quorum tecta sunt peccata!'. E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre, disiando qual di veder, qual di fuggir lo sole, allor si mosse contra 'l fiume, andando su per la riva; e io pari di lei, picciol passo con picciol seguitando. Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei, quando le ripe igualmente dier volta, per modo ch'a levante mi rendei. Ne' ancor fu cosi` nostra via molta, quando la donna tutta a me si torse, dicendo: <>. Ed ecco un lustro subito trascorse da tutte parti per la gran foresta, tal che di balenar mi mise in forse. Ma perche' 'l balenar, come vien, resta, e quel, durando, piu` e piu` splendeva, nel mio pensier dicea: 'Che cosa e` questa?'. E una melodia dolce correva per l'aere luminoso; onde buon zelo mi fe' riprender l'ardimento d'Eva, che la` dove ubidia la terra e 'l cielo, femmina, sola e pur teste' formata, non sofferse di star sotto alcun velo; sotto 'l qual se divota fosse stata, avrei quelle ineffabili delizie sentite prima e piu` lunga fiata. Mentr'io m'andava tra tante primizie de l'etterno piacer tutto sospeso, e disioso ancora a piu` letizie, dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, ci si fe' l'aere sotto i verdi rami; e 'l dolce suon per canti era gia` inteso. O sacrosante Vergini, se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi, cagion mi sprona ch'io merce' vi chiami. Or convien che Elicona per me versi, e Uranie m'aiuti col suo coro forti cose a pensar mettere in versi. Poco piu` oltre, sette alberi d'oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch'era ancor tra noi e loro; ma quand'i' fui si` presso di lor fatto, che l'obietto comun, che 'l senso inganna, non perdea per distanza alcun suo atto, la virtu` ch'a ragion discorso ammanna, si` com'elli eran candelabri apprese, e ne le voci del cantare 'Osanna'. Di sopra fiammeggiava il bello arnese piu` chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo mezzo mese. Io mi rivolsi d'ammirazion pieno al buon Virgilio, ed esso mi rispuose con vista carca di stupor non meno. Indi rendei l'aspetto a l'alte cose che si movieno incontr'a noi si` tardi, che foran vinte da novelle spose. La donna mi sgrido`: <>. Genti vid'io allor, come a lor duci, venire appresso, vestite di bianco; e tal candor di qua gia` mai non fuci. L'acqua imprendea dal sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa, s'io riguardava in lei, come specchio anco. Quand'io da la mia riva ebbi tal posta, che solo il fiume mi facea distante, per veder meglio ai passi diedi sosta, e vidi le fiammelle andar davante, lasciando dietro a se' l'aere dipinto, e di tratti pennelli avean sembiante; si` che li` sopra rimanea distinto di sette liste, tutte in quei colori onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto. Questi ostendali in dietro eran maggiori che la mia vista; e, quanto a mio avviso, diece passi distavan quei di fori. Sotto cosi` bel ciel com'io diviso, ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fiordaliso. Tutti cantavan: <>. Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette a rimpetto di me da l'altra sponda libere fuor da quelle genti elette, si` come luce luce in ciel seconda, vennero appresso lor quattro animali, coronati ciascun di verde fronda. Ognuno era pennuto di sei ali; le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo, se fosser vivi, sarebber cotali. A descriver lor forme piu` non spargo rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, tanto ch'a questa non posso esser largo; ma leggi Ezechiel, che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne; e quali i troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch'a le penne Giovanni e` meco e da lui si diparte. Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due rote, triunfale, ch'al collo d'un grifon tirato venne. Esso tendeva in su` l'una e l'altra ale tra la mezzana e le tre e tre liste, si` ch'a nulla, fendendo, facea male. Tanto salivan che non eran viste; le membra d'oro avea quant'era uccello, e bianche l'altre, di vermiglio miste. Non che Roma di carro cosi` bello rallegrasse Affricano, o vero Augusto, ma quel del Sol saria pover con ello; quel del Sol che, sviando, fu combusto per l'orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto. Tre donne in giro da la destra rota venian danzando; l'una tanto rossa ch'a pena fora dentro al foco nota; l'altr'era come se le carni e l'ossa fossero state di smeraldo fatte; la terza parea neve teste' mossa; e or parean da la bianca tratte, or da la rossa; e dal canto di questa l'altre toglien l'andare e tarde e ratte. Da la sinistra quattro facean festa, in porpore vestite, dietro al modo d'una di lor ch'avea tre occhi in testa. Appresso tutto il pertrattato nodo vidi due vecchi in abito dispari, ma pari in atto e onesto e sodo. L'un si mostrava alcun de' famigliari di quel sommo Ipocrate che natura a li animali fe' ch'ell'ha piu` cari; mostrava l'altro la contraria cura con una spada lucida e aguta, tal che di qua dal rio mi fe' paura. Poi vidi quattro in umile paruta; e di retro da tutti un vecchio solo venir, dormendo, con la faccia arguta. E questi sette col primaio stuolo erano abituati, ma di gigli dintorno al capo non facean brolo, anzi di rose e d'altri fior vermigli; giurato avria poco lontano aspetto che tutti ardesser di sopra da' cigli. E quando il carro a me fu a rimpetto, un tuon s'udi`, e quelle genti degne parvero aver l'andar piu` interdetto, fermandosi ivi con le prime insegne. Purgatorio: Canto XXX Quando il settentrion del primo cielo, che ne' occaso mai seppe ne' orto ne' d'altra nebbia che di colpa velo, e che faceva li` ciascun accorto di suo dover, come 'l piu` basso face qual temon gira per venire a porto, fermo s'affisse: la gente verace, venuta prima tra 'l grifone ed esso, al carro volse se' come a sua pace; e un di loro, quasi da ciel messo, 'Veni, sponsa, de Libano' cantando grido` tre volte, e tutti li altri appresso. Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna, la revestita voce alleluiando, cotali in su la divina basterna si levar cento, ad vocem tanti senis, ministri e messaggier di vita etterna. Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!', e fior gittando e di sopra e dintorno, 'Manibus, oh, date lilia plenis!'. Io vidi gia` nel cominciar del giorno la parte oriental tutta rosata, e l'altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, si` che per temperanza di vapori l'occhio la sostenea lunga fiata: cosi` dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giu` dentro e di fori, sovra candido vel cinta d'uliva donna m'apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva. E lo spirito mio, che gia` cotanto tempo era stato ch'a la sua presenza non era di stupor, tremando, affranto, sanza de li occhi aver piu` conoscenza, per occulta virtu` che da lei mosse, d'antico amor senti` la gran potenza. Tosto che ne la vista mi percosse l'alta virtu` che gia` m'avea trafitto prima ch'io fuor di puerizia fosse, volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli e` afflitto, per dicere a Virgilio: 'Men che dramma di sangue m'e` rimaso che non tremi: conosco i segni de l'antica fiamma'. Ma Virgilio n'avea lasciati scemi di se', Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi; ne' quantunque perdeo l'antica matre, valse a le guance nette di rugiada, che, lagrimando, non tornasser atre. <>. Quasi ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l'incora; in su la sponda del carro sinistra, quando mi volsi al suon del nome mio, che di necessita` qui si registra, vidi la donna che pria m'appario velata sotto l'angelica festa, drizzar li occhi ver' me di qua dal rio. Tutto che 'l vel che le scendea di testa, cerchiato de le fronde di Minerva, non la lasciasse parer manifesta, regalmente ne l'atto ancor proterva continuo` come colui che dice e 'l piu` caldo parlar dietro reserva: <>. Li occhi mi cadder giu` nel chiaro fonte; ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, tanta vergogna mi gravo` la fronte. Cosi` la madre al figlio par superba, com'ella parve a me; perche' d'amaro sente il sapor de la pietade acerba. Ella si tacque; e li angeli cantaro di subito 'In te, Domine, speravi'; ma oltre 'pedes meos' non passaro. Si` come neve tra le vive travi per lo dosso d'Italia si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi, poi, liquefatta, in se' stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri, si` che par foco fonder la candela; cosi` fui sanza lagrime e sospiri anzi 'l cantar di quei che notan sempre dietro a le note de li etterni giri; ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre lor compatire a me, par che se detto avesser: 'Donna, perche' si` lo stempre?', lo gel che m'era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi usci` del petto. Ella, pur ferma in su la detta coscia del carro stando, a le sustanze pie volse le sue parole cosi` poscia: <>. Purgatorio: Canto XXXI <>, volgendo suo parlare a me per punta, che pur per taglio m'era paruto acro, ricomincio`, seguendo sanza cunta, <>. Era la mia virtu` tanto confusa, che la voce si mosse, e pria si spense che da li organi suoi fosse dischiusa. Poco sofferse; poi disse: <>. Confusione e paura insieme miste mi pinsero un tal <> fuor de la bocca, al quale intender fuor mestier le viste. Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa la sua corda e l'arco, e con men foga l'asta il segno tocca, si` scoppia' io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allento` per lo suo varco. Ond'ella a me: <>. Dopo la tratta d'un sospiro amaro, a pena ebbi la voce che rispuose, e le labbra a fatica la formaro. Piangendo dissi: <>. Ed ella: <>. Quali fanciulli, vergognando, muti con li occhi a terra stannosi, ascoltando e se' riconoscendo e ripentuti, tal mi stav'io; ed ella disse: <>. Con men di resistenza si dibarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba, ch'io non levai al suo comando il mento; e quando per la barba il viso chiese, ben conobbi il velen de l'argomento. E come la mia faccia si distese, posarsi quelle prime creature da loro aspersion l'occhio comprese; e le mie luci, ancor poco sicure, vider Beatrice volta in su la fiera ch'e` sola una persona in due nature. Sotto 'l suo velo e oltre la rivera vincer pariemi piu` se' stessa antica, vincer che l'altre qui, quand'ella c'era. Di penter si` mi punse ivi l'ortica che di tutte altre cose qual mi torse piu` nel suo amor, piu` mi si fe' nemica. Tanta riconoscenza il cor mi morse, ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, salsi colei che la cagion mi porse. Poi, quando il cor virtu` di fuor rendemmi, la donna ch'io avea trovata sola sopra me vidi, e dicea: <>. Tratto m'avea nel fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola. Quando fui presso a la beata riva, 'Asperges me' si` dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva. La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi. Indi mi tolse, e bagnato m'offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse. <>. Cosi` cantando cominciaro; e poi al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi. Disser: <>. Mille disiri piu` che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi. Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti. Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, quando vedea la cosa in se' star queta, e ne l'idolo suo si trasmutava. Mentre che piena di stupore e lieta l'anima mia gustava di quel cibo che, saziando di se', di se' asseta, se' dimostrando di piu` alto tribo ne li atti, l'altre tre si fero avanti, danzando al loro angelico caribo. <>, era la sua canzone, <>. O isplendor di viva luce etterna, chi palido si fece sotto l'ombra si` di Parnaso, o bevve in sua cisterna, che non paresse aver la mente ingombra, tentando a render te qual tu paresti la` dove armonizzando il ciel t'adombra, quando ne l'aere aperto ti solvesti? Purgatorio: Canto XXXII Tant'eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete, che li altri sensi m'eran tutti spenti. Ed essi quinci e quindi avien parete di non caler - cosi` lo santo riso a se' traeli con l'antica rete! -; quando per forza mi fu volto il viso ver' la sinistra mia da quelle dee, perch'io udi' da loro un <>; e la disposizion ch'a veder ee ne li occhi pur teste' dal sol percossi, sanza la vista alquanto esser mi fee. Ma poi ch'al poco il viso riformossi (e dico 'al poco' per rispetto al molto sensibile onde a forza mi rimossi), vidi 'n sul braccio destro esser rivolto lo glorioso essercito, e tornarsi col sole e con le sette fiamme al volto. Come sotto li scudi per salvarsi volgesi schiera, e se' gira col segno, prima che possa tutta in se' mutarsi; quella milizia del celeste regno che procedeva, tutta trapassonne pria che piegasse il carro il primo legno. Indi a le rote si tornar le donne, e 'l grifon mosse il benedetto carco si`, che pero` nulla penna crollonne. La bella donna che mi trasse al varco e Stazio e io seguitavam la rota che fe' l'orbita sua con minore arco. Si` passeggiando l'alta selva vota, colpa di quella ch'al serpente crese, temprava i passi un'angelica nota. Forse in tre voli tanto spazio prese disfrenata saetta, quanto eramo rimossi, quando Beatrice scese. Io senti' mormorare a tutti <>; poi cerchiaro una pianta dispogliata di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo. La coma sua, che tanto si dilata piu` quanto piu` e` su`, fora da l'Indi ne' boschi lor per altezza ammirata. <>. Cosi` dintorno a l'albero robusto gridaron li altri; e l'animal binato: <>. E volto al temo ch'elli avea tirato, trasselo al pie` de la vedova frasca, e quel di lei a lei lascio` legato. Come le nostre piante, quando casca giu` la gran luce mischiata con quella che raggia dietro a la celeste lasca, turgide fansi, e poi si rinovella di suo color ciascuna, pria che 'l sole giunga li suoi corsier sotto altra stella; men che di rose e piu` che di viole colore aprendo, s'innovo` la pianta, che prima avea le ramora si` sole. Io non lo 'ntesi, ne' qui non si canta l'inno che quella gente allor cantaro, ne' la nota soffersi tutta quanta. S'io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati udendo di Siringa, li occhi a cui pur vegghiar costo` si` caro; come pintor che con essempro pinga, disegnerei com'io m'addormentai; ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga. Pero` trascorro a quando mi svegliai, e dico ch'un splendor mi squarcio` 'l velo del sonno e un chiamar: <>. Quali a veder de' fioretti del melo che del suo pome li angeli fa ghiotti e perpetue nozze fa nel cielo, Pietro e Giovanni e Iacopo condotti e vinti, ritornaro a la parola da la qual furon maggior sonni rotti, e videro scemata loro scuola cosi` di Moise` come d'Elia, e al maestro suo cangiata stola; tal torna' io, e vidi quella pia sovra me starsi che conducitrice fu de' miei passi lungo 'l fiume pria. E tutto in dubbio dissi: <>. Ond'ella: <>. E se piu` fu lo suo parlar diffuso, non so, pero` che gia` ne li occhi m'era quella ch'ad altro intender m'avea chiuso. Sola sedeasi in su la terra vera, come guardia lasciata li` del plaustro che legar vidi a la biforme fera. In cerchio le facean di se' claustro le sette ninfe, con quei lumi in mano che son sicuri d'Aquilone e d'Austro. <>. Cosi` Beatrice; e io, che tutto ai piedi d'i suoi comandamenti era divoto, la mente e li occhi ov'ella volle diedi. Non scese mai con si` veloce moto foco di spessa nube, quando piove da quel confine che piu` va remoto, com'io vidi calar l'uccel di Giove per l'alber giu`, rompendo de la scorza, non che d'i fiori e de le foglie nove; e feri` 'l carro di tutta sua forza; ond'el piego` come nave in fortuna, vinta da l'onda, or da poggia, or da orza. Poscia vidi avventarsi ne la cuna del triunfal veiculo una volpe che d'ogne pasto buon parea digiuna; ma, riprendendo lei di laide colpe, la donna mia la volse in tanta futa quanto sofferser l'ossa sanza polpe. Poscia per indi ond'era pria venuta, l'aguglia vidi scender giu` ne l'arca del carro e lasciar lei di se' pennuta; e qual esce di cuor che si rammarca, tal voce usci` del cielo e cotal disse: <>. Poi parve a me che la terra s'aprisse tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago che per lo carro su` la coda fisse; e come vespa che ritragge l'ago, a se' traendo la coda maligna, trasse del fondo, e gissen vago vago. Quel che rimase, come da gramigna vivace terra, da la piuma, offerta forse con intenzion sana e benigna, si ricoperse, e funne ricoperta e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto che piu` tiene un sospir la bocca aperta. Trasformato cosi` 'l dificio santo mise fuor teste per le parti sue, tre sovra 'l temo e una in ciascun canto. Le prime eran cornute come bue, ma le quattro un sol corno avean per fronte: simile mostro visto ancor non fue. Sicura, quasi rocca in alto monte, seder sovresso una puttana sciolta m'apparve con le ciglia intorno pronte; e come perche' non li fosse tolta, vidi di costa a lei dritto un gigante; e baciavansi insieme alcuna volta. Ma perche' l'occhio cupido e vagante a me rivolse, quel feroce drudo la flagello` dal capo infin le piante; poi, di sospetto pieno e d'ira crudo, disciolse il mostro, e trassel per la selva, tanto che sol di lei mi fece scudo a la puttana e a la nova belva. Purgatorio: Canto XXXIII 'Deus, venerunt gentes', alternando or tre or quattro dolce salmodia, le donne incominciaro, e lagrimando; e Beatrice sospirosa e pia, quelle ascoltava si` fatta, che poco piu` a la croce si cambio` Maria. Ma poi che l'altre vergini dier loco a lei di dir, levata dritta in pe`, rispuose, colorata come foco: 'Modicum, et non videbitis me; et iterum, sorelle mie dilette, modicum, et vos videbitis me'. Poi le si mise innanzi tutte e sette, e dopo se', solo accennando, mosse me e la donna e 'l savio che ristette. Cosi` sen giva; e non credo che fosse lo decimo suo passo in terra posto, quando con li occhi li occhi mi percosse; e con tranquillo aspetto <>, mi disse, <>. Si` com'io fui, com'io dovea, seco, dissemi: <>. Come a color che troppo reverenti dinanzi a suo maggior parlando sono, che non traggon la voce viva ai denti. avvenne a me, che sanza intero suono incominciai: <>. Ed ella a me: <>. E io: <>. <>, disse, <>. Ond'io rispuosi lei: <>. <>, sorridendo rispuose, <>. E piu` corusco e con piu` lenti passi teneva il sole il cerchio di merigge, che qua e la`, come li aspetti, fassi quando s'affisser, si` come s'affigge chi va dinanzi a gente per iscorta se trova novitate o sue vestigge, le sette donne al fin d'un'ombra smorta, qual sotto foglie verdi e rami nigri sovra suoi freddi rivi l'Alpe porta. Dinanzi ad esse Eufrates e Tigri veder mi parve uscir d'una fontana, e, quasi amici, dipartirsi pigri. <>. Per cotal priego detto mi fu: <>. E qui rispuose, come fa chi da colpa si dislega, la bella donna: <>. E Beatrice: <>. Come anima gentil, che non fa scusa, ma fa sua voglia de la voglia altrui tosto che e` per segno fuor dischiusa; cosi`, poi che da essa preso fui, la bella donna mossesi, e a Stazio donnescamente disse: <>. S'io avessi, lettor, piu` lungo spazio da scrivere, i' pur cantere' in parte lo dolce ber che mai non m'avria sazio; ma perche' piene son tutte le carte ordite a questa cantica seconda, non mi lascia piu` ir lo fren de l'arte. Io ritornai da la santissima onda rifatto si` come piante novelle rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle. La Divina Commedia di Dante Alighieri (e-text courtesy Progetto Manuzio) PARADISO Paradiso: Canto I La gloria di colui che tutto move per l'universo penetra, e risplende in una parte piu` e meno altrove. Nel ciel che piu` de la sua luce prende fu' io, e vidi cose che ridire ne' sa ne' puo` chi di la` su` discende; perche' appressando se' al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non puo` ire. Veramente quant'io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sara` ora materia del mio canto. O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor si` fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m'e` uopo intrar ne l'aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue si` come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue. O divina virtu`, se mi ti presti tanto che l'ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedra'mi al pie` del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. Si` rade volte, padre, se ne coglie per triunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l'umane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica deita` dovria la fronda peneia, quando alcun di se' asseta. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si preghera` perche' Cirra risponda. Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera piu` a suo modo tempera e suggella. Fatto avea di la` mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era la` bianco quello emisperio, e l'altra parte nera, quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aquila si` non li s'affisse unquanco. E si` come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, cosi` de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso. Molto e` licito la`, che qui non lece a le nostre virtu`, merce' del loco fatto per proprio de l'umana spece. Io nol soffersi molto, ne' si` poco, ch'io nol vedessi sfavillar dintorno, com'ferro che bogliente esce del foco; e di subito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d'un altro sole addorno. Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di la` su` rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fe' Glauco nel gustar de l'erba che 'l fe' consorto in mar de li altri dei. Trasumanar significar per verba non si poria; pero` l'essemplo basti a cui esperienza grazia serba. S'i' era sol di me quel che creasti novellamente, amor che 'l ciel governi, tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a se' mi fece atteso con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. La novita` del suono e 'l grande lume di lor cagion m'accesero un disio mai non sentito di cotanto acume. Ond'ella, che vedea me si` com'io, a quietarmi l'animo commosso, pria ch'io a dimandar, la bocca aprio, e comincio`: <>. S'io fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo piu` fu' inretito, e dissi: <>. Ond'ella, appresso d'un pio sospiro, li occhi drizzo` ver' me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, e comincio`: <>. Quinci rivolse inver' lo cielo il viso. Paradiso: Canto II O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d'ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, che' forse, perdendo me, rimarreste smarriti. L'acqua ch'io prendo gia` mai non si corse; Minerva spira, e conducemi Appollo, e nove Muse mi dimostran l'Orse. Voialtri pochi che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli, del quale vivesi qui ma non sen vien satollo, metter potete ben per l'alto sale vostro navigio, servando mio solco dinanzi a l'acqua che ritorna equale. Que' gloriosi che passaro al Colco non s'ammiraron come voi farete, quando Iason vider fatto bifolco. La concreata e perpetua sete del deiforme regno cen portava veloci quasi come 'l ciel vedete. Beatrice in suso, e io in lei guardava; e forse in tanto in quanto un quadrel posa e vola e da la noce si dischiava, giunto mi vidi ove mirabil cosa mi torse il viso a se'; e pero` quella cui non potea mia cura essere ascosa, volta ver' me, si` lieta come bella, <>, mi disse, <>. Parev'a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro se' l'etterna margarita ne ricevette, com'acqua recepe raggio di luce permanendo unita. S'io era corpo, e qui non si concepe com'una dimensione altra patio, ch'esser convien se corpo in corpo repe, accender ne dovria piu` il disio di veder quella essenza in che si vede come nostra natura e Dio s'unio. Li` si vedra` cio` che tenem per fede, non dimostrato, ma fia per se' noto a guisa del ver primo che l'uom crede. Io rispuosi: <>. Ella sorrise alquanto, e poi <>, mi disse, <>. E io: <>. Ed ella: <>. Paradiso: Canto III Quel sol che pria d'amor mi scaldo` 'l petto, di bella verita` m'avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne leva' il capo a proferer piu` erto; ma visione apparve che ritenne a se' me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne. Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non si` profonde che i fondi sien persi, tornan d'i nostri visi le postille debili si`, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille; tali vid'io piu` facce a parlar pronte; per ch'io dentro a l'error contrario corsi a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte. Subito si` com'io di lor m'accorsi, quelle stimando specchiati sembianti, per veder di cui fosser, li occhi torsi; e nulla vidi, e ritorsili avanti dritti nel lume de la dolce guida, che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. <>, mi disse, <>. E io a l'ombra che parea piu` vaga di ragionar, drizza'mi, e cominciai, quasi com'uom cui troppa voglia smaga: <>. Ond'ella, pronta e con occhi ridenti: <>. Ond'io a lei: <>. Con quelle altr'ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta, ch'arder parea d'amor nel primo foco: <>. Chiaro mi fu allor come ogne dove in cielo e` paradiso, etsi la grazia del sommo ben d'un modo non vi piove. Ma si` com'elli avvien, s'un cibo sazia e d'un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, cosi` fec'io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. <>, mi disse, <>. Cosi` parlommi, e poi comincio` 'Ave, Maria' cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgoro` nel mio sguardo si` che da prima il viso non sofferse; e cio` mi fece a dimandar piu` tardo. Paradiso: Canto IV Intra due cibi, distanti e moventi d'un modo, prima si morria di fame, che liber'omo l'un recasse ai denti; si` si starebbe un agno intra due brame di fieri lupi, igualmente temendo; si` si starebbe un cane intra due dame: per che, s'i' mi tacea, me non riprendo, da li miei dubbi d'un modo sospinto, poi ch'era necessario, ne' commendo. Io mi tacea, ma 'l mio disir dipinto m'era nel viso, e 'l dimandar con ello, piu` caldo assai che per parlar distinto. Fe' si` Beatrice qual fe' Daniello, Nabuccodonosor levando d'ira, che l'avea fatto ingiustamente fello; e disse: <>. Cotal fu l'ondeggiar del santo rio ch'usci` del fonte ond'ogne ver deriva; tal puose in pace uno e altro disio. <>, diss'io appresso, <>. Beatrice mi guardo` con li occhi pieni di faville d'amor cosi` divini, che, vinta, mia virtute die` le reni, e quasi mi perdei con li occhi chini. Paradiso: Canto V <>. Si` comincio` Beatrice questo canto; e si` com'uom che suo parlar non spezza, continuo` cosi` 'l processo santo: <>. Cosi` Beatrice a me com'io scrivo; poi si rivolse tutta disiante a quella parte ove 'l mondo e` piu` vivo. Lo suo tacere e 'l trasmutar sembiante puoser silenzio al mio cupido ingegno, che gia` nuove questioni avea davante; e si` come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, cosi` corremmo nel secondo regno. Quivi la donna mia vid'io si` lieta, come nel lume di quel ciel si mise, che piu` lucente se ne fe' 'l pianeta. E se la stella si cambio` e rise, qual mi fec'io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise! Come 'n peschiera ch'e` tranquilla e pura traggonsi i pesci a cio` che vien di fori per modo che lo stimin lor pastura, si` vid'io ben piu` di mille splendori trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia: <>. E si` come ciascuno a noi venia, vedeasi l'ombra piena di letizia nel folgor chiaro che di lei uscia. Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia non procedesse, come tu avresti di piu` savere angosciosa carizia; e per te vederai come da questi m'era in disio d'udir lor condizioni, si` come a li occhi mi fur manifesti. <>. Cosi` da un di quelli spirti pii detto mi fu; e da Beatrice: <>. <>. Questo diss'io diritto alla lumera che pria m'avea parlato; ond'ella fessi lucente piu` assai di quel ch'ell'era. Si` come il sol che si cela elli stessi per troppa luce, come 'l caldo ha rose le temperanze d'i vapori spessi, per piu` letizia si` mi si nascose dentro al suo raggio la figura santa; e cosi` chiusa chiusa mi rispuose nel modo che 'l seguente canto canta. Paradiso: Canto VI <>. Paradiso: Canto VII <>. Cosi`, volgendosi a la nota sua, fu viso a me cantare essa sustanza, sopra la qual doppio lume s'addua: ed essa e l'altre mossero a sua danza, e quasi velocissime faville, mi si velar di subita distanza. Io dubitava e dicea 'Dille, dille!' fra me, 'dille', dicea, 'a la mia donna che mi diseta con le dolci stille'. Ma quella reverenza che s'indonna di tutto me, pur per Be e per ice, mi richinava come l'uom ch'assonna. Poco sofferse me cotal Beatrice e comincio`, raggiandomi d'un riso tal, che nel foco faria l'uom felice: <>. Paradiso: Canto VIII Solea creder lo mondo in suo periclo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo; per che non pur a lei faceano onore di sacrificio e di votivo grido le genti antiche ne l'antico errore; ma Dione onoravano e Cupido, quella per madre sua, questo per figlio, e dicean ch'el sedette in grembo a Dido; e da costei ond'io principio piglio pigliavano il vocabol de la stella che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. Io non m'accorsi del salire in ella; ma d'esservi entro mi fe' assai fede la donna mia ch'i' vidi far piu` bella. E come in fiamma favilla si vede, e come in voce voce si discerne, quand'una e` ferma e altra va e riede, vid'io in essa luce altre lucerne muoversi in giro piu` e men correnti, al modo, credo, di lor viste interne. Di fredda nube non disceser venti, o visibili o no, tanto festini, che non paressero impediti e lenti a chi avesse quei lumi divini veduti a noi venir, lasciando il giro pria cominciato in li alti Serafini; e dentro a quei che piu` innanzi appariro sonava 'Osanna' si`, che unque poi di riudir non fui sanza disiro. Indi si fece l'un piu` presso a noi e solo incomincio`: <>. Poscia che li occhi miei si fuoro offerti a la mia donna reverenti, ed essa fatti li avea di se' contenti e certi, rivolsersi a la luce che promessa tanto s'avea, e <> fue la voce mia di grande affetto impressa. E quanta e quale vid'io lei far piue per allegrezza nova che s'accrebbe, quando parlai, a l'allegrezze sue! Cosi` fatta, mi disse: <>. <>. Questo io a lui; ed elli a me: <>. E io: <>. Ond'elli ancora: <>. <>, rispuos'io; <>. <>. Si` venne deducendo infino a quici; poscia conchiuse: <>. Paradiso: Canto IX Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, m'ebbe chiarito, mi narro` li 'nganni che ricever dovea la sua semenza; ma disse: <>; si` ch'io non posso dir se non che pianto giusto verra` di retro ai vostri danni. E gia` la vita di quel lume santo rivolta s'era al Sol che la riempie come quel ben ch'a ogne cosa e` tanto. Ahi anime ingannate e fatture empie, che da si` fatto ben torcete i cuori, drizzando in vanita` le vostre tempie! Ed ecco un altro di quelli splendori ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi significava nel chiarir di fori. Li occhi di Beatrice, ch'eran fermi sovra me, come pria, di caro assenso al mio disio certificato fermi. <>, dissi, <>. Onde la luce che m'era ancor nova, del suo profondo, ond'ella pria cantava, seguette come a cui di ben far giova: <>. Qui si tacette; e fecemi sembiante che fosse ad altro volta, per la rota in che si mise com'era davante. L'altra letizia, che m'era gia` nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. Per letiziar la` su` fulgor s'acquista, si` come riso qui; ma giu` s'abbuia l'ombra di fuor, come la mente e` trista. <>, diss'io, <>. <>, incominciaro allor le sue parole, <>. Paradiso: Canto X Guardando nel suo Figlio con l'Amore che l'uno e l'altro etternalmente spira, lo primo e ineffabile Valore quanto per mente e per loco si gira con tant'ordine fe', ch'esser non puote sanza gustar di lui chi cio` rimira. Leva dunque, lettore, a l'alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l'un moto e l'altro si percuote; e li` comincia a vagheggiar ne l'arte di quel maestro che dentro a se' l'ama, tanto che mai da lei l'occhio non parte. Vedi come da indi si dirama l'oblico cerchio che i pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. Che se la strada lor non fosse torta, molta virtu` nel ciel sarebbe in vano, e quasi ogne potenza qua giu` morta; e se dal dritto piu` o men lontano fosse 'l partire, assai sarebbe manco e giu` e su` de l'ordine mondano. Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, dietro pensando a cio` che si preliba, s'esser vuoi lieto assai prima che stanco. Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba; che' a se' torce tutta la mia cura quella materia ond'io son fatto scriba. Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura, con quella parte che su` si rammenta congiunto, si girava per le spire in che piu` tosto ognora s'appresenta; e io era con lui; ma del salire non m'accors'io, se non com'uom s'accorge, anzi 'l primo pensier, del suo venire. E' Beatrice quella che si` scorge di bene in meglio, si` subitamente che l'atto suo per tempo non si sporge. Quant'esser convenia da se' lucente quel ch'era dentro al sol dov'io entra'mi, non per color, ma per lume parvente! Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, si` nol direi che mai s'imaginasse; ma creder puossi e di veder si brami. E se le fantasie nostre son basse a tanta altezza, non e` maraviglia; che' sopra 'l sol non fu occhio ch'andasse. Tal era quivi la quarta famiglia de l'alto Padre, che sempre la sazia, mostrando come spira e come figlia. E Beatrice comincio`: <>. Cor di mortal non fu mai si` digesto a divozione e a rendersi a Dio con tutto 'l suo gradir cotanto presto, come a quelle parole mi fec'io; e si` tutto 'l mio amore in lui si mise, che Beatrice eclisso` ne l'oblio. Non le dispiacque; ma si` se ne rise, che lo splendor de li occhi suoi ridenti mia mente unita in piu` cose divise. Io vidi piu` folgor vivi e vincenti far di noi centro e di se' far corona, piu` dolci in voce che in vista lucenti: cosi` cinger la figlia di Latona vedem talvolta, quando l'aere e` pregno, si` che ritenga il fil che fa la zona. Ne la corte del cielo, ond'io rivegno, si trovan molte gioie care e belle tanto che non si posson trar del regno; e 'l canto di quei lumi era di quelle; chi non s'impenna si` che la` su` voli, dal muto aspetti quindi le novelle. Poi, si` cantando, quelli ardenti soli si fuor girati intorno a noi tre volte, come stelle vicine a' fermi poli, donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che s'arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte. E dentro a l'un senti' cominciar: <>. Indi, come orologio che ne chiami ne l'ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perche' l'ami, che l'una parte e l'altra tira e urge, tin tin sonando con si` dolce nota, che 'l ben disposto spirto d'amor turge; cosi` vid'io la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch'esser non po` nota se non cola` dove gioir s'insempra. Paradiso: Canto XI O insensata cura de' mortali, quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l'ali! Chi dietro a iura, e chi ad amforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare, e chi civil negozio, chi nel diletto de la carne involto s'affaticava e chi si dava a l'ozio, quando, da tutte queste cose sciolto, con Beatrice m'era suso in cielo cotanto gloriosamente accolto. Poi che ciascuno fu tornato ne lo punto del cerchio in che avanti s'era, fermossi, come a candellier candelo. E io senti' dentro a quella lumera che pria m'avea parlato, sorridendo incominciar, faccendosi piu` mera: <>. Paradiso: Canto XII Si` tosto come l'ultima parola la benedetta fiamma per dir tolse, a rotar comincio` la santa mola; e nel suo giro tutta non si volse prima ch'un'altra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto colse; canto che tanto vince nostre muse, nostre serene in quelle dolci tube, quanto primo splendor quel ch'e' refuse. Come si volgon per tenera nube due archi paralelli e concolori, quando Iunone a sua ancella iube, nascendo di quel d'entro quel di fori, a guisa del parlar di quella vaga ch'amor consunse come sol vapori; e fanno qui la gente esser presaga, per lo patto che Dio con Noe` puose, del mondo che gia` mai piu` non s'allaga: cosi` di quelle sempiterne rose volgiensi circa noi le due ghirlande, e si` l'estrema a l'intima rispuose. Poi che 'l tripudio e l'altra festa grande, si` del cantare e si` del fiammeggiarsi luce con luce gaudiose e blande, insieme a punto e a voler quetarsi, pur come li occhi ch'al piacer che i move conviene insieme chiudere e levarsi; del cor de l'una de le luci nove si mosse voce, che l'ago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove; e comincio`: <>. Paradiso: Canto XIII Imagini, chi bene intender cupe quel ch'i' or vidi - e ritegna l'image, mentre ch'io dico, come ferma rupe -, quindici stelle che 'n diverse plage lo ciel avvivan di tanto sereno che soperchia de l'aere ogne compage; imagini quel carro a cu' il seno basta del nostro cielo e notte e giorno, si` ch'al volger del temo non vien meno; imagini la bocca di quel corno che si comincia in punta de lo stelo a cui la prima rota va dintorno, aver fatto di se' due segni in cielo, qual fece la figliuola di Minoi allora che senti` di morte il gelo; e l'un ne l'altro aver li raggi suoi, e amendue girarsi per maniera che l'uno andasse al primo e l'altro al poi; e avra` quasi l'ombra de la vera costellazione e de la doppia danza che circulava il punto dov'io era: poi ch'e` tanto di la` da nostra usanza, quanto di la` dal mover de la Chiana si move il ciel che tutti li altri avanza. Li` si canto` non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, e in una persona essa e l'umana. Compie' 'l cantare e 'l volger sua misura; e attesersi a noi quei santi lumi, felicitando se' di cura in cura. Ruppe il silenzio ne' concordi numi poscia la luce in che mirabil vita del poverel di Dio narrata fumi, e disse: <>. Paradiso: Canto XIV Dal centro al cerchio, e si` dal cerchio al centro movesi l'acqua in un ritondo vaso, secondo ch'e` percosso fuori o dentro: ne la mia mente fe' subito caso questo ch'io dico, si` come si tacque la gloriosa vita di Tommaso, per la similitudine che nacque del suo parlare e di quel di Beatrice, a cui si` cominciar, dopo lui, piacque: <>. Come, da piu` letizia pinti e tratti, a la fiata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, cosi`, a l'orazion pronta e divota, li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota. Qual si lamenta perche' qui si moia per viver cola` su`, non vide quive lo refrigerio de l'etterna ploia. Quell'uno e due e tre che sempre vive e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive, tre volte era cantato da ciascuno di quelli spirti con tal melodia, ch'ad ogne merto saria giusto muno. E io udi' ne la luce piu` dia del minor cerchio una voce modesta, forse qual fu da l'angelo a Maria, risponder: <>. Tanto mi parver subiti e accorti e l'uno e l'altro coro a dicer <>, che ben mostrar disio d'i corpi morti: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme. Ed ecco intorno, di chiarezza pari, nascere un lustro sopra quel che v'era, per guisa d'orizzonte che rischiari. E si` come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, si` che la vista pare e non par vera, parvemi li` novelle sussistenze cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da l'altre due circunferenze. Oh vero sfavillar del Santo Spiro! come si fece subito e candente a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! Ma Beatrice si` bella e ridente mi si mostro`, che tra quelle vedute si vuol lasciar che non seguir la mente. Quindi ripreser li occhi miei virtute a rilevarsi; e vidimi translato sol con mia donna in piu` alta salute. Ben m'accors'io ch'io era piu` levato, per l'affocato riso de la stella, che mi parea piu` roggio che l'usato. Con tutto 'l core e con quella favella ch'e` una in tutti, a Dio feci olocausto, qual conveniesi a la grazia novella. E non er'anco del mio petto essausto l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi esso litare stato accetto e fausto; che' con tanto lucore e tanto robbi m'apparvero splendor dentro a due raggi, ch'io dissi: <>. Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra ' poli del mondo Galassia si`, che fa dubbiar ben saggi; si` costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo. Qui vince la memoria mia lo 'ngegno; che' quella croce lampeggiava Cristo, si` ch'io non so trovare essempro degno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, ancor mi scusera` di quel ch'io lasso, vedendo in quell'albor balenar Cristo. Di corno in corno e tra la cima e 'l basso si movien lumi, scintillando forte nel congiugnersi insieme e nel trapasso: cosi` si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie d'i corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista talvolta l'ombra che, per sua difesa, la gente con ingegno e arte acquista. E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non e` intesa, cosi` da' lumi che li` m'apparinno s'accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l'inno. Ben m'accors'io ch'elli era d'alte lode, pero` ch'a me venia <> e <> come a colui che non intende e ode. Io m'innamorava tanto quinci, che 'nfino a li` non fu alcuna cosa che mi legasse con si` dolci vinci. Forse la mia parola par troppo osa, posponendo il piacer de li occhi belli, ne' quai mirando mio disio ha posa; ma chi s'avvede che i vivi suggelli d'ogne bellezza piu` fanno piu` suso, e ch'io non m'era li` rivolto a quelli, escusar puommi di quel ch'io m'accuso per escusarmi, e vedermi dir vero: che' 'l piacer santo non e` qui dischiuso, perche' si fa, montando, piu` sincero. Paradiso: Canto XV Benigna volontade in che si liqua sempre l'amor che drittamente spira, come cupidita` fa ne la iniqua, silenzio puose a quella dolce lira, e fece quietar le sante corde che la destra del cielo allenta e tira. Come saranno a' giusti preghi sorde quelle sustanze che, per darmi voglia ch'io le pregassi, a tacer fur concorde? Bene e` che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri, etternalmente quello amor si spoglia. Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or subito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond'e' s'accende nulla sen perde, ed esso dura poco: tale dal corno che 'n destro si stende a pie` di quella croce corse un astro de la costellazion che li` resplende; ne' si parti` la gemma dal suo nastro, ma per la lista radial trascorse, che parve foco dietro ad alabastro. Si` pia l'ombra d'Anchise si porse, se fede merta nostra maggior musa, quando in Eliso del figlio s'accorse. <>. Cosi` quel lume: ond'io m'attesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui; che' dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. Indi, a udire e a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, ch'io non lo 'ntesi, si` parlo` profondo; ne' per elezion mi si nascose, ma per necessita`, che' 'l suo concetto al segno d'i mortal si soprapuose. E quando l'arco de l'ardente affetto fu si` sfogato, che 'l parlar discese inver' lo segno del nostro intelletto, la prima cosa che per me s'intese, <>, fu, <>. E segui`: <>. Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno che fece crescer l'ali al voler mio. Poi cominciai cosi`: <>. <>: cotal principio, rispondendo, femmi. Poscia mi disse: <>. Paradiso: Canto XVI O poca nostra nobilta` di sangue, se gloriar di te la gente fai qua giu` dove l'affetto nostro langue, mirabil cosa non mi sara` mai: che' la` dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai. Ben se' tu manto che tosto raccorce: si` che, se non s'appon di di` in die, lo tempo va dintorno con le force. Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie, in che la sua famiglia men persevra, ricominciaron le parole mie; onde Beatrice, ch'era un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio al primo fallo scritto di Ginevra. Io cominciai: <>. Come s'avviva a lo spirar d'i venti carbone in fiamma, cosi` vid'io quella luce risplendere a' miei blandimenti; e come a li occhi miei si fe' piu` bella, cosi` con voce piu` dolce e soave, ma non con questa moderna favella, dissemi: <>. Paradiso: Canto XVII Qual venne a Climene', per accertarsi di cio` ch'avea incontro a se' udito, quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi; tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. Per che mia donna <>, mi disse, <>. <>. Cosi` diss'io a quella luce stessa che pria m'avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. Ne' per ambage, in che la gente folle gia` s'inviscava pria che fosse anciso l'Agnel di Dio che le peccata tolle, ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: <>; e disse cose incredibili a quei che fier presente. Poi giunse: <>. Poi che, tacendo, si mostro` spedita l'anima santa di metter la trama in quella tela ch'io le porsi ordita, io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: <>. La luce in che rideva il mio tesoro ch'io trovai li`, si fe' prima corusca, quale a raggio di sole specchio d'oro; indi rispuose: <>. Paradiso: Canto XVIII Gia` si godeva solo del suo verbo quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce l'acerbo; e quella donna ch'a Dio mi menava disse: <>. Io mi rivolsi a l'amoroso suono del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui l'abbandono: non perch'io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non puo` redire sovra se' tanto, s'altri non la guidi. Tanto poss'io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire, fin che 'l piacere etterno, che diretto raggiava in Beatrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto. Vincendo me col lume d'un sorriso, ella mi disse: <>. Come si vede qui alcuna volta l'affetto ne la vista, s'elli e` tanto, che da lui sia tutta l'anima tolta, cosi` nel fiammeggiar del folgor santo, a ch'io mi volsi, conobbi la voglia in lui di ragionarmi ancora alquanto. El comincio`: <>. Io vidi per la croce un lume tratto dal nomar Iosue`, com'el si feo; ne' mi fu noto il dir prima che 'l fatto. E al nome de l'alto Macabeo vidi moversi un altro roteando, e letizia era ferza del paleo. Cosi` per Carlo Magno e per Orlando due ne segui` lo mio attento sguardo, com'occhio segue suo falcon volando. Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo e 'l duca Gottifredi la mia vista per quella croce, e Ruberto Guiscardo. Indi, tra l'altre luci mota e mista, mostrommi l'alma che m'avea parlato qual era tra i cantor del cielo artista. Io mi rivolsi dal mio destro lato per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato; e vidi le sue luci tanto mere, tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e l'ultimo solere. E come, per sentir piu` dilettanza bene operando, l'uom di giorno in giorno s'accorge che la sua virtute avanza, si` m'accors'io che 'l mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto l'arco, veggendo quel miracol piu` addorno. E qual e` 'l trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando 'l volto suo si discarchi di vergogna il carco, tal fu ne li occhi miei, quando fui volto, per lo candor de la temprata stella sesta, che dentro a se' m'avea ricolto. Io vidi in quella giovial facella lo sfavillar de l'amor che li` era, segnare a li occhi miei nostra favella. E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di se' or tonda or altra schiera, si` dentro ai lumi sante creature volitando cantavano, e faciensi or D, or I, or L in sue figure. Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando l'un di questi segni, un poco s'arrestavano e taciensi. O diva Pegasea che li 'ngegni fai gloriosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e ' regni, illustrami di te, si` ch'io rilevi le lor figure com'io l'ho concette: paia tua possa in questi versi brevi! Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai le parti si`, come mi parver dette. 'DILIGITE IUSTITIAM', primai fur verbo e nome di tutto 'l dipinto; 'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai. Poscia ne l'emme del vocabol quinto rimasero ordinate; si` che Giove pareva argento li` d'oro distinto. E vidi scendere altre luci dove era il colmo de l'emme, e li` quetarsi cantando, credo, il ben ch'a se' le move. Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi surgono innumerabili faville, onde li stolti sogliono agurarsi, resurger parver quindi piu` di mille luci e salir, qual assai e qual poco, si` come 'l sol che l'accende sortille; e quietata ciascuna in suo loco, la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi rappresentare a quel distinto foco. Quei che dipinge li`, non ha chi 'l guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta quella virtu` ch'e` forma per li nidi. L'altra beatitudo, che contenta pareva prima d'ingigliarsi a l'emme, con poco moto seguito` la 'mprenta. O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme! Per ch'io prego la mente in che s'inizia tuo moto e tua virtute, che rimiri ond'esce il fummo che 'l tuo raggio vizia; si` ch'un'altra fiata omai s'adiri del comperare e vender dentro al templo che si muro` di segni e di martiri. O milizia del ciel cu' io contemplo, adora per color che sono in terra tutti sviati dietro al malo essemplo! Gia` si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che 'l pio Padre a nessun serra. Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. Ben puoi tu dire: <>. Paradiso: Canto XIX Parea dinanzi a me con l'ali aperte la bella image che nel dolce frui liete facevan l'anime conserte; parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse si` acceso, che ne' miei occhi rifrangesse lui. E quel che mi convien ritrar testeso, non porto` voce mai, ne' scrisse incostro, ne' fu per fantasia gia` mai compreso; ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, e sonar ne la voce e <> e <>, quand'era nel concetto e 'noi' e 'nostro'. E comincio`: <>. Cosi` un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. Ond'io appresso: <>. Quasi falcone ch'esce del cappello, move la testa e con l'ali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, vid'io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto, con canti quai si sa chi la` su` gaude. Poi comincio`: <>. Quale sovresso il nido si rigira poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, e come quel ch'e` pasto la rimira; cotal si fece, e si` levai i cigli, la benedetta imagine, che l'ali movea sospinte da tanti consigli. Roteando cantava, e dicea: <>. Poi si quetaro quei lucenti incendi de lo Spirito Santo ancor nel segno che fe' i Romani al mondo reverendi, esso ricomincio`: <>. Paradiso: Canto XX Quando colui che tutto 'l mondo alluma de l'emisperio nostro si` discende, che 'l giorno d'ogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima s'accende, subitamente si rifa` parvente per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente, come 'l segno del mondo e de' suoi duci nel benedetto rostro fu tacente; pero` che tutte quelle vive luci, vie piu` lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. O dolce amor che di riso t'ammanti, quanto parevi ardente in que' flailli, ch'avieno spirto sol di pensier santi! Poscia che i cari e lucidi lapilli ond'io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli, udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giu` di pietra in pietra, mostrando l'uberta` del suo cacume. E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e si` com'al pertugio de la sampogna vento che penetra, cosi`, rimosso d'aspettare indugio, quel mormorar de l'aguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio. Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core ov'io le scrissi. <>, incominciommi, <>. Quale allodetta che 'n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l'ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembio` l'imago de la 'mprenta de l'etterno piacere, al cui disio ciascuna cosa qual ell'e` diventa. E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio li` quasi vetro a lo color ch'el veste, tempo aspettar tacendo non patio, ma de la bocca, <>, mi pinse con la forza del suo peso: per ch'io di coruscar vidi gran feste. Poi appresso, con l'occhio piu` acceso, lo benedetto segno mi rispuose per non tenermi in ammirar sospeso: <>. Cosi` da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina. E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che piu` di piacer lo canto acquista, si`, mentre ch'e' parlo`, si` mi ricorda ch'io vidi le due luci benedette, pur come batter d'occhi si concorda, con le parole mover le fiammette. Paradiso: Canto XXI Gia` eran li occhi miei rifissi al volto de la mia donna, e l'animo con essi, e da ogne altro intento s'era tolto. E quella non ridea; ma <>, mi comincio`, <>. Qual savesse qual era la pastura del viso mio ne l'aspetto beato quand'io mi trasmutai ad altra cura, conoscerebbe quanto m'era a grato ubidire a la mia celeste scorta, contrapesando l'un con l'altro lato. Dentro al cristallo che 'l vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce sotto cui giacque ogne malizia morta, di color d'oro in che raggio traluce vid'io uno scaleo eretto in suso tanto, che nol seguiva la mia luce. Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso. E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon se' onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; tal modo parve me che quivi fosse in quello sfavillar che 'nsieme venne, si` come in certo grado si percosse. E quel che presso piu` ci si ritenne, si fe' si` chiaro, ch'io dicea pensando: 'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne. Ma quella ond'io aspetto il come e 'l quando del dire e del tacer, si sta; ond'io, contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'. Per ch'ella, che vedea il tacer mio nel veder di colui che tutto vede, mi disse: <>. E io incominciai: <>. <>, rispuose a me; <>. <>, diss'io, <>. Ne' venni prima a l'ultima parola, che del suo mezzo fece il lume centro, girando se' come veloce mola; poi rispuose l'amor che v'era dentro: <>. Si` mi prescrisser le parole sue, ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue. <>. Cosi` ricominciommi il terzo sermo; e poi, continuando, disse: <>. A questa voce vid'io piu` fiammelle di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea piu` belle. Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di si` alto suono, che non potrebbe qui assomigliarsi; ne' io lo 'ntesi, si` mi vinse il tuono. Paradiso: Canto XXII Oppresso di stupore, a la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre cola` dove piu` si confida; e quella, come madre che soccorre subito al figlio palido e anelo con la sua voce, che 'l suol ben disporre, mi disse: <>. Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che 'nsieme piu` s'abbellivan con mutui rai. Io stava come quei che 'n se' repreme la punta del disio, e non s'attenta di domandar, si` del troppo si teme; e la maggiore e la piu` luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di se' la mia voglia contenta. Poi dentro a lei udi': <>. E io a lui: <>. Ond'elli: <>. Cosi` mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e 'l collegio si strinse; poi, come turbo, in su` tutto s'avvolse. La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, si` sua virtu` la mia natura vinse; ne' mai qua giu` dove si monta e cala naturalmente, fu si` ratto moto ch'agguagliar si potesse a la mia ala. S'io torni mai, lettore, a quel divoto triunfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e 'l petto mi percuoto, tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtu`, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s'ascondeva vosco quelli ch'e` padre d'ogne mortal vita, quand'io senti' di prima l'aere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita d'entrar ne l'alta rota che vi gira, la vostra region mi fu sortita. A voi divotamente ora sospira l'anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a se' la tira. <>, comincio` Beatrice, <>. Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante; e quel consiglio per migliore approbo che l'ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell'ombra che mi fu cagione per che gia` la credetti rara e densa. L'aspetto del tuo nato, Iperione, quivi sostenni, e vidi com'si move circa e vicino a lui Maia e Dione. Quindi m'apparve il temperar di Giove tra 'l padre e 'l figlio: e quindi mi fu chiaro il variar che fanno di lor dove; e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. L'aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom'io con li etterni Gemelli, tutta m'apparve da' colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. Paradiso: Canto XXIII Come l'augello, intra l'amate fronde, posato al nido de' suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti disiati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l'alba nasca; cosi` la donna mia stava eretta e attenta, rivolta inver' la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: si` che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual e` quei che disiando altro vorria, e sperando s'appaga. Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir piu` e piu` rischiarando; e Beatrice disse: <>. Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia si` pieni, che passarmen convien sanza costrutto. Quale ne' plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid'i' sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l'accendea, come fa 'l nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. Oh Beatrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: <>. Come foco di nube si diserra per dilatarsi si` che non vi cape, e fuor di sua natura in giu` s'atterra, la mente mia cosi`, tra quelle dape fatta piu` grande, di se' stessa uscio, e che si fesse rimembrar non sape. <>. Io era come quei che si risente di visione oblita e che s'ingegna indarno di ridurlasi a la mente, quand'io udi' questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che 'l preterito rassegna. Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnia con le suore fero del latte lor dolcissimo piu` pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e cosi`, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e l'omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott'esso trema: non e` pareggio da picciola barca quel che fendendo va l'ardita prora, ne' da nocchier ch'a se' medesmo parca. <>. Cosi` Beatrice; e io, che a' suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de' debili cigli. Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube, gia` prato di fiori vider, coverti d'ombra, li occhi miei; vid'io cosi` piu` turbe di splendori, folgorate di su` da raggi ardenti, sanza veder principio di folgori. O benigna vertu` che si` li 'mprenti, su` t'essaltasti, per largirmi loco a li occhi li` che non t'eran possenti. Il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l'animo ad avvisar lo maggior foco; e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che la` su` vince come qua giu` vinse, per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. Qualunque melodia piu` dolce suona qua giu` e piu` a se' l'anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel piu` chiaro s'inzaffira. <>. Cosi` la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che piu` ferve e piu` s'avviva ne l'alito di Dio e nei costumi, avea sopra di noi l'interna riva tanto distante, che la sua parvenza, la` dov'io era, ancor non appariva: pero` non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si levo` appresso sua semenza. E come fantolin che 'nver' la mamma tende le braccia, poi che 'l latte prese, per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; ciascun di quei candori in su` si stese con la sua cima, si` che l'alto affetto ch'elli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser li` nel mio cospetto, 'Regina celi' cantando si` dolce, che mai da me non si parti` 'l diletto. Oh quanta e` l'uberta` che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giu` buone bobolce! Quivi si vive e gode del tesoro che s'acquisto` piangendo ne lo essilio di Babillon, ove si lascio` l'oro. Quivi triunfa, sotto l'alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l'antico e col novo concilio, colui che tien le chiavi di tal gloria. Paradiso: Canto XXIV <>. Cosi` Beatrice; e quelle anime liete si fero spere sopra fissi poli, fiammando, a volte, a guisa di comete. E come cerchi in tempra d'oriuoli si giran si`, che 'l primo a chi pon mente quieto pare, e l'ultimo che voli; cosi` quelle carole, differente- mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. Di quella ch'io notai di piu` carezza vid'io uscire un foco si` felice, che nullo vi lascio` di piu` chiarezza; e tre fiate intorno di Beatrice si volse con un canto tanto divo, che la mia fantasia nol mi ridice. Pero` salta la penna e non lo scrivo: che' l'imagine nostra a cotai pieghe, non che 'l parlare, e` troppo color vivo. <>. Poscia fermato, il foco benedetto a la mia donna dirizzo` lo spiro, che favello` cosi` com'i' ho detto. Ed ella: <>. Si` come il baccialier s'arma e non parla fin che 'l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, cosi` m'armava io d'ogne ragione mentre ch'ella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione. <>. Ond'io levai la fronte in quella luce onde spirava questo; poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perch'io spandessi l'acqua di fuor del mio interno fonte. <>, comincia' io, <>. E seguitai: <>. Allora udi': <>. E io appresso: <>. Allora udi': <>. Cosi` spiro` di quello amore acceso; indi soggiunse: <>. Ond'io: <>. Appresso usci` de la luce profonda che li` splendeva: <>. E io: <>. Io udi' poi: <>. E io: <>. Risposto fummi: <>. <>, diss'io, <>. Finito questo, l'alta corte santa risono` per le spere un 'Dio laudamo' ne la melode che la` su` si canta. E quel baron che si` di ramo in ramo, essaminando, gia` tratto m'avea, che a l'ultime fronde appressavamo, ricomincio`: <>. <>, comincia' io, <>. Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando per la novella, tosto ch'el si tace; cosi`, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, si` com'io tacqui, l'appostolico lume al cui comando io avea detto: si` nel dir li piacqui! Paradiso: Canto XXV Se mai continga che 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, si` che m'ha fatto per molti anni macro, vinca la crudelta` che fuor mi serra del bello ovile ov'io dormi' agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornero` poeta, e in sul fonte del mio battesmo prendero` 'l cappello; pero` che ne la fede, che fa conte l'anime a Dio, quivi intra' io, e poi Pietro per lei si` mi giro` la fronte. Indi si mosse un lume verso noi di quella spera ond'usci` la primizia che lascio` Cristo d'i vicari suoi; e la mia donna, piena di letizia, mi disse: <>. Si` come quando il colombo si pone presso al compagno, l'uno a l'altro pande, girando e mormorando, l'affezione; cosi` vid'io l'un da l'altro grande principe glorioso essere accolto, laudando il cibo che la` su` li prande. Ma poi che 'l gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun s'affisse, ignito si` che vincea 'l mio volto. Ridendo allora Beatrice disse: <>. <>. Questo conforto del foco secondo mi venne; ond'io levai li occhi a' monti che li 'ncurvaron pria col troppo pondo. <>. Cosi` segui` 'l secondo lume ancora. E quella pia che guido` le penne de le mie ali a cosi` alto volo, a la risposta cosi` mi prevenne: <>. Come discente ch'a dottor seconda pronto e libente in quel ch'elli e` esperto, perche' la sua bonta` si disasconda, <>, diss'io, <>. Mentr' io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo subito e spesso a guisa di baleno. Indi spiro`: <>. E io: <>. E prima, appresso al fin d'este parole, 'Sperent in te' di sopr'a noi s'udi`; a che rispuoser tutte le carole. Poscia tra esse un lume si schiari` si` che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo, l'inverno avrebbe un mese d'un sol di`. E come surge e va ed entra in ballo vergine lieta, sol per fare onore a la novizia, non per alcun fallo, cosi` vid'io lo schiarato splendore venire a' due che si volgieno a nota qual conveniesi al loro ardente amore. Misesi li` nel canto e ne la rota; e la mia donna in lor tenea l'aspetto, pur come sposa tacita e immota. <>. La donna mia cosi`; ne' pero` piue mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue. Qual e` colui ch'adocchia e s'argomenta di vedere eclissar lo sole un poco, che, per veder, non vedente diventa; tal mi fec'io a quell'ultimo foco mentre che detto fu: <>. A questa voce l'infiammato giro si quieto` con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro, si` come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne l'acqua ripercossi, tutti si posano al sonar d'un fischio. Ahi quanto ne la mente mi commossi, quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benche' io fossi presso di lei, e nel mondo felice! Paradiso: Canto XXVI Mentr'io dubbiava per lo viso spento, de la fulgida fiamma che lo spense usci` un spiro che mi fece attento, dicendo: <>. Io dissi: <>. Quella medesma voce che paura tolta m'avea del subito abbarbaglio, di ragionare ancor mi mise in cura; e disse: <>. E io: <>. E io udi': <>. Non fu latente la santa intenzione de l'aguglia di Cristo, anzi m'accorsi dove volea menar mia professione. Pero` ricominciai: <>. Si` com'io tacqui, un dolcissimo canto risono` per lo cielo, e la mia donna dicea con li altri: <>. E come a lume acuto si disonna per lo spirto visivo che ricorre a lo splendor che va di gonna in gonna, e lo svegliato cio` che vede aborre, si` nescia e` la subita vigilia fin che la stimativa non soccorre; cosi` de li occhi miei ogni quisquilia fugo` Beatrice col raggio d'i suoi, che rifulgea da piu` di mille milia: onde mei che dinanzi vidi poi; e quasi stupefatto domandai d'un quarto lume ch'io vidi tra noi. E la mia donna: <>. Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva per la propria virtu` che la soblima, fec'io in tanto in quant'ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ond'io ardeva. E cominciai: <>. Talvolta un animal coverto broglia, si` che l'affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la 'nvoglia; e similmente l'anima primaia mi facea trasparer per la coverta quant'ella a compiacermi venia gaia. Indi spiro`: <>. Paradiso: Canto XXVII 'Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo', comincio`, 'gloria!', tutto 'l paradiso, si` che m'inebriava il dolce canto. Cio` ch'io vedeva mi sembiava un riso de l'universo; per che mia ebbrezza intrava per l'udire e per lo viso. Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! oh vita integra d'amore e di pace! oh sanza brama sicura ricchezza! Dinanzi a li occhi miei le quattro face stavano accese, e quella che pria venne incomincio` a farsi piu` vivace, e tal ne la sembianza sua divenne, qual diverrebbe Iove, s'elli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne. La provedenza, che quivi comparte vice e officio, nel beato coro silenzio posto avea da ogne parte, quand'io udi': <>. Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane, vid'io allora tutto 'l ciel cosperso. E come donna onesta che permane di se' sicura, e per l'altrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane, cosi` Beatrice trasmuto` sembianza; e tale eclissi credo che 'n ciel fue, quando pati` la supprema possanza. Poi procedetter le parole sue con voce tanto da se' trasmutata, che la sembianza non si muto` piue: <>. Si` come di vapor gelati fiocca in giuso l'aere nostro, quando 'l corno de la capra del ciel col sol si tocca, in su` vid'io cosi` l'etera addorno farsi e fioccar di vapor triunfanti che fatto avien con noi quivi soggiorno. Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, e segui` fin che 'l mezzo, per lo molto, li tolse il trapassar del piu` avanti. Onde la donna, che mi vide assolto de l'attendere in su`, mi disse: <>. Da l'ora ch'io avea guardato prima i' vidi mosso me per tutto l'arco che fa dal mezzo al fine il primo clima; si` ch'io vedea di la` da Gade il varco folle d'Ulisse, e di qua presso il lito nel qual si fece Europa dolce carco. E piu` mi fora discoverto il sito di questa aiuola; ma 'l sol procedea sotto i mie' piedi un segno e piu` partito. La mente innamorata, che donnea con la mia donna sempre, di ridure ad essa li occhi piu` che mai ardea; e se natura o arte fe' pasture da pigliare occhi, per aver la mente, in carne umana o ne le sue pitture, tutte adunate, parrebber niente ver' lo piacer divin che mi refulse, quando mi volsi al suo viso ridente. E la virtu` che lo sguardo m'indulse, del bel nido di Leda mi divelse, e nel ciel velocissimo m'impulse. Le parti sue vivissime ed eccelse si` uniforme son, ch'i' non so dire qual Beatrice per loco mi scelse. Ma ella, che vedea 'l mio disire, incomincio`, ridendo tanto lieta, che Dio parea nel suo volto gioire: <>. Paradiso: Canto XXVIII Poscia che 'ncontro a la vita presente d'i miseri mortali aperse 'l vero quella che 'mparadisa la mia mente, come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se n'alluma retro, prima che l'abbia in vista o in pensiero, e se' rivolge per veder se 'l vetro li dice il vero, e vede ch'el s'accorda con esso come nota con suo metro; cosi` la mia memoria si ricorda ch'io feci riguardando ne' belli occhi onde a pigliarmi fece Amor la corda. E com'io mi rivolsi e furon tocchi li miei da cio` che pare in quel volume, quandunque nel suo giro ben s'adocchi, un punto vidi che raggiava lume acuto si`, che 'l viso ch'elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume; e quale stella par quinci piu` poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si colloca. Forse cotanto quanto pare appresso alo cigner la luce che 'l dipigne quando 'l vapor che 'l porta piu` e` spesso, distante intorno al punto un cerchio d'igne si girava si` ratto, ch'avria vinto quel moto che piu` tosto il mondo cigne; e questo era d'un altro circumcinto, e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto, dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. Sopra seguiva il settimo si` sparto gia` di larghezza, che 'l messo di Iuno intero a contenerlo sarebbe arto. Cosi` l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno piu` tardo si movea, secondo ch'era in numero distante piu` da l'uno; e quello avea la fiamma piu` sincera cui men distava la favilla pura, credo, pero` che piu` di lei s'invera. La donna mia, che mi vedea in cura forte sospeso, disse: <>. E io a lei: <>. <>. Cosi` la donna mia; poi disse: <>. Come rimane splendido e sereno l'emisperio de l'aere, quando soffia Borea da quella guancia ond'e` piu` leno, per che si purga e risolve la roffia che pria turbava, si` che 'l ciel ne ride con le bellezze d'ogne sua paroffia; cosi` fec'io, poi che mi provide la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide. E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla che bolle, come i cerchi sfavillaro. L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro piu` che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. Io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene a li ubi, e terra` sempre, ne' quai sempre fuoro. E quella che vedea i pensier dubi ne la mia mente, disse: <>. Paradiso: Canto XXIX Quando ambedue li figli di Latona, coperti del Montone e de la Libra, fanno de l'orizzonte insieme zona, quant'e` dal punto che 'l cenit inlibra infin che l'uno e l'altro da quel cinto, cambiando l'emisperio, si dilibra, tanto, col volto di riso dipinto, si tacque Beatrice, riguardando fiso nel punto che m'avea vinto. Poi comincio`: <>. Paradiso: Canto XXX Forse semilia miglia di lontano ci ferve l'ora sesta, e questo mondo china gia` l'ombra quasi al letto piano, quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch'alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol piu` oltre, cosi` 'l ciel si chiude di vista in vista infino a la piu` bella. Non altrimenti il triunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Beatrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch'io vidi si trasmoda non pur di la` da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo piu` che gia` mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: che', come sole in viso che piu` trema, cosi` lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m'e` il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista piu` dietro a sua bellezza, poetando, come a l'ultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l'ardua sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricomincio`: <>. Come subito lampo che discetti li spiriti visivi, si` che priva da l'atto l'occhio di piu` forti obietti, cosi` mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m'appariva. <>. Non fur piu` tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch'io compresi me sormontar di sopr'a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce e` tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d'ogne parte si mettien ne' fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebriate da li odori, riprofondavan se' nel miro gurge; e s'una intrava, un'altra n'uscia fori. <>: cosi` mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: <>. Non e` fantin che si` subito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l'usanza sua, come fec'io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l'onda che si deriva perche' vi s'immegli; e si` come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, cosi` mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sua in che disparve, cosi` mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, si` ch'io vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cu' io vidi l'alto triunfo del regno verace, dammi virtu` a dir com'io il vidi! Lume e` la` su` che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. E' si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando e` nel verde e ne' fioretti opimo, si`, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in piu` di mille soglie quanto di noi la` su` fatto ha ritorno. E se l'infimo grado in se' raccoglie si` grande lume, quanta e` la larghezza di questa rosa ne l'estreme foglie! La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e 'l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, li`, ne' pon ne' leva: che' dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual e` colui che tace e dicer vole, mi trasse Beatrice, e disse: <>. Paradiso: Canto XXXI In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma l'altra, che volando vede e canta la gloria di colui che la 'nnamora e la bonta` che la fece cotanta, si` come schiera d'ape, che s'infiora una fiata e una si ritorna la` dove suo laboro s'insapora, nel gran fior discendeva che s'addorna di tante foglie, e quindi risaliva la` dove 'l suo amor sempre soggiorna. Le facce tutte avean di fiamma viva, e l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva. Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de l'ardore ch'elli acquistavan ventilando il fianco. Ne' l'interporsi tra 'l disopra e 'l fiore di tanta moltitudine volante impediva la vista e lo splendore: che' la luce divina e` penetrante per l'universo secondo ch'e` degno, si` che nulla le puote essere ostante. Questo sicuro e gaudioso regno, frequente in gente antica e in novella, viso e amore avea tutto ad un segno. O trina luce, che 'n unica stella scintillando a lor vista, si` li appaga! guarda qua giuso a la nostra procella! Se i barbari, venendo da tal plaga che ciascun giorno d'Elice si cuopra, rotante col suo figlio ond'ella e` vaga, veggendo Roma e l'ardua sua opra, stupefaciensi, quando Laterano a le cose mortali ando` di sopra; io, che al divino da l'umano, a l'etterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano di che stupor dovea esser compiuto! Certo tra esso e 'l gaudio mi facea libito non udire e starmi muto. E quasi peregrin che si ricrea nel tempio del suo voto riguardando, e spera gia` ridir com'ello stea, su per la viva luce passeggiando, menava io li occhi per li gradi, mo su`, mo giu` e mo recirculando. Vedea visi a carita` suadi, d'altrui lume fregiati e di suo riso, e atti ornati di tutte onestadi. La forma general di paradiso gia` tutta mio sguardo avea compresa, in nulla parte ancor fermato fiso; e volgeami con voglia riaccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intendea, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti gloriose. Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene. E <>, subito diss'io. Ond'elli: <>. Sanza risponder, li occhi su` levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da se' li etterni rai. Da quella region che piu` su` tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare piu` giu` s'abbandona, quanto li` da Beatrice la mia vista; ma nulla mi facea, che' sua effige non discendea a me per mezzo mista. <>. Cosi` orai; e quella, si` lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si torno` a l'etterna fontana. E 'l santo sene: <>, disse, <>. Qual e` colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l'antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: 'Segnor mio Iesu` Cristo, Dio verace, or fu si` fatta la sembianza vostra?'; tal era io mirando la vivace carita` di colui che 'n questo mondo, contemplando, gusto` di quella pace. <>, comincio` elli, <>. Io levai li occhi; e come da mattina la parte oriental de l'orizzonte soverchia quella dove 'l sol declina, cosi`, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta l'altra fronte. E come quivi ove s'aspetta il temo che mal guido` Fetonte, piu` s'infiamma, e quinci e quindi il lume si fa scemo, cosi` quella pacifica oriafiamma nel mezzo s'avvivava, e d'ogne parte per igual modo allentava la fiamma; e a quel mezzo, con le penne sparte, vid'io piu` di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e d'arte. Vidi a lor giochi quivi e a lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi; e s'io avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia. Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei, che ' miei di rimirar fe' piu` ardenti. Paradiso: Canto XXXII Affetto al suo piacer, quel contemplante libero officio di dottore assunse, e comincio` queste parole sante: <>. Io vidi sopra lei tanta allegrezza piover, portata ne le menti sante create a trasvolar per quella altezza, che quantunque io avea visto davante, di tanta ammirazion non mi sospese, ne' mi mostro` di Dio tanto sembiante; e quello amor che primo li` discese, cantando 'Ave, Maria, gratia plena', dinanzi a lei le sue ali distese. Rispuose a la divina cantilena da tutte parti la beata corte, si` ch'ogne vista sen fe' piu` serena. <>. Cosi` ricorsi ancora a la dottrina di colui ch'abbelliva di Maria, come del sole stella mattutina. Ed elli a me: <>. E comincio` questa santa orazione: Paradiso: Canto XXXIII <>. Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l'orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l'etterno lume s'addrizzaro, nel qual non si dee creder che s'invii per creatura l'occhio tanto chiaro. E io ch'al fine di tutt'i disii appropinquava, si` com'io dovea, l'ardor del desiderio in me finii. Bernardo m'accennava, e sorridea, perch'io guardassi suso; ma io era gia` per me stesso tal qual ei volea: che' la mia vista, venendo sincera, e piu` e piu` intrava per lo raggio de l'alta luce che da se' e` vera. Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. Qual e` colui che sognando vede, che dopo 'l sogno la passione impressa rimane, e l'altro a la mente non riede, cotal son io, che' quasi tutta cessa mia visione, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Cosi` la neve al sol si disigilla; cosi` al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti levi da' concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch'una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; che', per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, piu` si concepera` di tua vittoria. Io credo, per l'acume ch'io soffersi del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. E' mi ricorda ch'io fui piu` ardito per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi l'aspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ond'io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s'interna legato con amore in un volume, cio` che per l'universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che cio` ch'i' dico e` un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo ch'i' vidi, perche' piu` di largo, dicendo questo, mi sento ch'i' godo. Un punto solo m'e` maggior letargo che venticinque secoli a la 'mpresa, che fe' Nettuno ammirar l'ombra d'Argo. Cosi` la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto e` impossibil che mai si consenta; pero` che 'l ben, ch'e` del volere obietto, tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella e` defettivo cio` ch'e` li` perfetto. Omai sara` piu` corta mia favella, pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. Non perche' piu` ch'un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch'io mirava, che tal e` sempre qual s'era davante; ma per la vista che s'avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom'io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de l'alto lume parvermi tre giri di tre colori e d'una contenenza; e l'un da l'altro come iri da iri parea reflesso, e 'l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto e` corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi, e` tanto, che non basta a dicer 'poco'. O luce etterna che sola in te sidi, sola t'intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che si` concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da se', del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che 'l mio viso in lei tutto era messo. Qual e` 'l geometra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova; ma non eran da cio` le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l'alta fantasia qui manco` possa; ma gia` volgeva il mio disio e 'l velle, si` come rota ch'igualmente e` mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle. POSTSCRIPT 'Ich habe unter meinen Papieren ein Blatt gefunden, wo ich die Baukunst eine erstarrte Musik nenne.' (Johann Wolfgang Goethe, 1829 March 23) I found Dante in a bar. The Poet had indeed lost the True Way to be found reduced to party chatter in a Capitol Hill basement, but I had found him at last. I must have been drinking in the Dark Tavern of Error, for I did not even realize I had begun the dolorous path followed by many since the Poet's journey of A.D. 1300. Actually no one spoke a word about Dante or his Divine Comedy, rather I heard a second-hand Goethe call architecture "frozen music." Soon I took my second step through the gate to a people lost; this time on a more respectable occasion--a lecture at the Catholic University of America. Clio, the muse of history, must have been aiding Prof. Schumacher that evening, because it sustained my full three-hour attention, even after I had just presented an all-night project. There I heard of a most astonishing Italian translation of 'la Divina Commedia' di Dante Alighieri. An Italian architect, Giuseppi Terragni, had translated the Comedy into the 'Danteum,' a projected stone and glass monument to Poet and Poem near the Basilica of Maxentius in Rome. Do not look for the Danteum in the Eternal City. In true Dantean form, politics stood in the way of its construction in 1938. Ironically this literature-inspired building can itself most easily be found in book form. Reading this book I remembered Goethe's quote about frozen music. Did Terragni try to freeze Dante's medieval miracle of song? Certainly a cold-poem seems artistically repulsive. Unflattering comparisons to the lake of Cocytus spring to mind too. While I cannot read Italian, I can read some German. After locating the original quotation I discovered that 'frozen' is a problematic (though common) translation of Goethe's original 'erstarrte.' The verb 'erstarren' more properly means 'to solidify' or 'to stiffen.' This suggests a chemical reaction in which the art does not necessarily chill in the transformation. Nor can simple thawing yield the original work. Like a chemical reaction it requires an artistic catalyst, a muse. Indeed the Danteum is not a physical translation of the Poem. Terragni thought it inappropriate to translate the Comedy literally into a non-literary work. The Danteum would not be a stage set, rather Terragni generated his design from the Comedy's structure, not its finishes. The poem is divided into three canticles of thirty-three cantos each, plus one extra in the first, the Inferno, making a total of one hundred cantos. Each canto is composed of three-line tercets, the first and third lines rhyme, the second line rhymes with the beginning of the next tercet, establishing a kind of overlap, reflected in the overlapping motif of the Danteum design. Dante's realms are further subdivided: the Inferno is composed of nine levels, the vestibule makes a tenth. Purgatory has seven terraces, plus two ledges in an ante-purgatory; adding these to the Earthly Paradise yields ten zones. Paradise is composed of nine heavens; Empyrean makes the tenth. In the Inferno, sinners are organized by three vices--Incontinence, Violence, and Fraud--and further subdivided by the seven deadly sins. In Purgatory, penance is ordered on the basis of three types of natural love. Paradise is organized on the basis of three types of Divine Love, and further subdivided according to the three theological and four cardinal virtues. (Thomas Schumacher, "The Danteum," Princeton Architectural Press, 1993) By translating the structure, Terragni could then layer the literal and the spiritual meanings of the Poem without allowing either to dominate. These layers of meaning are native to the Divine Comedy as they are native to much medieval literature, although modern readers and tourists may not be so familiar with them. They are literal, allegorical, moral, and anagogical. I offer you St. Thomas of Aquinas' definition of these last three as they relate to Sacred Scripture: . . .this spiritual sense has a threefold division. . .so far as the things of the Old Law signify the things of the New Law, there is the allegorical sense; so far as the things done in Christ, or so far as the things which signify Christ, are types of what we ought to do, there is the moral sense. But so far as they signify what relates to eternal glory, there is the anagogical sense. (Summa Theologica I, 1, 10) Within the Danteum the Poet's meanings lurk in solid form. An example: the Danteum design does have spaces literally associated with the Comedy--the Dark Wood of Error, Inferno, Purgatorio, and the Paradiso--but these spaces also relate among themselves spiritually. Dante often highlights a virtue by first condemning its corruption. Within Dante's system Justice is the greatest of the cardinal virtues; its corruption, Fraud, is the most contemptible of vices. Because Dante saw the papacy as the most precious of sacred institutions, corrupt popes figure prominently among the damned in the Poet's Inferno. In the Danteum the materiality of the worldly Dark Wood directly opposes the transcendence of the Paradiso. In the realm of error every thought is lost and secular, while in heaven every soul's intent is directed toward God. The shadowy Inferno of the Danteum mirrors the Purgatorio's illuminated ascent to heaven. Purgatory embodies hope and growth where hell chases its own dark inertia. Such is the cosmography shared by Terragni and Dante. In this postscript I intend neither to fully examine the meaning nor the plan of the Danteum, but rather to evince the power that art has acted as a catalyst to other artists. The Danteum, a modern design inspired by a medieval poem, is but one example. Dante's poem is filled with characters epitomizing the full range of vices and virtues of human personalities. Dante's characters come from his present and literature's past; they are mythological, biblical, classical, ancient, and medieval. They, rather than Calliope and her sisters, were Dante's muses. 'La Divina Commedia' seems a natural candidate to complete Project Gutenberg's first milleditio and to begin its second thousand e-texts. Although distinctly medieval, its continuum of influence spans the Renaissance and modernity. Terragni saw his place within the Comedy as surely as Dante saw his own. We too fit within Dante's understanding of the human condition; we differ less from our past than we might like to believe. T. S. Eliot understood this when he wrote "Dante and Shakespeare divide the modern world between them, there is no third." So now Dante joins Shakespeare (e-text #100) in the Project Gutenberg collection. Two works that influenced Dante are also part of the collection: The Bible (#10) and Virgil's Aeneid (#227). Other major influences--St. Thomas of Aquinas' Summa Theologica, The Metamorphoses of Ovid, and Aristotle's Nicomachean Ethics--are available in electronic form at other Internet sites. If one searches enough he may even find a computer rendering of the Danteum on the Internet. By presenting this electronic text to Project Gutenberg it is my hope that in will not rest in a computer unknown and unread; it is my hope that artists will see themselves in the Divine Comedy and be inspired, just as Dante ran the paths left by Virgil and St. Thomas that lead him to the stars. Dennis McCarthy, July 1997 Atlanta, Georgia USA imprimatur@juno.com TECHNICAL NOTES This edition has been rendered in 7-bit ASCII. Special Italian characters that require an 8-bit format have been transcribed into multiple characters. Below is a chart with the 8-bit character (which may not display properly), its written description, and how it has been rendered in this 7-bit version. « guillemot left << » guillemot right >> à a grave accent a` (at the end of a word, otherwise: a) è e grave accent e` (at the end of a word, otherwise: e) é e acute accent e' (at the end of a word, otherwise: e) ì i grave accent i` (at the end of a word, otherwise: i) ï i diaresis/umlaut ii ò o grave accent o` (at the end of a word, otherwise: o) ó o acute accent o' (at the end of a word, otherwise: o) ù u grave accent u` (at the end of a word, otherwise: u) Italic text, displayed with mark-up tags (italic) in the 8-bit version, has has not been rendered here. To view the italics and special characters please refer to the 8-bit or HTML version of this e-text. End of this Project Gutenberg E-text of La Divina Commedia di Dante Alighieri [7-bit text]